Uscita in pieno lockdown, l’autobiografia di Woody Allen ha smorzato, in chi ha potuto leggerla, le ansie delle cattività. Anche se un terzo delle pagine è dedicata a distruggere, ancora una volta, le controverse accuse di molestie da parte dell’ex compagna Mia Farrow nei confronti della figlia adottiva Dylan, le memorie di Allen sono una buona introduzione al suo cinema e un catalogo di battute memorabili. Le pagine più belle sono quelle dedicate all’infanzia e all’adolescenza di proletario ebreo newyorkese. Allen è uno dei pochi uomini che ha saputo rendere esilarante e creativa la sua ossessione della morte. A ottantaquattro anni il regista ha scritto la sua personale apologia socratica: “Alla mia età, ormai ho poco da perdere. Non credendo in un aldilà, non vedo che cosa possa cambiare se verrò ricordato come un regista o come un pedofilo. Chiedo solo che le mie ceneri vengano sparse vicino a una farmacia”.
Woody Allen, A proposito di niente, La Nave di Teseo, Milano 2020
A quarant’anni dalla sua pubblicazione e con 50 milioni di copie vendute, si ristampa “Il nome della rosa” di Umberto Eco, un’edizione con gli appunti preparatori e i disegni dell’autore, e vale davvero la pena riprenderla in mano. Sul romanzo è stato detto di tutto: allegoria politica, poliziesco medievale, paradiso citazionistico, paccottiglia per lettori semi-acculturati, indigesta “zuppa medievale” (così il critico Piergiorgio Bellocchio). Forse si può rileggerlo oggi e apprendere come la verità sia spesso intrecciata con l’errore, e che ogni verità umana che non porti con sé la possibilità dell’errore diventa solo dogmatismo e violenza. Come accade nel venerabile Jorge, il mauvaise monaco benedettino del romanzo che «amava in modo così lubrico la sua verità da osare tutto pur di distruggere la menzogna».
Umberto Eco, Il nome della rosa, La Nave di Teseo, Milano 2020
Dopo il salutare successo editoriale di “Mussolini ha fatto cose buone”, Francesco Filippi ritorna a interrogarsi sul fascismo e su un nodo decisivo, di cui ancora scontiamo gli effetti, ossia quello della difficoltà della transizione dal regime alla repubblica e dell’incompleta defascistizzazione degli italiani. Non evoca teorie sul fascismo intrinseco della nazione, ma interroga precisi passaggi storici che non hanno avuto la profondità e la durezza necessarie, come «atteggiamenti pubblici, assunzioni di responsabilità, operazioni di epurazioni, leggi».
Francesco Filippi, Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto, Bollati Borighieri, Torino 2020.
Pubblicato martedì 16 Giugno 2020
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