Dal 24 febbraio ci arrivano quotidianamente le drammatiche sequenze del devastante conflitto tra Russia e Ucraina, che ha innescato una pericolosissima partita geopolitica di dimensione globale. A fronte di quanto si legge e si ascolta su ciò che si è acceso nel cuore dell’Europa e che rischia di far precipitare gran parte del mondo in un terribile baratro, non si può non tornare con la mente al celebre scambio epistolare tra Albert Einstein e Sigmund Freud dell’estate 1932, quando questi due giganti della cultura e della scienza contemporanea si sono interrogati sulle vie e le modalità per affrancare l’umanità dalla “fatalità della guerra”, dal “male oscuro” che ha scandito e corroso la storia.
Contro le minacce portate alla pace dall’avanzata del fascismo in Germania, contro l’angosciosa possibilità che divampasse di nuovo un micidiale scontro bellico sul piano generale, si svolge – non a caso – il 17 agosto 1932, ad Amsterdam, un Congresso mondiale con la partecipazione di centinaia di intellettuali, per iniziativa di Henri Barbusse, lo “Zola delle trincee”, e di Romain Rolland, che nel settembre del 1914 aveva esortato gli uomini di cultura a tenersi “al di sopra della mischia”, a non lasciarsi trascinare nell’ubriacatura ideologica alimentata dai nazionalismi in feroce lotta fra loro.
Vi è chi in quegli anni – nel tempo delle “muse in armi” – è, invece, di tutt’altro avviso, come Carl Schmitt, uno dei più vivaci esponenti della “rivoluzione conservatrice”. Convinto sostenitore del nazismo, interprete della spinta alla militarizzazione della politica che attraversa il Vecchio continente in quella fase storica, il giurista e politologo tedesco parla apertamente di “guerra civile internazionale”, ritenendo la politica la sfera degli antagonismi irriducibili, del contrasto insanabile fra “amico e nemico”.
Comunque, con l’avvento del nazismo al potere cresce fortemente la preoccupazione per le sorti della pace. Appena alcuni mesi dopo l’insediamento al governo di Adolf Hitler, nel novembre 1933 Carlo Rosselli scrive La guerra che torna nei Quaderni di Giustizia e Libertà. In questo profetico articolo, una delle voci più nobili e combattive dell’antifascismo, che sarà assassinato nel 1937 insieme al fratello Nello su mandato di Benito Mussolini, paventa l’avviarsi “a grandi passi” dell’Europa verso un nuovo conflitto e sprona a “sabotare” le mene belliciste dei fascismi, trasformando “la guerra in rivoluzione”.
All’incirca negli stessi giorni appare su La Critique sociale il saggio di Simone Weil, Riflessioni sulla guerra. Eloquente è l’incipit della giovanissima e originale pensatrice francese: “La situazione attuale e lo stato d’animo che essa suscita riportano all’ordine del giorno il problema della guerra. Si vive attualmente nella continua attesa di una guerra; il pericolo è forse immaginario, ma il sentimento del pericolo esiste, e ne costituisce un fattore non trascurabile”. Si avverte in queste parole quanto il trauma della Grande guerra – immane bagno di sangue – pesi sull’immaginario collettivo e sulle coscienze di tanti intellettuali, che reputano la propria epoca espressione di una “crisi di civiltà” e sono profondamente turbati dall’inedita fisionomia assunta dal fenomeno della guerra, divenuta una ciclopica industria della morte.
Dentro questo orizzonte politico-culturale si situa il carteggio tra Einstein e Freud sull’individuazione degli strumenti e dei percorsi più idonei a garantire la “pace mondiale”, a scongiurare il ripetersi di annichilenti conflitti armati.
Il 30 luglio 1932, per impulso dell’Istituto internazionale per la cooperazione internazionale, su invito del Comitato permanente delle lettere e delle arti della Società delle Nazioni, Albert Einstein interpella Sigmund Freud sul tema della guerra che, col “progredire della scienza moderna”, è assurto a “questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta”.
Ben lontano da quanti si sottraggono alle proprie responsabilità, nascondendosi dietro la neutralità del sapere scientifico, il geniale fisico, che già si era distinto per il suo impegno pacifista contro il militarismo e la carneficina del Primo conflitto mondiale, indica nel rapporto fra potere e giustizia il punto nodale del problema. La soluzione che prospetta è basata sulla parziale rinuncia di ogni Stato “alla propria libertà d’azione”, pur nella piena consapevolezza che la “sete di potere della classe dominante” avversa “qualsiasi limitazione della sovranità nazionale”.
Il grande scienziato si chiede, inoltre, come sia possibile che le masse si lascino infiammare dai mezzi di comunicazione e informazione “fino al furore e all’olocausto di sé”. Domanda, infine, al padre della psicanalisi se si possa dirigere “l’evoluzione psichica degli uomini” in maniera tale da farli resistere “alle psicosi dell’odio e della distruzione”. E qui Einstein si riferisce non solo alle “cosiddette masse incolte”, ma soprattutto alla “cosiddetta intellighenzia”, che “cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata”.
Le sollecitazioni di Einstein offrono l’occasione a Freud per riprendere una meditazione iniziata nel 1915, con le Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, e proseguita in Il disagio della civiltà (1929), in cui lo psicanalista viennese si congeda dal lettore con una speranza minata da un palese scetticismo: “Il problema decisivo della specie umana mi sembra che sia se e fino a che punto il processo culturale riuscirà a dominare il disordine della vita collettiva provocato dall’istinto aggressivo e autodistruttivo. Sotto tale aspetto, la fase che adesso attraversiamo mi sembra forse di particolare interesse. Gli uomini hanno raggiunto un tale potere sulle forze della natura che ora, usandolo, potrebbero facilmente sterminarsi tutti fino all’ultimo uomo”.
La risposta ad Einstein di Freud (settembre 1932), a cui si devono – non lo si dimentichi – le prime e più penetranti riflessioni psicoanalitiche sulla guerra, è quella accorata di un grande umanista, che nutre non pochi dubbi sull’efficacia del suo contributo scientifico alla causa della pace. E tuttavia egli si misura con il nodo problematico della guerra sulla base dei modelli che è venuto elaborando nel corso degli anni: prima con la teoria del conflitto fra pulsioni dell’Io o di autoconservazione e pulsioni erotiche o libido, poi – proprio per rispondere al suo eccezionale interlocutore – con la nuova teoria delle pulsioni di vita e di morte, secondo cui l’aggressività alberga in una pulsione della psiche umana, quella tesa alla morte, che coesiste conflittualmente con la pulsione votata alla vita.
Sono la guerra e la spinta verso di essa a mettere a nudo la natura illusoria della convinzione secondo cui gli uomini siano giunti a un livello così alto di civiltà da essersi lasciati alle spalle qualunque forma di brutalità. Quella verso la violenza distruttrice è, invece, per Freud una pulsione psichica contenibile, sì, mediante varie forme di repressione, ma difficilmente eliminabile. Tuttavia, non esclude che un ulteriore passo in avanti sulla strada dell’incivilimento, accoppiato al “giustificato timore” delle conseguenze di un conflitto futuro, possa generare l’“intolleranza costituzionale” verso il ricorso alla guerra.
Quel suo auspicio sarà smentito sette anni più tardi dallo scoppio del Secondo conflitto mondiale, allorché Freud – esule in Inghilterra – farà appena in tempo ad assistere al ritorno in Europa della seduzione della guerra e al definitivo naufragio della Società delle Nazioni, in cui pure aveva riposto qualche speranza. Dal canto suo, Albert Einstein saluterà con entusiasmo la nascita, nell’ottobre del 1945, dell’Onu, l’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Soprattutto non smetterà di battersi, sino alla fine dei suoi giorni, contro il pericolo della guerra, promuovendo nell’aprile 1955 con il grande matematico e filosofo britannico, Bertrand Russell, un’importante dichiarazione in favore del disarmo atomico, sottoscritta da eminenti intellettuali e scienziati. Contro il nuovo, esiziale rischio dell’olocausto nucleare lancerà un inascoltato, ma quanto mai attuale, monito: “L’umanità deve distruggere gli armamenti, prima che gli armamenti distruggano l’umanità”.
Francesco Soverina, Istituto campano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea
Pubblicato venerdì 20 Maggio 2022
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