27 maggio 1954 – Cominciarono ad arrivare a Reggio Emilia la sera del sabato, con vari treni: chi veniva dalla Calabria, chi dal Piemonte, chi dal Friuli. Erano persone anziane, coi capelli bianchi, persone modeste, che non davano nell’occhio. Si trovarono al posto convenuto. Erano una piccola compagnia di vecchietti, tutti di paesi diversi, di diversi ceti e professioni. Ma si conoscevano tutti già da tempo, si salutavano: “Come sta, signor avvocato? Ha fatto buon viaggio, cavaliere?”. Conoscevano i fatti l’uno dell’altro, avevano in comune ricordi di altri incontri recenti, conversazioni incominciate, che ora riprendevano. Erano venuti a Reggio invitati da un altro vecchietto, fittavolo in una campagna là vicino.
La cosa in comune era questa: erano tutti padri e madri, e i loro figli erano morti in guerra, come tanti, ma i loro erano morti compiendo atti coraggiosi, imprese fuori del comune, e avevano avuto la medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria. Erano genitori di Medaglie d’Oro della Guerra di Liberazione, che compongono la presidenza di un’Associazione dal nome solenne: “Consiglio nazionale del valore e del sacrificio”. Ora il Comitato di presidenza doveva riunirsi per decidere sulle iniziative da prendere nel decennale della Resistenza, e il vice-presidente del loro Consiglio, Alcide Cervi, il padre dei sette fratelli fucilati, l’uomo che porta sette medaglie d’argento appese al petto, li aveva invitati a casa sua.
Eccoli dunque convenuti a Reggio Emilia per andare insieme al fondo dei Cervi, a Praticello. Guardiamoli da vicino, questi vecchi, cerchiamo di immaginare attraverso gli occhi loro che li videro crescere – poveri occhi che hanno molto pianto, che ogni tanto ancora riprendono a piangere – quei loro figli, che non ci sono più. Questo vecchietto lindo e minuto, dalla persona e dalla parola accurata, dalla stringata mimica meridionale è l’avvocato Cortese, di Vibo Valentia (Catanzaro), padre di Vinicio Cortese, sottotenente degli Arditi, che l’8 settembre restò in Piemonte a fare il partigiano e due volte fu catturato dai tedeschi e due volte evase, e al ponte di Ozzano-Monferrato alla pattuglia tedesca che lo sorprese mentre stava per mettere la mina si avventò solo contro quaranta a colpi di pistola e quando non ebbe più colpi gettò l’arma scarica in faccia ai nemici che gli rafficavano sul petto. E questo torinese tarchiato, dall’aria fiera e dalla parola espansiva è il pensionato delle ferrovie Francesco Cavezzale, padre del marinaio elettricista Pietro Cavezzale che all’isola di Lero assalita dai tedeschi, a mano a mano che i compagni a turno cadevano e le munizioni venivan meno, s’improvvisava cannoniere, poi mitragliere, poi correva con la baionetta a trapassare un ufficiale nemico ed a morire. E questo signore di grossa corporatura ma dall’aria riguardosa e modesta è Amilcare Sarti che ha un negozio di vernici a Ravenna: e suo figlio, il tenente di vascello Primo Sarti, cadde in uno dei più foschi episodi della guerra: mentre nel 1944 navigava col suo sommergibile della Marina dell’Italia libera tra la Sardegna e la Corsica, un gruppo di marinai fascisti s’ammutinò e uccise gli ufficiali che rifiutavano di fare rotta verso i porti in mano ai tedeschi. E questa signora bassottina e semplice, dai capelli grigi, è la mamma di Giannino Bosi che fondò le bande garibaldine nel Friuli e che piuttosto che cadere vivo nelle mani tedesche si puntò contro l’arma. E questo genovese canuto e silenzioso è il signor Lucarno, capo tecnico: suo figlio Ezio, diciottenne, sopra il monte Antola, per permettere ai partigiani del suo distaccamento di ripiegare dopo una pericolosa azione, attirò su di sé col fuoco della sua arma i nemici. E questi coniugi così cordiali, cerimoniosi, con un continuo trepido sorriso sulle labbra, sono il direttore d’una tipografia di Cuneo e sua moglie, genitori di Ildo Vivanti che la canzone dei G.L. di Valle Gesso ricorda come “il migliore dei partigiani”.
Con loro erano venuti a Reggio gli altri, i giovani del Consiglio, quelli che rappresentano la generazione dei figli: le Medaglie d’Oro partigiane viventi. Quella signora giovane fine, dal bel viso ridente, è Carla Capponi, che portava rivoltelle e bombe nella borsetta per le vie di Roma invasa, e correva con le armi in pugno alla testa dei G.A.P. nelle fulminee azioni e incendiava il buio delle notti di coprifuoco con i suoi spari e il suo sorriso. Quell’uomo tarchiato, il cui sguardo di sotto in su, tranquillo un po’ sornione, è come illuminato da un lampo di malizia, è Giovanni Pesce, l’inventore della lotta in città, che portava il terrore tra le file nazi-fasciste di Torino e di Milano, rapido e scattante come un felino, micidiale ed imprendibile. E quel biondo giovanotto scanzonato è Roberto Vatteroni, e il braccio che ora porta rigido contro il fianco lo alzò ridotto a un moncherino sanguinante a incitare i compagni sui monti del Carrarese.
E quell’omone dal rosso largo viso pieno di bontà e di pazienza è Fermo Melotti, ora impiegato comunale a Modena: quella mano di cui restano poche dita, come un artiglio, la perdette in un’azione audace per salvare i compagni: e poi fu catturato e torturato quanto un uomo può essere torturato e non gli uscì parola; finché, giunto all’estremo, per paura di parlare nel delirio, tentò due volte di uccidersi; e quando i suoi compagni con un colpo di mano vennero a liberarlo, scardinò la porta della cella con le sue braccia, e ricevette addosso ancora una pallottola nemica, e come se niente fosse tornò a fare il partigiano: e con quattro bombe a mano sgominò un carro armato: e il Comando gli ordinò di mettersi in salvo oltre le linee, perché non ce la faceva più tant’era carico di ferite; e lui rifiutò, e leggendario in tutta l’Emilia continuava a travolgere forze corazzate nemiche.
Ma non erano tutti i presenti, quelli della presidenza. Mancava proprio il presidente, Luigi Dal Pont, partigiano del Piave, rimasto cieco a vent’anni, ma gli davano proprio quel giorno a Belluno una medaglia d’argento, da porre al fianco di quella d’oro. E mancavano i genitori di Dante Di Nanni, che quella domenica veniva commemorato a Torino, sotto la finestra di borgo San Paolo donde il ragazzo assediato aveva aperto il fuoco e tenuto testa per ore all’assalto nemico e s’era infine gettato giù sul selciato. E ancora erano attesi il fratello di Pilo Albertelli, il professore torturato e poi fucilato alle Ardeatine, e il padre del capitano Antonio Cianciullo, eroe di Cefalonia.
Questi erano gli invitati di papà Cervi, che domenica 23 maggio andarono a trovarlo a Praticello di Gattatico su un torpedone preceduto da un corteo di moto e di lambrette di contadini venuti incontro sulla strada. Andavano a “discutere delle nostre cose – come aveva scritto il vecchio Cide a Dal Pont – proprio come facevo un tempo con i miei figli quando c’era da risolvere qualcosa di importante per il nostro fondo e per la libertà”.
I vecchi erano i più loquaci, e ogni tanto tornavano a raccontare dei loro figli, a commuoversi, a domandarsi l’un l’altro: “Ma lei quand’è stato che ha saputo la notizia? E quando l’aveva visto l’ultima volta?”. E Cavezzale: “Se penso che sono stato io a dirgli, tornando nel 1942 da far servizio di ferroviere mobilitato in Russia: «Fa qualsiasi cosa, piuttosto che lasciarti prendere prigioniero dai tedeschi!»”. E Sarti: “Ma il mio, da ragazzo non era mica contrario al regime; fu dopo, con le cose che vide in guerra, coi discorsi che sentiva da me…”. E i Vivanti: “E il nostro anche lui…”. Ecco che vediamo in loro rispecchiarsi il segreto passo della storia: quello che i figli prendono dai padri, quello che i padri alla loro volta prendono dai figli.
I giovani con la medaglia d’oro, invece, non parlavano mai del passato, non si lasciavano andare ai ricordi, troppo presi del presente e del futuro. Pure, a vederli lì, quei quattro, sapendo quante ne avevano fatte, ai danni di tedeschi e fascisti, ci si sentiva presi, sullo sfondo di quella verde e ardimentosa campagna emiliana, da una ventata d’epopea cavalleresca, come a ritrovarsi in un mondo popolato da eroi d’Ariosto: ecco l’intrepido guerriero, il saggio cavaliere errante, il generoso paladino, il fortissimo gigante.
E una ventata di cantare di gesta animava anche la semplice cerimonia con cui la popolazione di Gattatico con papà Cervi alla testa accolse i decorati. Parlò il sindaco, Ircoide Marconi (già si nota fin nei fantasiosi nomi di battesimo lo spirito avventuroso della campagna emiliana), parlò il generale Roveda che fu comandante nella zona, e i loro discorsi erano tutti di fatti e di persone, fatti eroici o atroci, una sterminata epopea locale, piena di nomi, come le elencazioni degli eroi dei poemi d’Omero.
Suonò la banda: erano giovanotti col maglione turchino e il berretto bianco da marinaio: come l’equipaggio d’un veliero sbarcato tra quei prati. Si snodò un corteo, coi “pionieri” allegri in testa che cantavano (e tra loro gli orfani dei Cervi); tra le case del paese c’erano festoni e bandiere e scritte d’evviva. Ci si guardava intorno: era un’altra Italia, un’Italia senza la “celere”, senza pompe ufficiali, dove il patriottismo è una cosa semplice schietta, una cosa “del fondo e della libertà”.
A casa Cervi, il vecchio Cide portò subito gli invitati a visitare la stalla modello, dove la Verina, la vedova di Aldo, attende laboriosa alle sue mucche; poi nel tinello, dove i sette figli studiavano la sera, e dove troneggia il famoso mappamondo di Aldo, si riunisce il Consiglio. II vecchio Cervi presiede, con quella sua sentenziosa saggezza di patriarca, fiero nella forte tozza persona, col grappolo delle sette medaglie sul petto. Quando si commuove, due veloci grosse lacrime gli rotolano giù per le rughe oblique agli angoli degli occhi. Corrono via e scompaiono: il vecchio Cide è già tornato padrone di sé. Ora parlano del progetto d’una grande adunanza dei “papa Cervi d’Europa”, dei familiari di caduti e eroi di tutti i Paesi invasi dai nazisti.
S’é messo a piovere sui prati, sulla vigna, sugli alveari. Nelle stanze intorno s’ode un correre di passi, le donne si affrettano a metter dentro roba, e s’affannano nella cucina a preparare i grandi piatti d’agnolotti. Sotto il portico una grande tavola accoglie i padri, i decorati, gli amici. II vecchio Cervi siede a capotavola tra l’avvocato calabrese e il ferroviere piemontese, e parla di sementi e di raccolti. Dalla cucina le donne vanno e vengono coi piatti: Margherita vedova d’Antenore, Jolanda vedova di Gelindo, e la bruna Ines dai neri occhi ridenti, vedova di Agostino. Tutt’a un tratto saltano fuori i ragazzetti di Agostino e di Gelindo, con le magliette rosse, tutti in gruppo, vengono a capotavola, gridano: “Viva le medaglie d’oro!” e corrono via ridendo.
Così, senza rulli di tamburo, senza salve di cannone, gli uomini che rappresentano il valore e il sacrificio della nuova Italia continuano a tenersi uniti, a vigilare, a operare per il bene.
Il testo è quello di un articolo per l’Unità scritto da Italo Calvino, inviato speciale del giornale. È ripreso da “I grandi scrittori e l’Unità”, a cura di Wladimiro Settimelli, edito da “Nuova iniziativa editoriale s.p.a.”, Roma.
[Questo articolo è stato pubblicato sul n° 4 dell’8 aprile 2007 di Patria Indipendente (edizione cartacea), lo “speciale” dedicato al 25 aprile]
Pubblicato lunedì 19 Dicembre 2016
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