La strada che porta al Castello è tortuosa; lasciato il villaggio d’un migliaio d’anime si giunge in cima ad una collina da cui si domina la vallata ed un tratto di Danubio. Visegrád è un “non luogo”, come Schengen, Ioannina, Kobarid (che noi conosciamo come Caporetto) o Waterloo. Nomi destinati a evocare ricordi legati ad eventi più che villaggi reali.
Situato nella Contea di Pest, non lontano dalla capitale ungherese, il castello di Visegrád ha ospitato nel febbraio del 1991, la prima riunione di quello che allora si chiamava “il Triangolo”, un gruppo informale tra Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia. La scissione in Repubblica Ceca e Slovacchia porta i membri a quattro e determina il definitivo nome di “Gruppo di Visegrád”.
Entrati assieme nell’Unione Europea il primo maggio del 2004, i Paesi del Gruppo s’ispirano ad un’altra riunione storica nello stesso luogo, quella che nel 1335 li vide unirsi per far fronte comune contro l’Austria. Se allora l’unione aveva fini prettamente commerciali, oggi – almeno nella teoria – gli scopi appaiono più nobili: scambi culturali, borse di studio e di ricerca, un’attenzione particolare all’arte.
Peccato che la realtà sia vagamente diversa, perché oltre al programma destinato a sostenere i talenti (8 milioni di euro, ma progetti pochi) ed una serie di “documenti d’indirizzo” sull’energia, il primo vero accordo tra le parti è quello che istituisce il “Visegrád Battlegroup”, gruppo tattico militare che costituisce un reggimento internazionale di 3.000 uomini in risposta – dice il comunicato stampa pubblicato nel 2014 – all’intervento militare russo in Ucraina. Il Gruppo si distingue poi per il sostegno dato al Premier ungherese Orbàn nelle sue politiche contro gli immigrati, arrivando a teorizzare il principio della “Solidarietà flessibile”, sorta di ossimoro che vorrebbe suggerire una posizione di compromesso con la UE basata sul principio “tenetevi gli immigrati, noi qualcosa pagheremo!”.
Il combinato disposto tra la migliore tradizione sovietica e l’understatement britannico (molti degli attuali leader dei Paesi del Gruppo hanno fatto parte dei loro studi nel mondo anglosassone) porta poi a prese di posizione stupefacenti.
La Brexit diventa allora «un’opportunità per migliorare il funzionamento dell’Unione», dichiarazione che – se presa letteralmente – potrebbe essere condivisa, salvo aggiungere che «le attuali sfide dell’Unione dimostrano che la stessa può essere forte solo se i Paesi e i loro cittadini hanno un ruolo influente nel processo decisionale». Ovvero, tradotto in parole semplici, lasciamo gli Stati membri ed i parlamenti nazionali decidere della politica europea, rafforziamo il potere del Consiglio a discapito della Commissione e creiamo un’Europa “à la carte”, in cui ognuno sceglie quale parte del diritto europeo applicare.
Il Gruppo di Visegrád (ormai conosciuto anche con l’acronimo “V4”) si scaglia anche contro l’abitudine ormai consolidata dei vertici bi/trilaterali, sostenendo che ogni tipo di negoziato debba essere “aperto a tutti i membri della UE”.
Ancora una volta il testo merita di essere decifrato. Sostanzialmente corretta nella forma – perché mai la politica dell’Unione dovrebbe essere decisa dal tandem franco-tedesco? – l’affermazione è però in qualche modo viziata da un peccato originale: perché dovremmo tener conto dell’opinione di soli quattro Stati che sostengono che un piccolo gruppo di Paesi non possa influenzare le scelte di altri? Vagamente contraddittoria…
Vero è che i V4 rappresentano assieme circa 65 milioni d’Europei ed un PIL di 2.000 miliardi, che li porta ad essere la quinta economia in Europa, ma altrettanto vero che Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, sono amministrate da governi espressione o sostenuti da movimenti populisti e/o nazionalisti che, come ben riassunto dal presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, operano per “una ri-nazionalizzazione delle politiche europee”.
Due le voci parzialmente dissonanti nel Gruppo. La Repubblica Ceca, con un premier social-democratico che è però legato all’appoggio di ANO, partito euroscettico che la destra locale definisce “movimento di sinistra” e che il suo stesso fondatore, Andrej Babiš, identifica invece come “movimento di destra con empatia sociale” (sic!), e la Slovacchia, unico del Gruppo ad aver adottato l’euro.
Se a Praga ci si interroga sul restare nel club, dopo le posizioni oltranziste di Orbàn, pare che nulla turbi il governo di Robert Fico che da Bratislava continua a opporsi al piano europeo per il ricollocamento dei rifugiati. Nonostante il ministro degli esteri Lajcak – candidato sconfitto all’elezione del prossimo Segretario Generale delle Nazioni Unite – cerchi – come può – di mantenere un minimo di decenza nella politica estera slovacca, il Primo Ministro continua ad esternare in modo così preoccupante da portare Gianni Pittella, capogruppo S&D (Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici) al Parlamento europeo, ad ipotizzare la sospensione dal PSE dello Smer (“Direzione socialdemocrazia”, il partito del Premier).
«Posizioni come quella secondo cui “una immigrazione di massa dei musulmani che vogliono costruire moschee non sarà tollerata” o quelle riguardo la “restrizione della libertà per i musulmani in Europa”, o ancora frasi come “la Slovacchia è per gli Slovacchi, non per le minoranze”, hanno messo in imbarazzo l’intera famiglia progressista», ha dichiarato Pittella rifacendosi ad una serie di affermazioni recenti.
La Polonia di Beata Szydlo, l’Ungheria di Orbàn, la Repubblica Ceca di Bohuslav Sobotka e la Slovacchia di Fico hanno quindi molto in comune nonostante le differenze: nazionalismi, minore integrazione europea (salvo che nell’ambito della difesa comune delle frontiere esterne, dove i 4 si rivelano i più forti sostenitori di un esercito e di una guardia costiera europea), un NO chiaro alle politiche di ripartizione dei migranti ed a quelle climatiche (ed il fatto che siano Paesi in cui ancora si estrae carbone potrebbe spiegare la cosa) ed un “tirare a destra” l’Europa accentuato dalla vittoria di PiS (Diritto e Giustizia) in Polonia.
“Visegrád è diventata una parolaccia in Europa”, sintetizza Milan Nic, del Central European Policy Institute e perfino la Pravda s’interroga sulle posizioni prese, ricordando che alla riunione di preparazione del recente summit di Bratislava, il presidente slovacco Kiska ha abbandonato l’incontro senza presenziare al pranzo ufficiale, dichiarando che “il V4 non ha mai dato un’immagine più brutta di quella di oggi”.
Immaginare un momento più complicato per l’Europa appare difficile. Stretta tra il negoziato sull’uscita della Gran Bretagna che si prospetta senza esclusione di colpi, una spinta della destra populista di parte dell’ex blocco sovietico che potrebbe contagiare anche Bulgaria e Romania, i Balcani in piena ridefinizione dei ruoli – la destra croata che inneggia agli Ustascia, Bosnia Erzegovina e Montenegro nel pieno delle trattative per l’ingresso nella UE, la Macedonia che non riesce ad uscire dalla crisi politica, l’irrisolto problema del Kosovo – l’incapacità di rispondere in modo coeso al problema dei migranti, il risorgere dell’estrema destra in Germania e nei Paesi baltici e, più in generale, tra le varie derive nazionalistiche e le rivendicazioni economiche, l’Unione Europea stenta a trovare una via d’uscita.
La ciliegina sulla torta arriva infine dalla Vallonia, che con una ferma presa di posizione del suo Parlamento contro il Trattato di libero scambio con il Canada mette in predicato anche la competenza della UE in tema di commercio estero. Ma il concetto non è nuovo, perché i rappresentanti delle Camere dell’Agricoltura del Gruppo di Visegrád avevano già chiesto in settembre che il loro settore fosse escluso dall’accordo commerciale tra l’UE e gli USA (TTIP) e da quello con il Canada (CETA) sostenendo che la liberalizzazione delle importazioni nell’UE di prodotti vegetali e animali potrebbe ridurre la sicurezza alimentare dei Paesi del V4. Si noti la chiusa, ovvero l’intero settore agricolo dovrebbe essere escluso perché a rischio la sicurezza dei 4 Paesi.
Come scriveva Leone Tolstoj “Tutti pensano a cambiare il mondo, ma nessuno pensa a cambiare se stesso”.
Filippo Giuffrida, giornalista, Presidente ANPI Belgio, membro del Comitato Esecutivo della FIR in rappresentanza dell’ANPI
Pubblicato lunedì 31 Ottobre 2016
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