Nel 1956, quando le donne italiane avevano conquistato il diritto al voto già da dieci anni, la Corte di Cassazione abolì lo ius corrigendi, cioè il diritto concesso anche a mio padre (che per fortuna era un uomo giusto e non violento) di massacrare di botte mia madre, se in disaccordo sul suo modo di educarmi. Io ero al mondo già da tre anni e quel diritto gli uomini, i padri e i mariti, prima lo avevano.
La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne è una ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1999. Si celebra in Italia, come nel resto del mondo, il 25 novembre.
Come mai a distanza di oltre due decenni dalla risoluzione Onu, dopo ondate di manifestazioni di piazza ovunque, in occasione della giornata e non solo, le donne continuano a subire violenze di ogni genere, stupri, maltrattamenti psicologici, emarginazione, discriminazioni in famiglia, nel lavoro e nella società; perché continuano a morire per mano degli uomini, quasi sempre mariti, fidanzati, o ex partner stalker?
Forse è utile mettere nero su bianco una cronologia di leggi e di norme arrivate nel nostro Paese estremamente tardi (quando le donne della mia generazione, quella dei primi anni Cinquanta, per divenire maggiorenni dovevano compiere i 21 anni, e solo nel 1975 la soglia venne abbassata ai 18).
Nel 1970 viene approvata la legge sul divorzio, confermata poi dal referendum del 1974. Ma solo un anno dopo, nel 1975, fu introdotto il nuovo Diritto di famiglia che abolì la patria potestà del marito e assegnò pari diritti anche alla moglie. Io avevo già 22 anni e frequentavo l’università, ma lavoravo anche.
E avevo 24 anni quando, nel 1977, fu introdotta nel nostro ordinamento la legge 903, detta legge di parità, che, ispirata all’art. 3 della Costituzione, vieta le discriminazioni di genere sui luoghi di lavoro e comprende la parità di trattamento economico tra uomo e donna, assunzioni non condizionate da stato di famiglia, gravidanze o figli. Tardi, troppo tardi, perché solo un anno prima non avevano confermato il mio contratto a tempo determinato, perché essendo giovane ero “a rischio di matrimonio o eventuali gravidanze”. Il mio datore di lavoro dell’epoca preferì assumere, al mio posto un uomo, che non gli avrebbe creato tutti questi “fastidi”. Me lo disse chiaro e tondo. La legge era dalla sua parte.
Il grande movimento delle donne, che ovunque negli anni Settanta scendeva in piazza per i diritti, le pari opportunità, la libertà di scelta, in casa e sul lavoro, spingeva verso svolte legislative con una grande convinzione e una forza estrema.
Fu una lunga stagione di lotte perché alle donne in Italia, come altrove, nessuno ha mai regalato nulla, figuriamoci i diritti. Bisognava urlare, pretendere la dignità, l’uguaglianza prevista da una splendida Costituzione mai applicata, anzi mai metabolizzata e accettata nella realtà. Nel 1978 viene approvata la legge 194 sull’interruzione di gravidanza (imperfetta ancora oggi, perché offre ai medici la possibilità di diventare obiettori di coscienza e di tirarsi fuori dal rispetto della stessa legge). In quello stesso anno la vittoria del referendum sull’aborto, mortificò le pretese degli oscurantisti.
Ma non posso non pensare che le donne della mia generazione non erano più ragazzine, ma adulte, quando nel 1981 fu finalmente cancellato dal Codice penale, con la legge 442, il delitto d’onore. Sì, proprio quello che sino a quella data aveva permesso agli uomini di ammazzare moglie, figlia o sorella “nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onore sua o della famiglia”. Il femminicida, se preferite chiamatelo pure semplicemente assassino, aveva diritto ad attenuanti che riducevano la pena detentiva ad un massimo di sette anni. A noi donne appariva un’istigazione a delinquere da parte della stessa giustizia.
In quello stesso anno, 1981, le lotta delle donne ottenne la scomparsa dall’ordinamento giudiziario di un’altra norma ripugnante: il matrimonio riparatore che prevedeva l’estinzione (sì, estinzione) del reato di stupro nel caso in cui il violentatore di una ragazza minorenne si decidesse a sposarla, sempre per salvare l’onore della famiglia. E poco importava il diritto alla scelta della vittima. Aveva già rotto questa norma tribale Franca Viola, la diciassettenne siciliana, violentata quando aveva solo 17 anni, che rifiutò, con determinazione, di sposare il suo stupratore. Era il 1965. La legge arrivò dunque solo 16 anni dopo.
Avevo già 40 anni quando nel 1993 le Nazioni Unite si occuparono di violenza di genere definendola, tra l’altro, “come ogni atto legato alla differenza di sesso che provochi o possa provocare un danno fisico, sessuale o psicologico o una sofferenza della donna”.
Ma solo, nel 1996 (avevo compiuto 43 anni), dopo vent’anni di discussione in Parlamento, la legge italiana riconobbe la violenza sessuale come un crimine contro “la persona” e non contro “la morale pubblica e il buon costume”. Tardi, vero? Molto tardi.
Ed è tardissimo quando nel 2001, meno di vent’anni fa, viene approvata la legge 154: “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari” che prevede, tra l’altro, l’allontanamento disposto dal giudice dal domicilio comune di un marito o di un padre violento.
Per completare questo desolante quadro, va detto che solo dal 2009, lo stalking (che quasi sempre precede il femminicidio) è considerato reato.
Con queste leggi sacrosante, tutto risolto anche se fuori tempo massimo? Le donne ora sono libere? Hanno riconquistato le pari opportunità? Sono al sicuro? Macché. Sono ancora vulnerabili. Nel 2020 i dati raccontano di un femminicidio ogni 3 giorni. Stupratori e assassini imperversano. Uomini che praticano la violenza fisica, materiale e psicologica, continuano a coltivare la cultura del possesso. Lo fanno anche con il ricatto della scarsa indipendenza economica delle donne che continua, nella maggioranza dei casi, a non renderle davvero libere.
E va detto che le cronache giornalistiche, pur presentando bollettini di morte e di violenza, nella maggioranza dei casi difettano di un linguaggio etico e di rispetto nei confronti delle vittime, nonostante il continuo pressing da parte delle sensibilità e consapevolezze femminili migliori. C’è ancora molto da lavorare sui racconti e la deontologia professionale. Femminicidi, più che premeditati, diventano sui giornali e sui siti on line “raptus di follia”. Si continua a raccontare lui, l’assassino: “È stato spinto dalla gelosia, ma era un brav’uomo, un gran lavoratore, tutto casa e bottega”. Gli si concedono tutte le attenuanti possibili. Quante volte abbiamo letto notizie così presentate? Nessuna parola su di lei, la vittima. Nessun accenno alla cultura atavica del possesso. Per non parlare dei social, mondo virtuale nel quale si scatena spesso la cultura dell’odio.
Poco tempo fa (e siamo nel 2020), dopo cinque bocciature, è passato alla Camera il disegno di legge Zan che aggiunge ai reati di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa, punibili con la detenzione, anche gli atti di violenza o incitamento alla violenza e alla discriminazione “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sulla identità di genere e sulla disabilità”. Ma dobbiamo ancora aspettare la decisione del Senato.
C’è ancora da lavorare contro l’oscurantismo dilagante. Il congresso di Verona (voluto dal “movimento globale antiabortista, antifemminista e anti-Lgtbqi”) dello scorso anno ne è un esempio. L’altrettanto recente disegno di legge Pillon, che voleva cambiare le leggi su separazione, divorzio e affido condiviso dei minori, è un altro attacco (per ora per fortuna accantonato) alle donne.
Gli oscurantisti continuano ad agire seppellendo i feti delle donne che abortiscono in cimiteri fantasma con i nomi delle stesse donne che hanno interrotto la gravidanza scritti sulle croci. Le conquiste degli anni Settanta e Ottanta sono in pericolo e le nuove generazioni di donne non devono abbassare la guardia, perché rischiano un ritorno legislativo che potrebbe riportarle indietro di decenni, in una condizione di ricatto e di subalternità totale.
Il 25 novembre 2017 la compianta presidente nazionale Anpi, Carla Nespolo, scrisse tra l’altro: “Nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, sento forte la necessità di comunicare la solidarietà e la vicinanza mie personali e dell’Anpi a tutte coloro che hanno subito violenza per mano di vigliacchi criminali. È diventata ormai urgente una ferma e continuativa assunzione di impegno da parte delle Istituzioni, affinché questo drammatico problema trovi una solida e chiara via di soluzione. Le donne, e lo dico non solo da donna, ma anche da presidente di un’associazione custode e promotrice della memoria della Resistenza cui tantissime partigiane combattenti e staffette hanno dato un prezioso contributo, devono essere trattate con sostanziale rispetto della propria identità, dei propri desideri, delle proprie espressioni di volontà, della possibilità di una piena realizzazione sociale e culturale”.
E ancora: “Costruiamo tutti insieme una comunità di resistenti all’arretratezza culturale di parte di questo Paese. Abbiamo una valida risorsa di pensieri e azioni: i combattenti per la libertà. Che più di settant’anni fa ci hanno regalato, dopo lotte dure ed estremi sacrifici il bene prezioso della democrazia. Curiamo con intelligenza, passione e responsabilità il lascito morale e costituzionale della Resistenza, trasmettiamolo giorno per giorno alle nuove generazioni. Non fermiamoci al 25 novembre, costruiamo insieme un percorso di rinnovamento umano del Paese. L’Anpi farà la sua parte”.
Non possiamo permetterci di fermarci. Le nuove generazioni non possono permettersi di dare per scontate le conquiste della Resistenza, delle partigiane e di quella marea di donne, che anche dopo la Liberazione hanno ottenuto risultati imprescindibili per il rispetto, per l’umanità, per l’uguaglianza, per il diritto di tutte di camminare per le strade e di vivere nelle case e nei luoghi di lavoro libere e senza paura.
Tea Sisto, giornalista
Pubblicato mercoledì 25 Novembre 2020
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