Questa storia inizia col ritrovamento di uno strano bottone recante una stella al centro e delle saette che si irradiano da essa. Esso è stato rinvenuto alcuni anni or sono in una zona dei monti Lattari che, durante i giorni dello sbarco a Salerno, fu teatro di combattimenti fra le truppe tedesche e americane. Una breve ricerca in internet ha rivelato che il bottone apparteneva alla divisa in dotazione agli operatori radiotelegrafonici della Svezia. Cosa ci faceva un tecnico svedese da quelle parti? Era schierato con qualcuno degli eserciti che combatterono lì nel settembre del 1943? Oppure quel bottone, appartenendo ad un civile, non aveva alcuna relazione con l’operazione Avalanche? Per molto tempo queste domande sono rimaste senza risposta.
A distanza di anni una possibile spiegazione è venuta fuori leggendo un episodio riportato da Angelo Tajani nel suo libro di memorie “Il monello di Amalfi“. L’autore racconta con dovizia di particolari gli anni della sua infanzia a cavallo fra la seconda guerra mondiale e il dopoguerra. Un capitolo in particolare sembra creare un collegamento con lo strano bottone svedese. Tajani racconta la vicenda al capitolo intitolato “Il disastro aereo di Scala”.
Egli ricorda che erano da poco passate le quattro del pomeriggio di martedì 18 novembre 1947 quando percepì il rumore di un aereo che in quel momento passava sopra Amalfi. In serata arrivò in paese la notizia della sciagura: un aereo era precipitato sulle montagne di Scala, a poca distanza da Santa Maria dei Monti. Al mattino successivo con due compagni di classe decise di marinare la scuola e andare a fare un sopralluogo.
Arrivati in cima appresero che a bordo dell’aereo precipitato c’erano dei giovani ufficiali svedesi, morti quasi tutti, e che la zona della sciagura era disseminata di rottami, oggetti personali e corpi dilaniati. I primi ad accorrere erano stati quattro pastori di Scala, che in quel momento pascolavano il gregge a poca distanza. Erano stati loro a dare l’allarme e a portare i primi soccorsi ai feriti, ospitando i sopravvissuti in una capanna.
Gli ufficiali dell’aeronautica militare svedese che si trovavano a bordo del Bristol Freighter, un bimotore di fabbricazione britannica, rientravano da Addis Abeba dopo avere consegnato all’aviazione del negus sedici cacciabombardieri Saab B-17, apparecchi in via di sostituzione nell’aviazione militare svedese. Il comandante dell’apparecchio era il capitano Nils Werner, coadiuvato dal secondo pilota, capitano Bo Menotti, di origine italiana, dal meccanico Einar Andersson e dal radiotelegrafista Carl Wallin.
L’aereo, decollato dalla capitale etiopica lunedì 16 novembre, era rimasto fermo per la notte a Tobruk, da dove era ripartito nella mattinata del giorno successivo. Sulla rotta per Roma aveva fatto uno scalo tecnico a Catania, per un rifornimento di carburante, e stava proseguendo alla volta dell’aeroporto di Ciampino dove i passeggeri avrebbero dovuto trascorrere la notte in albergo prima di riprendere il volo per la Svezia.
Secondo le testimonianze raccolte il Bristol Freighter aveva avuto problemi ad uno dei due motori. Qualcuno sosteneva che il comandante Werner, per tentare un atterraggio di fortuna, avrebbe deciso di sorvolare Cetara per raggiungere la pianura dell’agro nocerino. Ma a causa del maltempo e della nebbia l’aereo era stato deviato verso ponente e, dopo aver sorvolato Amalfi, era precipitato sul Monte del Carro.
Angelo Tajani riporta il racconto fatto da uno dei quattro sopravvissuti, il ventisettenne tenente pilota Arne Magnusson: “Il viaggio da Addis Abeba era andato bene, fino a quando non abbiamo lasciato Catania. Già sullo stretto di Messina ci eravamo imbattuti in una nebbia fittissima, non si vedeva più di qualche metro fuori dalla cabina di pilotaggio. L’aereo ha volato per un paio di ore alla cieca e il comandante continuava a consultare le mappe, quasi cercasse disperatamente di trovare un riferimento in tutto quel buio. L’impatto si è verificato senza alcun preavviso, ed è difficile poter stabilire se la collisione è stata provocata da una perdita di quota causata da vuoti d’aria oppure se il pilota aveva perso la rotta. L’aereo è precipitato di colpo. Ho sentito soltanto che qualcuno ha lanciato un’imprecazione poco prima dell’urto. Stavo sonnecchiando quando mi sono accorto che il carrello andava a sbattere contro le cime degli alberi. Devo aver perso i sensi oppure sarò rimasto stordito dall’impatto. Nel torpore riuscivo a percepire le grida di aiuto dei miei compagni, ma non potevo far nulla per soccorrerli.”
Nel libro “Il monello di Amalfi” è riportata anche la testimonianza di Ferdinando Bottone, all’epoca un giovane pastore che stava pascolando il gregge sui monti, in una zona non molto distante dal luogo della sciagura: “Mi è rimasta impressa nella memoria la scena che si presentò ai miei occhi quando, dopo una corsa nella nebbia attraverso il bosco su per la china della montagna, raggiungemmo il luogo in cui si era schiantato l’aereo. Fu uno spettacolo orrendo. Per prima cosa cercammo eventuali sopravvissuti. Io, Luca Bottone, Nicola Giordano e una quarta persona di cui non riesco a ricordare il nome, ci avvicinammo alla carlinga dell’aereo inciampando in valigie, lamiere, rottami e oggetti sparsi tutt’intorno, e trovammo alcuni superstiti. Li caricammo sulle spalle e li portammo a valle, attraversando la boscaglia per cercare riparo nella casupola della guardia forestale. Quando andammo a prendere l’ultimo dei feriti, uno dei miei compagni corse a dare l’allarme e a chiamare i soccorsi. Noi intanto accendemmo un fuoco nel rifugio per riscaldare quei cinque poveretti, offrimmo loro qualcosa da bere e, dopo avere constatato che le loro condizioni erano abbastanza buone, cominciammo a dialogare aiutandoci coi gesti. Vedendo che arrotolavo il tabacco per prepararmi una sigaretta, uno di loro mi fece intendere che a bordo dell’aereo ce n’erano cartoni pieni e che potevo prenderne quante ne volevo. Nel portare fuori i feriti dai rottami della carlinga avevo adocchiato alcune stecche di sigarette sparse per terra e mi ero accorto che erano imbrattate di sangue. Non ebbi il coraggio di dirglielo, e feci finta di non capire. Un’ora dopo arrivarono i soccorritori e i carabinieri, i quali cominciarono a perlustrare la zona e a catalogare tutti gli oggetti che erano sparsi al suolo e venivano raccolti dagli abitanti di Scala, accorsi in gran numero.”
Gli abitanti di Scala parteciparono con slancio alle operazioni di soccorso. Si prodigarono per portare a valle i feriti, le salme delle vittime e i loro effetti personali. Recuperarono perfino la somma pagata dal governo etiopico per l’acquisto dei velivoli e la restituirono alle autorità svedesi. A tal proposito Tajani riporta quello che scrisse il quotidiano Svenska Dagbladet: “I carabinieri hanno organizzato un impeccabile servizio d’ordine sul luogo della sciagura, e tutto ciò che è stato rinvenuto dagli abitanti è stato consegnato agli agenti. Sono stati trovati orologi, monete e anelli d’oro. La popolazione di Scala ha collaborato compatta con gli agenti e i funzionari dell’Ambasciata svedese di Roma. Nella serata di mercoledì, poche ore dopo il disastro, sono state consegnate ai carabinieri due cassette di metallo contenenti gioielli, monete d’oro e un’ingente somma in sterline britanniche e dollari statunitensi”.
L’aeronautica militare svedese, in segno di profonda gratitudine, elargì un sostanzioso contributo al Comune di Scala per la costruzione di un asilo, tuttora esistente, e una somma da devolvere ai soccorritori. Dal canto suo l’amministrazione comunale ha realizzato sulla strada principale un giardino della memoria con un cippo recante i nomi delle vittime.
Fin qui le informazioni contenute nel libro di Angelo Tajani. Com’è consuetudine dell’associazione Salerno 1943, abbiamo cercato un riscontro sul campo alla storia e grazie alla preziosa guida di Gioacchino Di Martino e Ricciotti Mansi, appassionati di storia locale e profondi conoscitori dei luoghi ci è stato facile raggiungere insieme anche a Giovanni Mormile, Pasquale Siano, Luigi Fortunato e Gigino Vitolo la zona del disastro.
Sul posto è stato eretto un monumento a ricordo delle vittime della sciagura. Esso però dista alcune decine di metri dal punto effettivo dell’impatto. La ricerca ha rivelato che l’aereo cominciò a urtare gli alberi appena superato il pianoro di Santa Maria dei Monti. Questo fece perdere velocità al velivolo ed evitò che si disintegrasse contro il terreno roccioso. Gli alberi infatti attutirono l’urto e fecero roteare di circa 180 gradi l’aereo rispetto alla direzione di volo provocandone lo schianto su un fianco della montagna.
Il Bristol 170 Freighter Mk. II SE-BNG 12792 (SE è la sigla per Svezia) della compagnia svedese AB Trafik-Turist-Transportflyg era un aereo da trasporto bimotore, monoplano ad ala alta, sviluppato dall’azienda aeronautica britannica Bristol Aeroplane Company verso la fine della seconda guerra mondiale. Questo tipo di aereo era caratterizzato dalla presenza di un ampio portellone da carico posizionato nella parte anteriore della fusoliera. Ottenne un buon successo commerciale, venendo impiegato sia nell’aviazione civile che in quella militare dal secondo dopoguerra e fino alla fine degli anni settanta. L’elemento innovativo per l’epoca era la presenza del portellone a valva che si apriva per scaricare o caricare veicoli leggeri e altri carichi ingombranti. I piloti erano alloggiati sulla sommità della fusoliera, con un’ottima visibilità. I motori erano due robusti Bristol Hercules sistemati sull’ala. Nonostante l’aspetto brutto e sgraziato, fu in grado di stabilire alcuni importanti record di efficienza, dimostrando che l’aspetto e la velocità massima, per un aereo da trasporto, non sono effettivamente importanti quanto altre caratteristiche. Benché fosse un velivolo piuttosto rudimentale, nessun radar, nessun motore sofisticato o elementi strutturali avanzati, seppe farsi valere nel difficilissimo mercato degli aerei da trasporto postbellici.
La zona del disastro è cosparsa di piccoli frammenti di alluminio della fusoliera del Bristol Freighter e da innumerevoli cocci di vetro appartenenti a bottiglie che i passeggeri avevano evidentemente portato con sé come rifornimenti o souvenir dei posti dove erano stati. Anche alcuni oggetti personali come il coperchio di una confezione di grasso per calzature svedese o il bottone da polso dell’uniforme della marina di Svezia sono mute testimonianze della tragedia verificatasi nel 1947.
Ma chi erano le 21 vittime? Ecco i loro nomi: tecnico di volo Agren Sven Arvid, tecnico di bordo Nils Einar Anderson, cap. Erik Lennart Atlestam, cap. Gustaf Einar Hildebrand Aulen, ten. Bengtr Ragnar Bengtzon, serg. magg. Dan Georg Vincent Carlsson, serg. Stig Gusten Feldt, cap. Torsten Olof Franden, tecnico di volo Gosta Hammenfors, Nils Oskar Holm, ten. Bengt Magnus Landgren, navigatore Bo Menotti, ten. Per Elis Lennart Olsson, ten. Sven Olof Pehrson, ten. Olof Gothe Rapper, ten. MacRobert Walter, Robertson, elettricista Thelmer Per Gustaf Sixsten, serg. magg. Sien Sigurd Tillberg, radiotelegrafista Carl Johan Wallin, cap. Johan Eskil Westdhal, ten. Axel Ingvar Wange. I sopravvissuti furono 4 e cioè: ten. C. R. Gronberg, ten. S. Arne Magnusson, serg. magg. S. V. Paijkull, cap. Nils Werner.
In che modo questa vicenda può spiegare il ritrovamento del bottone menzionato all’inizio di questo articolo? Ebbene, il luogo dov’è stato rinvenuto dista solo pochi chilometri dal punto dell’impatto dell’aereo svedese. Fra l’altro a bordo del velivolo vi era un operatore radiotelegrafonico, Carl Johan Wallin. Una spiegazione potrebbe essere che un suo capo d’abbigliamento sia stato raccolto e riutilizzato da un pastore presente sul posto. Non dimentichiamo che in quegli anni l’Italia era appena venuta fuori da una disastrosa guerra e spesso scarseggiavano anche le cose più basilari come il cibo e il vestiario. Potrebbe in seguito aver perso il bottone su una vicina montagna durante una delle sue innumerevoli peregrinazioni per aver cura del gregge.
Pubblicato venerdì 15 Gennaio 2016
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