Non può sorprendere il fuoco di sbarramento che si sta opponendo all’introduzione, nel nostro ordinamento penale, dell’articolo 239-bis, concernente il reato di propaganda «attiva» (attraverso il ricorso a gesti palesi, come il saluto romano; la distribuzione di oggettistica e la diffusione di immagini; il ricorso a strumenti informatici e di comunicazione di massa) «del regime fascista e nazifascista». Il primo firmatario della proposta di legge, che nella sua originaria stesura risale già a due anni fa, è Emanuele Fiano.
La discussione in Commissione Giustizia e gli echi nelle aule parlamentari hanno scatenato la furia di quanti si sono appellati a un’improbabile «libertà di pensiero», rimandando, in maniera volutamente distorta, alla lettera dello stesso articolo 21 della nostra Costituzione. Tra di essi, spiccano coloro che si sono espressi contro una norma che hanno bollato da subito come «liberticida». Immediatamente dietro costoro, si articola il vasto coro di quei pallidi liberali variamente assortiti e motivati nel loro comune rifiuto: da quanti hanno invocato la necessità di imporre una pari condanna contro il «comunismo», poiché anch’esso manifestazione di «totalitarismo», a coloro che nel tentativo di dimostrare quanto il rimando ai simboli del fascismo sia solo una sorta di ragazzata, hanno quindi colto l’occasione per ridimensionare ancora una volta il tragico lascito di quell’esperienza storica. Anche nel suo riproporsi nel corso del tempo, fino ai rigurgiti dei diversi gruppi che esplicitamente, e con raccapricciante orgoglio, ad oggi rivendicano apertamente la loro identità fascista. Ciliegina sulla torta rancida delle polemiche è il ripetere, da parte di polemisti perlopiù dello stesso colore politico, ossia tra un grigio e un nero sbianchettato all’occorrenza, di quello che si sta cercando di affermare come luogo comune, ovvero che l’antifascismo sarebbe un falso valore. Anzi, semmai un ostacolo alla «libertà» dei moderni, che dovrebbe quindi prescindere da «anacronistici divieti», nel nome di un’inverosimile parificazione e un’inaccettabile «pacificazione» tra le parti contrapposte. In quanto – sentenziano costoro – il fascismo non fece troppo male; semmai, esagerò un po’, ma non molto di più.
Detto questo, poiché ciò che è in corso è una battaglia politica, l’ennesima di una storia lunga quanto quella della nostra Repubblica, alcune considerazioni vanno richiamate. Occorre quindi fissare pochi ma netti punti nella discussione.
Il primo rimanda al fatto che la sostanza del rifiuto della norma che Fiano e altri parlamentari vorrebbero invece introdurre nella nostra giurisprudenza non ha a oggetto la tutela della libertà di giudizio, come della sua manifestazione in pubblico. Il vero obiettivo è semmai l’antifascismo organizzato, nel suo costituire ancora una delle ossature della democrazia. Le polemiche astiose e le invettive contro la proposta di legge, infatti, irridono in coro a esso, indicandolo come un ingombro da sotterrare una volta per sempre. Su questo passaggio è bene avere le idee molto chiare.
Lo «sdoganamento» del fascismo, che non data a questi ultimi tempi ma, di fatto, è iniziato più di trent’anni fa, corre su un binario parallelo all’affossamento dell’antifascismo, in tutte le sue manifestazioni. Si sia consapevoli di ciò: i neofascisti, e i loro amici, parlano di pacificazione per poi procedere all’azzeramento dei fondamenti antifascisti della nostra Costituzione.
Se si cede su un punto (legittimando il lascito storico del fascismo attraverso la sua relativizzazione morale, qualcosa del tipo “non era così male come invece lo si è dipinto”) ci si dovrà ben presto confrontare con l’inutilità dell’antifascismo.
Dopo di che, e si tratta del secondo passaggio, non è lo spettro del fascismo a dare corpo alle angosce del presente, ma sono le incongruenze del tempo corrente a dare nuovo fiato a un fascismo mai venuto meno in settant’anni e più di storia repubblicana, democratica e costituzionale. Nel corpo del nostro Paese così come anche in Europa. Poiché il problema è continentale e come tale va ragionato e affrontato. Partendo quindi dalla propria realtà nazionale, per poi estendere lo sguardo oltre se stessi. Se il regime mussoliniano è stato cancellato dalla storia, ovvero da coloro che vi si sono opposti a rischio della propria vita, non senza che una lunga e tragica guerra dilacerasse le nazioni, il fascismo come ideologia della sopraffazione, del primato razzista di Stato, della società di caste, dell’aristocraticismo dei potenti e della inibizione dei subalterni, del rifiuto della diversità e della varietà umana, dell’uso politico della paura per tacitare qualsiasi dissenso (insieme a molto altro) è invece più che mai presente. Non costituisce una ideologia politica tra le tante, anestetizzata e tacitata una volta per sempre dalla clamorosa sconfitta del 1945, bensì il concentrato del rifiuto della democrazia sociale. Una questione di nuovo urgente, dal momento in cui quest’ultima sta vivendo una crisi pericolosissima, dovuta soprattutto ai mutamenti che la globalizzazione ha introdotto nelle nostre società. Gli individui, all’atto in cui smarriscono l’orizzonte del futuro e la fiducia nel tempo che stanno vivendo, rischiano di cadere nelle trappole delle peggiori illusioni. Non per caso, quindi, il neofascismo si ripresenta con i falsi tratti, in sé purtroppo seducenti, di una visione alternativa della società. Dinanzi alla crisi degli ordinamenti liberali, dettata soprattutto dal dirompente ritorno delle diseguaglianze economiche – enfatizzate come un fatto tanto ovvio quanto naturale, quindi in sé “legittimo” perché immodificabile – il neofascismo afferma che la risposta ai problemi sta in un ordinamento non solo autoritario, ma basato sulla cancellazione della cittadinanza democratica.
A dovere impensierire – ed è il terzo punto – non sono quindi solo le oscene “nostalgie” di un qualche vecchio apologeta o le adunate degli irriducibili che non si sono convertiti alla democrazia, né tanto meno lo sgradevole “folclore” di certi personaggi, bensì il fatto che la galassia neofascista sia la punta di un iceberg dove, alla paccottiglia del Ventennio si accompagnano, si legano e si riordinano i miasmi antidemocratici che attraversano la nostra società. Il passato fascista, da questo punto di vista serve al presente delle cosiddette «post-democrazie»: sancisce che la partecipazione consapevole non serve più; dichiara che si deve dare a una ristretta élite la delega totale rispetto alle decisioni; stabilisce un nesso di dipendenza tra la vita dei più e il volere insindacabile di pochi, a partire da un capo carismatico; enfatizza l’imposizione come strumento di indirizzo nell’esistenza delle nostre società; semplifica e banalizza problemi complessi per poi offrire soluzioni di forza. L’elenco sarebbe molto lungo. Non abbiamo quindi a che fare con un’assenza di memoria e, men che meno, con l’eventuale “non conoscenza” della storia. Risparmiamoci le retoriche di circostanza. Chi si rifà al fascismo in quanto modello non solo politico ma anche sociale e culturale, intendendolo come attuale e quindi riproponibile, ha una precisa idea del passato ma anche e soprattutto chiare intenzioni verso il futuro. Vuole una dittatura. Un tempo ciò sarebbe stato denunciato come inaccettabile mentre oggi rischia di entrare nel circuito dei giudizi di senso comune. Anzi, sarebbe il caso di dire, “nei pregiudizi” diffusi: la democrazia è un orpello, una zavorra di cui liberarsi.
Non è un caso, al riguardo, se esiste un doppio livello. Da una parte lo zoccolo duro delle organizzazioni neofasciste, che rivendicano per sé, apertamente, una tale identità. Non sono mai venute meno, dal 1945 in poi, adattandosi, di volta in volta, alle situazioni date. Sembrano periferiche, quasi marginali, consegnate al loro squallido radicalismo. Ma sono soprattutto un bacino di idee, di volti e anche di voti attraverso il quale introdurre nella discussione politica ciò che fino a non molto tempo fa sarebbe invece risultato impensabile poiché inaccettabile. Dall’altra parte, infatti, si collocano quei movimenti e partiti politici che, pur nella loro legittimità costituzionale, tuttavia ammiccano ai temi che il neofascismo rivendica esplicitamente per sé: a partire dallo svuotamento della rappresentanza democratica, passando attraverso il leaderismo esasperato per poi giungere al razzismo.
Punire il saluto romano non implica il solo osteggiare quei tragici pagliacci che lo ostentano provocatoriamente. Implica semmai il ricostituire una linea di separazione tra lecito e illegittimo, tra accettabile e inaccettabile. I simbolismi non sono mai delle ritualità fini a se stesse. Piuttosto sono dei precisi segnali attraverso i quali si comunicano volontà più ampie, poiché rivolte alla collettività. L’antifascismo, da questo punto di vista, è a un bivio. Dopo anni e anni di erosioni del suo patrimonio condiviso, deve riprendere l’iniziativa politica. Ne va non solo del suo destino ma di quello della democrazia. Laddove le due cose sono facce della medesima medaglia.
Claudio Vercelli, storico – Università cattolica del Sacro Cuore
Pubblicato giovedì 20 Luglio 2017
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/tempo-presente-del-fascismo/