Nell’autunno del 1944 in Veneto, in quel Polesine che ha dato i natali a Giacomo Matteotti, venne perpetrata una strage fascista che per modalità, violenza e proporzione assomiglia spaventosamente all’eccidio delle Fosse Ardeatine, consumato appena qualche mese prima, e che per numero di vittime è la più efferata tra quelle di cui si sono macchiate le autorità della Repubblica sociale di Mussolini. Una strage di cui si parla ancora troppo poco, nonostante quest’anno ne sia ricorso l’ottantesimo anniversario, e che nella memoria pubblica si è voluta in parte dimenticare, od oscurare, forse perché a commetterla non furono i tedeschi nazisti ma gli italianissimi fascisti.
Quella domenica 15 ottobre 1944, a Villamarzana, in provincia di Rovigo, Comune del Polesine di cui era stato sindaco Giacomo Matteotti tra il 1912 e il 1914, i militi fascisti della Repubblica sociale assassinano 41 ostaggi rastrellati nel territorio circostante, di cui 25 minorenni, la maggior parte dei quali partigiani o antifascisti, ai quali verrà aggiunto nei giorni successivi un altro condannato. Una terrificante rappresaglia, dovuta all’eliminazione da parte dei partigiani di 4 spie fasciste infiltratesi nel movimento, un atto che le autorità repubblicane locali decidono di vendicare utilizzando la stessa terroristica e agghiacciante proporzione adottata dalle SS tedesche a Roma dopo l’azione gappista di via Rasella: 10 condannati a morte per ogni fascista ucciso.
Si tratta della strage più cruenta compiuta in Italia dai fascisti che, come è stato censito dai ricercatori dell’Atlante delle stragi nazifasciste, curato da Anpi e Insmli, autonomamente furono responsabili nel biennio 1943-1945 di almeno 1.099 eccidi, per un totale di 2.893 vittime, oltre a quelli eseguiti in complicità con i tedeschi.
I fatti. Un paio di settimane prima il responsabile dell’Ufficio politico investigativo (Upi) Rolando Palmieri, romano, e il comandante della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) di Rovigo, colonnello Vittorio Martelluzzi, di Foligno, si accordano per un intervento volto a stanare e sopprimere un nucleo di circa cinquanta partigiani operanti nella zona di Villamarzana, comandato da «Loris» Giorgio Dall’Aglio e inquadrato nel battaglione partigiano guidato da Bellino Valiero detto «Tito», anche per punire l’uccisione dei loro due camerati Giuseppe Bomba, comandante del distaccamento della Gnr di Fratta Polesine, e Pietro Castellacci, camicia nera, avvenuta il 23 settembre, come affermerà lo stesso Martelluzzi il 17 ottobre in una relazione segreta al Comando generale della Gnr. Un’azione compiuta nell’ambito della lotta al ribellismo in Veneto dichiarata dai tedeschi e dai fascisti di Salò. Viene quindi formata una squadra di quattro spie (il centurione Riccardo Serafini e i militi scelti Emilio Tacchi, Mario Carlotti e Silvio Cestarioli) che, sotto falso nome, fingono di essere organizzatori comunisti di bande partigiane e prendono contatti con Giuseppe Raule, un impiegato dell’ufficio annonario del comune di Villamarzana che non aveva giurato fedeltà alla Rsi ed era sospettato di distribuire le tessere annonarie a sbandati e renitenti alla leva.
Le spie conquistano la fiducia di Raule dandogli notizia di un finto rastrellamento, e poi organizzano con lui e altri partigiani due riunioni clandestine, il 4 e il 5 ottobre, alle quali partecipa anche l’ex segretario del fascio di Villamarzana, Primo Munari, che collabora con la Resistenza. Ma al secondo incontro un partigiano, che aveva disertato da un reparto della Gnr di Rovigo, riconosce una delle spie come un milite della Gnr e informa il comandante Giorgio Dall’Aglio. L’indomani viene così deciso di catturare e giustiziare gli infiltrati nei pressi della cascina Stongarde di Villamarzana, dove vengono sepolti in un’unica fossa, arando poi il campo per mascherare le tracce della terra smossa.
Il mancato ritorno dei quattro fascisti insospettisce i dirigenti dell’Upi e della Gnr che inviano subito a Villamarzana i militi della compagnia dell’Ordine Pubblico di stanza ad Adria, comandata dal bolognese Giorgio Zamboni, chiamato dai partigiani «lo zoppo boia» per un’anchilosi a una gamba e per la sua crudeltà, che arrestano un centinaio di ostaggi, «quasi tutti congiunti di sbandati e renitenti», rinchiudendoli in parte nelle carceri di Rovigo e in parte «nel municipio di Villamarzana, trasformato in accantonamento dei militi», come racconterà Mario Bottari nella prima ricostruzione dei fatti, risalente al 1945.
Gli arresti vengono compiuti con metodi violenti. Per esempio, il contadino Luigi Botton, padre di Danilo, che poi sarà fucilato, testimonierà al processo che «picchiarono me e mia moglie a pugni: dovevano avere qualcosa nei pugni perché […] mia moglie per via di un pugno non è ancora capace di mangiar bene». Tra gli arrestati c’è anche l’ex segretario del fascio, Primo Munari. La notte di sabato 7 ottobre Martelluzzi fa affiggere nel territorio dei manifestini della Gnr nei quali si invita la popolazione a restituire i quattro militi scomparsi, avvertendo che in caso contrario si sarebbe proceduto a una rappresaglia contro gli ostaggi. Uno di questi manifesti viene consegnato anche al parroco di Villamarzana, don Vincenzo Pellegatti, che segretamente collabora con la Resistenza, perché lo legga in Chiesa. Questi si rifiuta, e di fronte alle insistenze dello stesso Martelluzzi, nell’omelia pomeridiana, prosegue Bottari, «profferiva frasi che bollavano a fuoco il fascismo, i suoi metodi, i suoi sgherri». Viene anche lui arrestato e incarcerato assieme agli ostaggi. La sua perpetua testimonierà che i fascisti, mentre lo picchiavano in canonica, erano preoccupati di trovare pane, salame e pollastri come autentici volgari ladri.
Don Pellegatti assisterà così alle torture e ai massacranti interrogatori ai quali furono sottoposti gli ostaggi da parte dei dirigenti dell’Upi Francesco Sergi e Rolando Palmieri, a suon di «schiaffi, pugni, bastonate, staffilate e nervate», a cui si accompagnano saccheggi e incendi di cascine, fienili e case. Testimonierà al processo che «uscivano dall’interrogatorio del famigerato Sergi con la faccia così insanguinata che sembravano tanti ecce homo». Nel frattempo, i tentativi di padre Cornelio Biondi e di padre Germano Lustrissimi, cappellani della Legione Muti di Padova, di ottenere il rilascio dei quattro militi fascisti, trattando con i partigiani, vanno ovviamente a vuoto, in quanto essi sono già morti.
Trascorre una settimana e le autorità locali fasciste decidono di eseguire un imponente rastrellamento, nella notte e nel mattino del 14 ottobre («L’operazione è iniziata alle ore 4,30 del giorno 14 ed ha avuto fine alle ore 14 pomeridiane del giorno stesso», scrive nella sua relazione Martelluzzi), in vari Comuni della zona: Bagnolo di Po, Fiesso Umbertiano, Fratta Polesine, Lendinara, Pincara, San Bellino, e Villamarzana. Vi prendono parte 120 militi della I e II compagnia Ordine Pubblico della Gnr, 60 uomini della Flak Germanica, quattro compagnie della Brigata nera polesana e alcuni reparti delle SS tedesche, per un totale di «circa 500 effettivi». «La banda ivi sorpresa dalla tempestività e dalla rapidità dell’azione è stata distrutta», continua la relazione di Martelluzzi, riferendosi al nucleo comandato da Giorgio Dall’Aglio, il quale assieme a un altro partigiano riesce a sottrarsi alla cattura. Lo stesso Martelluzzi aggiunge che durante il rastrellamento «undici partigiani sono stati uccisi sul posto»; tra essi i fratelli Giuseppe e Pasquale Zeggio e i cugini Remigio e Italo Varliero caduti in località Bressane, Emilio Secchiero, il diciannovenne Gaetano Campion ucciso a Precona, il partigiano genovese di cui si conosce solo in nome di battaglia “Otello”, suicidatosi per non essere torturato e che oggi è sepolto nel cimitero di Rovigo.
Nazzarena Boaretto, cugina di Bruno, che all’epoca aveva 16 anni, ricorda che «alla sera si sentivano da lontano solo le loro voci che cantavano a squarciagola: “Con il sangue dei partigiani ci laverem le mani”. E così è stato». Gli altri prigionieri vengono divisi in due gruppi: otto di loro sono portati a Villamarzana, gli altri in Villa Pelà nel centro di Castelguglielmo e di lì poi tradotti nelle carceri giudiziarie di Rovigo. Gli otto partigiani di Villamarzana, appartenenti al distaccamento di Dall’Aglio, vengono sottoposti a ogni tipo di tortura, racconta Bottari, per indurli a rivelare dove sono finiti i quattro militi fascisti scomparsi: «A Danilo Botton rompevano una bottiglia sulla testa, […] Egisto Mantovani riceveva tante nervate da ridurgli la schiena un’unica piaga. Ad uno degli ostaggi, Marco Pezzuolo, ex autista di Matteotti, perché aveva risposto in tono ironico ad una domanda del Sergi veniva da questi fatto segno da un colpo di pistola che gli sfiorava il padiglione auricolare». Finché la sera del sabato, secondo la versione di Bottari, il partigiano Gelsomino Marchetto, trovato in possesso dell’orologio da polso del centurione Riccardo Serafini, vinto dalle torture, non indica il luogo della sepoltura delle quattro spie.
La domenica mattina, all’uscita dalla messa, la gente di Villamarzana è costretta ad andare in pellegrinaggio alla fossa dove sono stati sepolti i militi fascisti. Verso mezzogiorno viene dato ordine di trasportare a Villamarzana anche i detenuti ristretti nelle carceri di Rovigo, che si uniscono agli otto già reclusi nel Municipio, e vengono convocati i giudici del tribunale militare di Piove di Sacco per dare una parvenza di legalità alla decisione della rappresaglia. Vengono selezionati 41 condannati a morte, di cui 12 di Villamarzana e 10 di Castelguglielmo. Intanto Martelluzzi, i suoi ufficiali e alcuni sottufficiali pranzano allegramente nella casa dell’ex segretario del fascio: «tagliatelle asciutte, galline e vino» della cantina Munari, come testimonierà al processo la figlia Lidia, che dichiarerà che dopo l’esecuzione del fratello Gino, i fascisti «vennero a casa a prelevare altre bottiglie di vino».
Sul muro della casetta del barbiere Silvio Domeneghetti viene scritto a caratteri cubitali PRIMO ESEMPIO. I prigionieri destinati alla fucilazione vengono ammassati in una stanza della piccola casa, oggi diventata Museo della strage.
Verso le 13,30 arriva da Rovigo la macchina con a bordo il capitano Riccardi, sostituto procuratore del tribunale militare regionale di Piove di Sacco, che ha un incontro con Martelluzzi. Al termine del colloquio, lo stesso Martelluzzi dà ordine di iniziare l’esecuzione, che viene affidata alla compagnia di Zamboni. Spetta ai due cappellani della Legione Muti e a due benedettini dare la notizia ai morituri e dalla casetta si levano urla di disperazione e di dolore. La maggior parte di loro è minorenne, i più piccoli di età sono Bruno Zanella di Pincara, di 14 anni, e Fabio Dall’Aglio di Villamarzana, di 15 anni. «Sono i più giovani, sono quelli che non hanno mai fatto parte delle formazioni partigiane, che non si rassegnano alla loro sorte. Ma è splendido il contegno dei patrioti Tasso Giovanni e Mantovani Egisto, figure magnifiche di eroi popolari, che, sereni, rincuorano gli altri, dicendo che bisognava morire da forti, che non si deve temere la morte, che l’idea per la quale si muore è immortale», commenterà nel dicembre 1944 il numero 14 del foglio clandestino «Fratelli d’Italia», organo clandestino del Cln veneto.
Il maestro Giovanni Tasso, al quale poi verrà riconosciuta la Medaglia d’Oro al Valor Civile, tenta in extremis di salvare alcuni degli ostaggi, tra cui molti minorenni, spiegando ai fascisti che non fanno parte del movimento partigiano e addossandosi tutte le responsabilità, ma gli aguzzini all’inizio lo lasciano fare, poi li portano comunque al macello. Le modalità dell’esecuzione, che inizia alle ore 16, ricordano da vicino l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Le vittime vengono fatte uscire sei alla volta dalla casetta con le mani legate e fucilate alla schiena da un plotone di 28 militi fascisti, davanti agli occhi della popolazione di Villamarzana che assiste senza poter intervenire perché rinchiusa nel municipio. «Quando mio figlio fu portato via – testimonierà al processo Luigi Botton – mi disse: “Ciao papà, adesso tocca a me”. Non ci permisero neppure di abbracciarci». Mentre la signora Guidetti supplica i fascisti di non privarla dei suoi figli, il capobanda le chiede quale dei due vuole salvare, e poi li porta via entrambi, Benito e Vittorio.
Come scrive Bottari, «gli stessi lacci fumanti di sangue vengono usati per legare i polsi ai martiri che seguivano (i primi); i loro piedi diguazzarono nelle pozze di sangue dei compagni che li avevano preceduti, i loro occhi fissarono il muro cosparso delle cervella e del sangue dei compagni». La carneficina termina alle 17,30. Le salme vengono trascinate per i piedi fino ad un autocarro, lanciate dentro il cassone e trasportate al cimitero di Villamarzana. Durante il breve viaggio, qualche corpo casca dal camion. I corpi vengono ammassati in una fossa comune e abbandonati lì. Allontanatisi i fascisti, tra le 41 vittime incredibilmente si alza Attilio Malanchin, sopravvissuto alla fucilazione e al colpo di grazia. Scavalca il muro del cimitero e trova faticosamente aiuto. Ma non sfugge al suo tragico destino: morirà circa un anno dopo nel tentativo di disinnescare una bomba.
Anche in questo caso, come alle Fosse Ardeatine, la proporzione delle vittime non sarà perfettamente rispettata e ci sarà qualche condannato in più. Quando il dirigente dell’Upi Palmieri, dopo l’esecuzione, provvede a fare l’appello degli ostaggi che devono essere rilasciati, si accorge che per errore tra i condannati a morte è stato incluso Ermenegildo Sandali di Villamarzana. Inoltre, i fascisti cercano il quarantaduesimo condannato, Bruno Boaretto, catturato a causa della soffiata di un delatore mentre si recava dalla morosa nel paese di Costa, e percosso e torturato con la fiamma delle candele sotto i piedi. Ha solo la forza di chiedere di essere ucciso sulla tomba di sua sorella. L’eccidio ancora non è finito: il traditore Primo Munari, don Pellegatti e Giuseppe Raule sono in attesa del processo che si svolge il 19 ottobre, in un’aula ovviamente gremita di fascisti. Munari e il parroco vengono condannati a morte, Raule a 28 anni di reclusione. All’ultimo momento viene concessa la grazia a don Pellegatti, mentre Munari viene fucilato nel cortile della Caserma Silvestri il 21 ottobre. È l’ultima vittima del massacro.
Il comando provinciale della Gnr di Rovigo fa affiggere sui muri un manifesto per giustificare la strage, spiegando che «La serie dei delitti, delle aggressioni e delle rapine commesse dai partigiani in Polesine ha provocato inesorabile la reazione della Guardia Nazionale Repubblicana. La durissima punizione di Villamarzana serva come esempio». Il proclama minaccia altre «esecuzioni capitali con fucilazioni alla schiena» per i «fuori-legge» e rivolge un appello alle «madri, sorelle, spose» polesane a parlare ai loro uomini e convincerli a «ritornare per non perderli».
Nel dopoguerra, il 18 novembre 1945, presso la Sezione speciale della Corte d’Assise di Rovigo, presieduta da Alessandro Alessandri, si celebra il processo a carico di otto dei quattordici responsabili della strage di Villamarzana. Sfilano ben 135 testimoni d’accusa e pochi testi a discolpa. Nella requisitoria il procuratore del re Giovanni Panzuto mette in evidenza «le sevizie e le crudeltà» dei carnefici, segnalando tra l’altro che i condannati «venivano uccisi in mezzo al sangue caldo dei compagni stessi». Il 5 dicembre arriva la sentenza. Vengono condannati alla pena di morte per fucilazione Vittorio Martelluzzi, Melchiorre Melchiorri, Ugo Cavaterra, Rolando Palmieri, Francesco Sergi, Giorgio Zamboni, Enrico Majer e Alessandro Tiezzi Alessandro, alla pena dell’ergastolo Ugo Catarsi, Ermanno Casalini, Agostino Zangarini e Armando Lorenzotti, e a 18 anni Ugo Conti. In sede di appello le Corti di Assise a livello territoriale riducono le pene per tutti, revocando la pena di morte e trasformando l’ergastolo in reclusione. Con il risultato che negli anni Cinquanta, grazie a varie amnistie e sconti di pena, gran parte degli aguzzini fascisti torna in libertà.
Oggi la casetta del barbiere è un Museo dell’eccidio e il muro dove furono fucilati i 41 è un monumento pubblico, dove sulla lapide è inciso: «Caddero per la libertà da ogni tirannide/italiana e straniera/Dal loro sangue germogli esempio e monito/per le generazioni a venire/onde si perpetui la patria giusta/libera e democratica». Il Comune e l’Anpi di Villamarzana sperano in una prossima visita del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per accendere i riflettori su questa pagina di storia caduta nell’oblio e far ricordare che anche il fascismo italiano è stato responsabile di stragi efferate.
Mario Avagliano, giornalista e storico. Con Marco Palmieri ha pubblicato numerosi libri. Gli ultimi in libreria: Italiani d’America. La grande emigrazione negli Stati Uniti, il Mulino, Bologna 2024; Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine. Le storie delle 335 vittime dell’eccidio simbolo della Resistenza, Einaudi, Torino 2024.
Fonti utilizzate:
Elios Andreini e Gianni Sparapan (a cura di), Per il tribunale militare di Padova. Villamarzana, ottobre 1944: fatti e documenti, Conselve, Tipografia regionale veneto, 2000;
Ives Bizzi, La Resistenza nel Polesine. Documenti e testimonianze, Susegana, Giacobino, 1995;
Nazzarena Boaretto, Memorie di una vita, s.e., 2016;
Mario Bottari, L’eccidio e il processo di Villamarzana, Rovigo, Istituto Padano di Arti Grafiche, 1945;
Davide Guarnieri e Laura Fasolin, Episodio di Villamarzana 15-10-1944, in Atlante delle stragi nazifasciste, Anpi e Insmli;
Gianfranco Pagliarulo, 1944. Massacro fascista Villamarzana, in Patria Indipendente, 21 ottobre 2020;
Partigiani del Polesine. Nelle fotografie di Mario Dondero, Firenze, Giunti, 2014;
Gian Antonio Stella, Quando i fascisti nel Polesine fucilarono 42 persone, in «Corriere della Sera», 16 ottobre 2024.
Elenco delle vittime:
- Bevilacqua Giovanni di Celio, Castelguglielmo, 1926
- Bevilacqua Luigi di Celio, Castelguglielmo, 1926
- Boaretto Bruno di Evangelista, Villamarzana, 1915
- Boldrin Carso di Michele, Bagnolo Po, 1916
- Botton Danilo di Luigi, Villamarzana, 1919
- Brancalion Rino di Matteo, Badia Polesine, 1926
- Burin Angelo fu Leopoldo, Arquà Polesine, 1916
- Castellan Tullio di Giuseppe, Castelguglielmo, 1927
- Cavalieri Ermes di Aristide, Gaiba, 1924
- Chieregatti Guerrino di Giovanni, Castelguglielmo, 1915
- Dall’Aglio Fabio di Silvio, Villamarzana, 1929
- De Stefani Luigi di Gio Batta, Villamarzana, 1920
- Donegà Giuseppe di Giovanni, Bressane, 1926
- Faccioli Ennio di Oreste, Villamarzana, 1928
- Fantinati Giovanni di Angelo, Castelguglielmo, 1925
- Feo Antonio di Rodolfo, Napoli, 1920
- Ferro Onorio di Vittorio, Bressane, 1928
- Folego Gino di Giulio, Bressane, 1925
- Galvani Ezio di Attilio, San Bellino, 1921
- Garbellini Bruno di Secondo, Runzi, 1927
- Guidetti Benito di Mario, Villamarzana, 1926
- Guidetti Vittorio di Mario, Villamarzana, 1928
- Lanzoni Ivan di Angelo, Castelguglielmo, 1921
- Mantovani Egisto di Ernesto, Povegliano (Vr), 1924
- Marchetto Gelsomino di Vittorio, Villamarzana, 1924
- Milani Wilson fu Giordano, Castelguglielmo, 1922
- Morin Umberto di Nello, Bressane, 1928
- Munari Bruno di Pasquale, Villamarzana, 1926
- Munari Gino di Primo, Villamarzana, 1921
- Prini Nerino di Carlo, Castelguglielmo, 1924
- Rizzi Mario di Gaetano, Pincara, 1927
- Sandali Ermenegildo di Angelo, Villamarzana, 1908
- Tasso Antonio di Giovanni, Bressane, 1926
- Tasso Giovanni di Valente, San Bellino, 1908
- Tinti Lido di Antonio, Fiesso, 1924
- Tosarello Nello di Tranquillo, Fiesso, 1924
- Tosarello Valentino di Tranquillo, Villamarzana, 1926
- Usan Giuseppe di Tranquillo, Fiesso, 1925
- Voltani Silvio di Raffaele, Occhiobello, 1907
- Zanella Bruno di Zosimo, Pincara, 1929
- Zuliani Nazzareno di Ernesto, Castelguglielmo, 1921
- Malanchin Attilio di Giovanni, Castelguglielmo, 1925, ferito sopravvive alla fucilazione. Morirà dopo un anno nel tentativo di disinnescare una bomba
- Munari Primo, ex segretario del fascio.
Pubblicato giovedì 14 Novembre 2024
Stampato il 12/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/strage-di-villamarzana-leccidio-fascista-dimenticato/