Le drammatiche emergenze delle ultime settimane ci hanno detto veramente cos’è l’Appennino, l’Italia rurale, la bellezza e la fragilità di un mondo che si ama per il fascino dei suoi borghi, del suo ambiente e dei suoi prodotti, e che troppo spesso si trascura e si emargina in nome di puri calcoli economici.
È una sfida impegnativa e appassionante la vita tra i nostri monti.
L’Appennino è la più grande e importante catena montuosa delle quattro penisole euroasiatiche – anatolica, balcanica, italiana e iberica – che si proiettano nel Mediterraneo. Si snoda lungo i 1500 chilometri che dal Passo di Cadibona corrono fino alle Madonie e ai Nebrodi ed è uno straordinario campionario di storia e cultura, di scenari suggestivi, di diversità biologica.
Questo territorio, che corrisponde ai 3/5 della superficie nazionale ed ospita 1/4 della popolazione italiana mantiene una straordinaria potenzialità, perché si è conservato relativamente integro – rispetto ad altre aree del Paese – per un complesso di ragioni non tutte positive: prima fra tutte l’abbandono della montagna da parte delle popolazioni che sceglievano o erano costrette a spostarsi nei territori più agevoli, industrializzati o all’estero. E con lo spopolamento si è ridotta l’attenzione delle istituzioni e si è abbassato il livello dei servizi.
In sostanza si è detto “non conviene investirci, non serve conservare il trasporto pubblico, tenere aperte scuole, farmacie, uffici postali, non vale la pena portarci la connessione ad internet. È diseconomico…”.
Storicamente la politica e l’economia non hanno investito su questo mondo: con il doppio danno di rendere la montagna ancora più fragile e di portare al collasso le metropoli o le aree costiere.
In generale è evidente che il modello di sviluppo che ha dominato gli ultimi decenni ha inequivocabilmente mostrato i suoi limiti e oggi tutti i territori, montuosi o no, stanno pagando i danni causati da un malinteso senso di progresso e di modernità, che si è accompagnato a miopia programmatica quando non ad incuria.
Ma sulle aree rurali soprattutto nel centro-sud d’Italia si è accumulato nel tempo un pesantissimo svantaggio economico e sociale: svantaggio per gli abitanti (spopolamento, permanenza dei servizi, distanze dai servizi centralizzati), svantaggio per le imprese (trasporti, costi di impresa e di produzione).
Così un territorio più fragile è diventato anche un territorio più vulnerabile.
Di questo abbiamo avuto drammatiche testimonianze nei giorni scorsi: le conseguenze dei terremoti (che pure sono una costante secolare in queste terre) e delle spaventose nevicate (segno invece di un moderno squilibrio climatico che nel futuro ci sfiderà sempre di più) hanno prodotto danni feroci, stroncato vite umane, devastato interi paesi, colpito drammaticamente l’economia agricola, artigianale e turistica, danneggiato infrastrutture e servizi.
Eppure in quei frangenti abbiamo scoperto anche la forza, la bellezza e l’importanza di vivere quei luoghi da parte dei suoi abitanti: lo si è visto nella dignità e nella tenacia dei volti rugosi degli anziani e in quelli irriducibili dei giovani. Lo si è visto nell’azione generosa dei soccorritori. Lo si è capito dalla solidarietà che ha attraversato l’intero Paese per sostenere non solo l’emergenza ma anche i primi passi di ricostruzione e verso il recupero di una normalità che pure ancora tarda ad arrivare.
A questa reazione, a questa sincera mobilitazione sociale, però, deve aggiungersi la scelta dello Stato di operare una svolta strategica. Solo in questo modo sapremo veramente trarre la giusta lezione da queste tragedie.
La svolta che serve si chiama messa in sicurezza del territorio e promozione di uno sviluppo sostenibile.
La più grande, straordinaria, indispensabile opera pubblica che l’Italia deve saper promuovere nel suo futuro – ci vorranno trenta, cinquanta, cento anni… non importa – è un piano di recupero e adeguamento del patrimonio urbano (a partire delle scuole, naturalmente), di adeguamento sismico, di manutenzione dei fiumi per evitare alluvioni e frane, di tutela e depurazione delle acque, di sostegno all’economia locale fatta di produzioni di pregio e qualità, a partire dal tema della fiscalità, che deve prevedere agevolazioni e detrazioni a sostegno delle popolazioni residenti e all’impresa che intende investire in Appennino.
Per la prevenzione e la sicurezza ci vorranno decine, forse centinaia di miliardi lo sappiamo. Ma questa sarà, in prospettiva, una cifra sicuramente inferiore a quella che si spenderà per intervenire a riparazione dei danni.
Questo serve: altro che il Ponte sullo Stretto di Messina, con tutto il rispetto!
La vera urgenza nazionale è questa: ed è una sfida meravigliosa perché non mira solo a tutelare un patrimonio storico, ambientale e di tradizioni umane e creative che la civiltà dell’Appennino incarna.
Ma perché questa sfida può rappresentare un investimento sul futuro: può chiamare in causa la possibilità di realizzare, con metodi e tecnologie moderne, servizi alla persona e alle imprese; può spingere ad investire sulla ricerca, sull’innovazione, sollecita ad organizzare una share economy.
In questi anni in Appennino si sono sperimentati anche modelli virtuosi di economia soft e green, grazie ai Parchi, a tenaci operatori, a imprenditori illuminati. Sono esempi ancora circoscritti, è vero.
Ma credo che esista la possibilità di rimettere, al centro di una elaborazione nazionale, il ruolo che le cosiddette zone marginali possono avere nella costruzione di una economia locale di nuova concezione, profondamente legata alle radici culturali, produttive e socioculturali di un territorio.
Per far questo è necessario molto pensiero, molta cura, molta conoscenza e molta politica, per arrivare a considerare la montagna come risorsa, slegandola, nell’immagine e nei fatti, dalla semplice logica del sussidio, rimarcando la necessità che essa venga compensata per i suoi elementi di servizio al bene collettivo e sostenuta nelle sue fragilità al fine di esprimere tutte le potenzialità che possiede.
Ed è possibile raggiungere tutto questo solo a partire dall’idea forte dell’uomo “consapevole” e responsabile nel territorio in cui vive. Dal documento Slow Food (Stati generali delle comunità dell’Appennino, 2013) a firma G. L.: “il termine uomo consapevole viene utilizzato per indicare le persone che vivono in un territorio e nel rispetto di quel territorio. I contadini, emblema di questi uomini, per secoli hanno rispettato la terra che dava loro il sostentamento. La tradizione, il sapere dell’arte tramandata, il rispetto per il complesso ambientale in cui vive, fa diventare l’uomo consapevole parte integrante del proprio ecosistema ed elemento fondante della sua biodiversità”. Per approfondire questi temi suggerisco, assieme alla lettura del documento Slow Food, anche la lettura della “Bozza per la Carta dell’Appennino”, (2015) di Fabio Renzi, Symbola.
La vera sfida al terremoto, alla neve, ai danni del clima e più in generale alla trascuratezza e all’abbandono consiste dunque nel mettere in sicurezza i beni fisici (le case, le infrastrutture pubbliche e il patrimonio storico e artistico) e, prima ancora, nel ricucire e ricostruire il tessuto delle relazioni sociali ed economiche.
Ma questo non si può fare senza un’idea di futuro dell’Appennino.
Una nuova identità capace di rispondere alle domande della nostra contemporaneità – autenticità, responsabilità, sostenibilità, creatività, biodiversità, qualità – che attingono ai suoi valori materiali e immateriali più connotativi, alle sue radici più belle e profonde.
L’Appennino deve diventare il luogo di sperimentazione e di diffusione di un’economia green, condivisa, collaborativa e circolare. Un’idea di società e di territorio, del ruolo e della forza dei luoghi, prima che economica. Un’idea affascinante che spingerà la gente a restare e a tornare a viverci.
Fulvio Angelini, Presidente dell’ANPI dell’Aquila
Pubblicato giovedì 2 Febbraio 2017
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