Pubblichiamo il testo, non corretto dall’autore, dell’intervento del professor Artoni nel corso dell’iniziativa pubblica svoltasi la sera del 24 novembre a Milano e promossa da ANPI, CGIL e ARCI nazionali, dal titolo “Se vince il No ci sarà l’invasione delle cavallette?”, “Costituzione ed economia”. Sono inoltre intervenuti Carlo Smuraglia, Francesca Chiavacci e Susanna Camusso.
Si devono distinguere gli effetti economici immediati riconducibili ai quesiti referendari e le conseguenze di più lungo periodo delle modifiche costituzionali.
Considerando i singoli quesiti, gli effetti qualificati come riduzione dei costi della politica sono del tutto marginali e compensati dalle politiche clientelari ampiamente praticate.
Gli effetti del passaggio dal bicameralismo paritario al bicameralismo pasticciato non sono quantificabili. Posso solo ricordare che è stata fatta una rassegna della letteratura senza giungere a conclusioni precise. Qualcuno ha anzi sostenuto che questo passaggio ha reso le decisioni politiche meno prevedibili aumentando l’instabilità. Si può quindi ragionevolmente sostenere che il culto futuristico della velocità in materia legislativa non porta sempre a risultati positivi (soprattutto con politici strutturalmente superficiali).
Sulla riforma del Titolo V tutto dipende dalle scelte specifiche del governo e dalla sua filosofia generale, non necessariamente apprezzabile.
Sempre nella sfera economica immediata, si sottolineano i pericoli di instabilità finanziaria. È evidente che tutto può accadere, anche se nell’attuale contesto di integrazione finanziaria risulta difficile ipotizzare manovre fortemente destabilizzanti. Molti ne sarebbero colpiti e non solo nel nostro Paese.
Questo pericolo e il fatto stesso che venga prospettato evidenzia un problema che i regimi democratici devono affrontare sia isolatamente, sia nell’ambito di strutture sovranazionali incompiute com’è oggi l’Unione Europea. È evidentemente incompatibile con un regime effettivamente democratico il fatto che alcuni grandi operatori possano orientare e in alcuni casi determinare le scelte fondamentali di un Paese.
In altri termini, non è pensabile che possa continuare a lungo il ruolo di supplenza (anche a tutela delle banche tedesche) svolto dalla Banca Centrale Europea. Sotto questo aspetto si pone l’evidente necessità, come sostengono ormai molti, che l’Unione Europea acquisisca una dimensione politica, se si vuole evitare il collasso definitivo.
Le ultime considerazioni mi portano ad affrontare il problema degli effetti economici di lungo periodo della riforma costituzionale proposta.
Come è stato sottolineato, questa riforma è in buona misura indirizzata ad un forte rafforzamento dell’esecutivo, senza che nel medesimo tempo siano introdotti i necessari contrappesi propri dei regimi tendenzialmente presidenziali.
Nell’attuale contesto sia politico, sia culturale è opportuno questo rafforzamento? Non nasconde forse un potenziale peggioramento del clima economico e sociale?
Si deve sempre aver presente che le costituzioni o gli assetti economici introdotti nell’immediato dopoguerra riflettevano le tragiche esperienze degli anni 30 (disoccupazione di massa, caduta dei livelli di attività, una quadro finanziario destabilizzato, polarizzazione nella distribuzione di redditi e ricchezza). Si tentò quindi di dare spazio a sistemi (ispirati dal New Deal e dalle analisi di Keynes e anche di Polanyi) che recepissero:
- L’importanza dei meccanismi di regolazione della distribuzione primaria del reddito, che si forma essenzialmente sul mercato del lavoro (ne discende la centralità della contrattazione collettiva)
- Il ruolo dello Stato nella promozione dei grandi progetti di sviluppo e nella finalizzazione sociale della proprietà privata
- L’attribuzione allo Stato del ruolo di regolatore della domanda aggregata
- L’esigenza di proteggere gli individui dai grandi rischi dell’esistenza con la creazione o il potenziamento degli istituti del welfare state
- La necessità del controllo dei movimenti di capitale destabilizzanti, come previsto dagli accordi di Bretton Woods.
Questi principi hanno guidato il mondo occidentale per circa 30 anni dando luogo a quelli che con esagerazione sono chiamati anni gloriosi, comunque anni di progresso.
L’abbandono di questi principi è avvenuto nel corso degli anni 80, quando si è formato il cosiddetto Washington Consensus, caratterizzato da:
- Riduzione del ruolo della contrattazione collettiva e dei sindacati considerati fattore di rigidità;
- Libertà di movimento dei capitali, anche a breve;
- Ridimensionamento del welfare state da privatizzare ove possibile;
- Privatizzazione anche dei monopoli naturali.
In Italia il Washington Consensus ha trovato ampio spazio con le cosiddette riforme del 1992.
Gli effetti di questa linea di politica economica, dopo alcuni anni di euforia finanziaria, sono ormai evidenti, non solo in Italia:
- Rallentamento della sviluppo a partire dal 2008; si parla di grande recessione;
- Fortissimi effetti sulla distribuzione dei redditi sempre più concentrata;
- Insicurezza diffusa per il venir meno del ruolo assicurativo dello Stato
- Grande indebolimento dell’apparato produttivo, come conseguenza delle politiche di privatizzazione adottate con grande fervore in Italia.
Le conseguenze negative sono state aggravate in Europa da un ruolo molto ottuso dell’Unione Europea, con le cosiddette politiche di austerità, in un contesto finanziario destabilizzato.
Si aggiunga che i problemi non si risolvono con una deformazione, sotto forma di erogazioni clientelari dell’impostazione keynesiana, ma con un recupero di assetti strutturali appropriati. Una politica fiscale effettivamente keynesiana implica l’ampio utilizzo degli stabilizzatori automatici, la realizzazione di grandi progetti d’investimento e una forte attenzione alla distribuzione primaria, evitando la precarizzazione di larga parte del mondo del lavoro.
A questo punto ci possiamo chiedere quali sarebbero gli effetti di lungo periodo di una vittoria del Sì.
Sarebbe accettata di fatto la continuazione delle politiche che hanno portato anche nella sfera nazionale a risultati negativi.
Basti fare riferimento alle scelte governative recenti, che possiamo qui solo richiamare: job’s act, compressione degli interventi nella sfera sociale, politiche di privatizzazione, incertezza nell’affrontare la crisi bancaria, politiche tributarie molto dubbie che si sono risolte in una forte detassazione delle imprese scarsamente efficace in un contesto di domanda aggregata inadeguata, depotenziamento della lotta all’evasione fiscale, uso dei margini di bilancio per interventi scarsamente efficaci (con irritazione europea)
In sostanza, è stata continuata la politica di origine reaganiana definibile come supply side economics.
È ragionevole concludere che la sconfitta del Sì renderebbe più difficile proseguire in politiche sostanzialmente fallimentari sul piano economico e sociale.
Quanto detto non implica che i sostenitori del NO sarebbero capaci di interventi appropriati.
Però almeno si può sperare.
Roberto Artoni, Ordinario di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi di Milano
Pubblicato venerdì 2 Dicembre 2016
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