Sono stato autorevolmente invitato a intervenire, in qualità di studioso di storia (già ordinario di Storia contemporanea all’Università di Palermo) e di militante antifascista, sulla vicenda ancora in corso nella città di Cefalù che riguarda l’eventuale restauro e ripristino di una scritta di cui è autore Benito Mussolini, qui di seguito riprodotta, su un edificio privato ma di rilevante visibilità pubblica. Fautrice o sostenitrice dell’iniziativa sarebbe la stessa amministrazione comunale con il suo sindaco, che vanta un molto improbabile avvallo della soprintendenza ai beni culturali. Intervengo sia da storico dotato, se si vuole, di qualche credito scientifico, sia da presidente onorario dell’Anpi Palermo “Comandante Barbato”.
La questione mi riuscirebbe appena fastidiosa e persino al di sotto di quel che di solito fa doverosamente insorgere l’opposizione (sulla base delle leggi, in specie della Costituzione) a manifestazioni e ad atti di neofascismo, se non fosse che la vicenda mette in evidenza la squallida e intollerabile ignoranza della storia da parte di persone che, per mandato elettorale dei cittadini o per i compiti istituzionali ricoperti, almeno di un minimo di cultura storica e di senso delle opportunità civili dovrebbero essere dotate. E, invece no, purtroppo; non sembra affatto ne siano dotate, contribuendo così, con la loro dimostrazione di ignoranza, ad aggravare l’odierno quadro avvilente di degrado della società in Italia che coinvolge, sia al centro sia alla periferia, tanto il suo cosiddetto ceto dirigente quanto aree molto estese di cittadinanza indifferente o manipolata dal neofascismo e tendente a far propria della sua saccente ignoranza la bandiera di un ridicolo, ma pericoloso, attivismo politico.
Veniamo al fatto. Recita la frase di Mussolini qui in questione (frase che fu scritta sul menzionato edificio di Cefalù per sancisce una specie di pubblica glorificazione della vantata “civilizzazione” fascista dell’impero e dell’imperialismo e che anticipava quella valutazione intensamente apologetica di tutte le imprese coloniali italiane in Africa, dalla Libia all’Etiopia, di cui la propaganda di regime con i suoi servili “intellettuali” si sarebbe avvalsa anche e soprattutto per coprire i crimini delle guerre di aggressione italiane e i numerosi, variamente occultati o “eroicizzati”, criminali di guerra):
“In sette mesi abbiamo conquistato l’impero, in tre mesi lo abbiamo pacificato”.
Ora, sulla conquista dell’impero non ci sono dubbi: ne sono dati di fatto storicamente verificati non proprio gli eroismi, ma le atrocità compiute dall’esercito italiano al comando di Badoglio e di Graziani (oh la falsità di quel detto “Italiani brava gente!”) con l’uso sistematico e massiccio delle armi chimiche e dei gas asfissianti. E neppure ci sono dubbi su quel che Graziani aveva già fatto in Libia per riconquistarla: come è ormai ampiamente documentato (basti rinviare alla fondamentale ricostruzione di Angelo Del Boca), un vero e proprio genocidio che era costato la vita a circa un terzo della popolazione nativa e si era concluso il 16 settembre 1931 con la violenta esecuzione per impiccagione, del vecchio e venerando Omar al-Mukhtar, partigiano eroico e capo della resistenza libica.
E poiché la scritta mussoliniana parla di pacificazione dell’impero, c’è subito da chiederci in che cosa consistette tale vantata “pacificazione”, se non in un ordine realizzato stabilizzando il terrore generato da una violentissima e permeante repressione.
Sarebbe impossibile in questa breve nota ricostruire l’intero sviluppo di quella cosiddetta “pacificazione” in Etiopia, tanto più essendone alimento quelle dottrine razziste enunciate come verità da Mussolini nel famoso discorso di Trieste del 1938 che proclamavano il “diritto dei titolari dell’impero alla superiorità (sia civile che razziale)”. Ma è già molto per capire come andarono le cose ricordare la strage di Addis Abeba del 19 febbraio 1937, in risposta ad un attentato alla vita di Graziani compiuto da alcuni partigiani abissini; una strage poi estesasi con un terrorismo sistematico a tutta l’Etiopia: secondo il notissimo ed equilibrato storico Giorgio Rochat, “la più furiosa caccia al nero che il continente africano avesse mai visto” (cfr. G, Rochat, Le guerre italiane 1933-1943, Milano, Einaudi, 2008).
La stampa italiana – raccogliendo la denunzia degli etiopi (cfr il Memorandum di Londra del settembre 1945) ne avrebbe fornito i dati: circa 30.000 vittime innocenti mediante esecuzioni sommarie. Lo stesso Graziani nei suoi rapporti a Mussolini parlò di “oltre un migliaio di persone passate per le armi” nonché di alcune centinaia di villaggi (sospettati di essere sedi di partigiani) dati alle fiamme, per il compimento di una radicale azione repressiva, detta di “polizia coloniale”. Tra i resti dei villaggi distrutti – secondo le stesse fonti fasciste –per giorni restarono insepolti “cumuli di cadaveri bruciacchiati”. Alle origine di quello che fu un vero e proprio genocidio c’era stato l’ordine personalmente impartito da Mussolini: “tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi”. In particolare, per quanto riguarda i “religiosi” (ovvero il clero di religione cristano-copta), è da ricordare il brutale eccidio compiuto, il 21 maggio, dal generale Pietro Maletti per ordine di Graziani, di tutto il clero della città-convento di Debra Libanos: subito fucilati 297 monaci e 23 laici sospetti di connivenza; poi, anche il martirio dei laici, fino ad un numero complessivo di 449 massacrati.
Gli studi storici ridimensionano i dati della denunzia etiope, pur confermandone la gravità: Angelo Del Boca (cfr.” L’attentato a Graziani in “Gli italiani in Africa orientale”, vol. 3, Milano, Mondadori, 1986) stima in circa 3.000 le vittime; l’inglese Anthony Mockler, sulla base delle stesse “carte Graziani” ipotizza una cifra tra 3000 e 6000 vittime. Più recentemente, Ian Campbell, approfondendo le indagini, è pervenuto alla cifra di ben 19.000 mila vittime.
Ecco, dunque in che cosa consistette la cosiddetta “pacificazione italiana” dell’impero; un quadro di impietosa ferocia razzista, dalla Libia all’Etiopia.
Che cosa dire oggi su quei fatti, se non ricordarli con pietà per le vittime e con un’indignazione profonda per una barbarie italiana compiutasi paradossalmente in nome delle presunzioni di civilizzazione dell’impero? Ora sarebbe da ritenersi scontato per chiunque sia dotato soltanto di intelligenza che accreditare quelle presunzioni come verità è qualcosa di non differente dall’accreditamento, per usare un linguaggio alla moda, di quelle che sono le più indecenti “fake news”, veri e propri attentati alla più elementare ragionevolezza.
In proposito, non è tanto in gioco una querelle tra fascismo e antifascismo. Basterebbe soltanto avere intelligenza e, soprattutto, conoscere la storia. E, conoscendo la storia, gli amministratori dei Comuni, a partire da quello di Cefalù qui in questione, non avrebbero altro da fare che munirsi di biacca e di pennello e correre a cancellare rapidamente quelle scritte ingiuriose per la verità storica, quelle indecenti “fake news” appunto, dalle facciate dei loro edifici. Questo per difendersi da una sorta di inconsapevole auto-umiliazione e per difendere la dignità civile dello stesso popolo che li ha eletti. Sembra invece che indugino con grottesche argomentazioni (tra le quali quella di un preteso “valore” di documentazione storica di quelle scritte!) nella malafede delle loro faziosità filofasciste. E il clima dei tempi li incoraggia a tal punto che non soltanto a Cefalù, ma anche in altri Comuni, si sta diffondendo con grave offesa recata a una antica ed ancora attiva tradizione di civiltà democratica della Sicilia, la pratica di incoraggiare qui e là sulle facciate delle case il restauro degli slogan mussoliniani imposti dal regime fascista. Questo, con la ben probabile complicità di un assessore alla Cultura del governo regionale di note simpatie addirittura filonaziste. Sarebbe ora che la Sicilia migliore scendesse in campo compatta per arginare un così pericoloso fenomeno di caduta nell’inciviltà politica, oltre che nell’ignoranza culturale di massa e nella stupidità dei ceti dirigenti. Valga qui il saggio invito di uno studioso come appello alla ragione dei cittadini.
Professor Giuseppe Carlo Marino, storico, già docente di Storia contemporanea all’Università di Palermo, Presidente onorario dell’Anpi Palermo
Pubblicato lunedì 31 Gennaio 2022
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