“Come tutti i migranti della storia, anche il pomodoro fece un’enorme fatica a farsi accettare in Europa, suscitando diffidenze e paure” spiegano Alberto Grandi, professore di Storia dell’alimentazione all’Università di Parma, e Daniele Soffiati nel libro La cucina italiana non esiste (Mondadori, 2024) che con il podcast Denominazione di origine inventata degli stessi autori, sono nati per smontare certi miti culinari.
Il pomodoro è infatti uno dei prodotti emblema della cucina italiana che però ha una storia tutt’altro che autoctona e che mostra quanto, nell’attuale clima politico, le battaglie sui prodotti tradizionali siano sempre più uno strumento al servizio del nazionalismo, o meglio, del gastronazionalismo: quella posizione secondo cui la propria identità culinaria nazionale è superiore a quella di altri popoli. Un comportamento che inevitabilmente si lega alla concezione della propria cultura intesa come superiore alle altre. L’identità, dunque, smette di essere il mezzo attraverso cui si racconta chi si è, ma viene utilizzata per contrapporre noi da loro, che sono molto spesso le persone straniere.
La santificazione del Made in Italy ne è un esempio che però, parlando di pomodori, per la nostra sacrissima cultura del cibo attinge alla manodopera delle baraccopoli e dei casolari del Sud Italia. Altro esempio è il Ministero della Sovranità Alimentare che, tra l’altro, rappresenta un concetto, uno dei tanti, che i fascisti hanno rubato – e continuano evidentemente a farlo – al movimento operaio e alla sinistra.
E che non vuol dire applicare una forma di nazionalismo alle politiche agricole e alimentari che la destra attua per fini strumentali e non di equità sociale. Vuol dire invece opporsi all’espropriazione delle terre dei contadini da parte delle multinazionali dell’agroalimentare, all’utilizzo di diserbanti nocivi, alla pratica delle monocolture che rendono completamente dipendenti le economie dei Paesi del Sud del mondo e impoveriscono le masse contadine costrette a lasciare i propri campi e a emigrare, come mostra, per esempio, il Movimento dei Senza Terra in Brasile.
Ed è proprio dal Sud America che parte la storia del pomodoro, arrivato in Europa con gli spagnoli del condottiero Hernán Cortés nel 1520, quando, dominata la civiltà azteca, i conquistadores portarono le prime piantine in patria. Da qui, l’ortaggio riuscì ad assicurarsi un posto nella pratica gastronomica italiana solo trecento anni più tardi poiché considerato esclusivamente una pianta ornamentale, vanto per i nobili, al punto che venne piantato nel parco di Versailles per l’orgoglio di Luigi XIV, noto anche come Re Sole. Questo perché “non si capiva quali fossero il momento e il modo migliori per mangiarli – scrive Albero Grandi –, verdi non erano commestibili, una volta maturi marcivano in fretta e durante la cottura si squagliavano assumendo un sapore e una consistenza sconosciuti alla cucina europea”.
A questo si aggiunse la convinzione che fosse tossico, poiché le foglie della pianta erano molto simili a quelle dell’erba morella o della belladonna, note appunto per la loro tossicità. Uno stigma per il pomodoro migrante, nonostante missionari e naturalisti spagnoli ne documentassero l’uso alimentare in Messico.
Il pomodoro, insomma, viene respinto dagli Europei per tutto il XVI secolo, girando mezzo Vecchio Continente fino a quando, alla fine del Seicento, incontra in Italia un’altra migrante, la pasta, portata nel Bel Paese dagli Arabi nel corso del Medioevo, come chiarisce Massimo Montanari, professore di storia medioevale e storia dell’alimentazione dell’Università di Bologna nel libro Il mito e le origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro (Laterza, 2019), da cui abbiamo appreso l’arte di essiccarla per conservarla più a lungo.
Il connubio tra pasta e pomodoro è eccezionale, un incontro decisivo della nostra storia culinaria – principalmente tra Napoli e Sicilia e, diciamolo, non sarebbe mai potuto esserci se i governanti del tempo fossero stati i conservatori del paventato Made in Italy di oggi. Al tempo comunque, il pomodoro ha un consumo ridotto ai mesi estivi, soprattutto agosto, perché manca ancora un sistema di conservazione ermetica dei cibi.
Sarà sul finire degli anni Venti dell’Ottocento che si ha la diffusione del pomodoro in scatola. Siamo negli Stati Uniti e il suo inscatolamento incoraggerà l’innovazione industriale, lanciando un prodotto che, decenni dopo, sarà reso iconico dalla celeberrima opera d’arte di Andy Warhol: la lattina di Tomato soup del 1962. Si sviluppa anche la conservazione in scatola degli spaghetti c’a pummarola ’ncoppa.
“Gli italiani hanno cominciato a consumare davvero la salsa di pomodoro per tutto l’anno in America – concludono gli autori del volume – a partire dalla fine dell’Ottocento e solo nei decenni successivi le abitudini acquisite oltreoceano si sono imposte nello Stivale, da sud a nord”. Ricordando che nel corso della cosiddetta Grande Emigrazione (oltre 9 milioni di persone – pari a un quarto della popolazione che lascia l’Italia tra la fine dell’800 e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale) gli italiani si scoprono mangiamaccheroni, “facendo diventare la salsa di pomodoro il perno della loro, e poi della nostra, cucina”. E ci ricorda che siamo il frutto delle tante migrazioni.
Mariangela Di Marco, giornalista
Pubblicato mercoledì 18 Settembre 2024
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/se-i-migranti-sono-come-pelati-nei-barattoli/