L’ultima parte dei quesiti referendari – che, come ormai tutti sappiamo, riproducono esattamente il titolo della legge di revisione costituzionale – riguarda “il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, quindi ha per oggetto da un lato aspetti economici e dall’altro il rapporto Stato-Regioni (questo, essenzialmente, è il contenuto del Titolo V della Costituzione). Questo intervento tratterà delle linee principali dei primi.
Gli aspetti economici della Revisione Renzi-Boschi riguardano essenzialmente tre cose:
1 Anzitutto, come recita il quesito, la soppressione del Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), un Ente che fu istituito nel 1957 ed è previsto dalla Costituzione che lo definisce così, all’art. 99: “Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa.
È organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge.
Ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge”.
Secondo i dati disponibili sul sito del Cnel, ogni anno lo Stato stanzia per l’organo consultivo tra i 15 e i 20 milioni di euro. L’attività di questo Ente non è mai stata di grande impatto e si è venuta sempre più svuotando, sì che sulla sua soppressione c’è, per la verità, e da tempo, una larga convergenza: nei suoi oltre 50 anni di esistenza ci sono state una quindicina di proposte di eliminazione. Ora, dicono con vanto i sostenitori del Sì, si passa dalle parole ai fatti, e finalmente lo si sopprime: si può essere d’accordo, ma non è che questa operazione possa di per sé giustificare e rendere accettabile una rivoluzione che cambia ben 47 articoli della Costituzione. Nessuna obiezione, quindi: ma non è il caso di esultare, né di richiedere crediti, e tanto meno di sventolare una bandiera.
2 Altra operazione della quale si mena vanto, da parte dei sostenitori della riforma, per il fatto di realizzare una riduzione dei costi – ma delle istituzioni regionali, non del Parlamento – è quella descritta all’art. 122 comma 1, che stabilisce che «con legge della Repubblica» vengano fissati gli emolumenti dei consiglieri regionali «nel limite dell’importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione» (cosa che non avviene attualmente. In soldoni: i sindaci dei capoluoghi di Regione percepiscono un’indennità di circa 5.000 euro, e perciò per i consiglieri regionali la riduzione sarebbe significativa). Bastava una semplice legge ordinaria per fare questo, non c’era bisogno che un articolo della Costituzione stabilisse che una “legge della Repubblica” (e quando sarà approvata?) procedesse ad una riduzione degli emolumenti dei consiglieri di Regione: a che serve tanta ridondanza, invece di ricorrere direttamente ad una legge ordinaria? Quindi, anche qua, si tratta di cosa che non ha attinenza con la Costituzione e perciò in questa riforma è un “di più” inessenziale.
3 L’aspetto che a gran voce viene reclamato come merito, dai sostenitori del Sì, è quello della riduzione dei costi del Senato, dovuta al fatto che i senatori siano ridotti dagli attuali 315 a 100 e che non percepiscano indennità (95 di loro sono consiglieri regionali o sindaci che hanno i loro emolumenti per la loro attività per così dire “principale”; altri, fino a 5, sono cittadini nominati dal Presidente della Repubblica “per altissimi meriti”, che vivono presumibilmente di altro e faranno il lavoro di senatori, per sette anni, come per un “volontariato per la Nazione”, peraltro non di scelta personale, ma indotto dalla “nomina”). Facciamo un po’ di conti:
L’eliminazione delle indennità a 315 senatori (quelli del Senato attuale) comporta un risparmio, rispetto ad oggi, di circa 60 milioni annui.
Altre voci di spesa, oltre a quelle degli emolumenti dei parlamentari, sono quelle dovute ai rimborsi elettorali (i “contributi per le spese elettorali” che lo Stato riconosce ai partiti) ed ai contributi ai gruppi parlamentari (che costituiscono un’altra forma di finanziamento pubblico ai partiti).
A questo proposito: 1) i rimborsi elettorali ai gruppi parlamentari erano già stati annullati dal Governo Letta (decreto 149/2013, convertito con legge 13/2014) a partire dal 2017, quindi su questo lato la “Riforma” non esplica alcuna riduzione; 2) i contributi ai gruppi parlamentari nel 2014 hanno comportato un trasferimento medio (al gruppo di appartenenza) di circa 60.000 euro annui per ciascun senatore: di conseguenza, sui 95 senatori del “nuovo Senato” lo Stato risparmierebbe circa 6 milioni all’anno; rispetto ad oggi, il risparmio sarebbe di circa 19-20 milioni all’anno.
Considerato il fatto che i senatori, come si è detto, non percepiranno emolumenti, ma che bisognerebbe pagare loro le spese di viaggio e di soggiorno ogni volta che si recassero a Roma o altrove per motivi connessi al loro compito di senatori, e considerato anche che i costi della “struttura-Senato” resterebbero praticamente immutati (sede, personale, segreterie, ecc.), se ne deduce che, come peraltro è stato calcolato da fonti attendibili, il “risparmio” complessivo annuo che il Senato non-elettivo comporterebbe per lo Stato non supererà i 50-60 milioni rispetto ad oggi (perciò, è stato detto, varrebbe un caffè all’anno per ognuno dei 60 milioni di cittadini), mentre resta del tutto misteriosa ed inspiegata la cifra di 500 milioni “sparata” da ambienti governativi, Presidente Renzi compreso.
Si può osservare che:
- 50-60 milioni hanno indubbiamente un certo significato: ma non si può non rilevare che rappresentano solo lo 0,003% circa del Pil (vale a dire 30 euro – trenta! – per ogni milione di Pil): che non è un gran risparmio (Totò l’avrebbe definita una “quisquilia”), trattandosi di costi della democrazia.
- Se l’obiettivo era quello di risparmiare si sarebbe potuto – come da più parti, e più volte, era stato proposto – ridurre sia i deputati che i senatori (erano state fatte varie ipotesi: di ridurre il loro numero, rispettivamente, a 400 e 200 o addirittura a 300 e 150); inoltre, si sarebbero anche potuti ridurre i loro emolumenti. Si sarebbe così ottenuto, sul piano della riduzione dei costi per lo Stato, un risultato molto maggiore di quei 50-60 milioni che la Renzi-Boschi comporterebbe.
Nessuno ha mai spiegato perché sia stata scelta quella soluzione (solo l’eliminazione dei senatori eletti direttamente, senza toccare in nulla i deputati) e non altre che pur erano possibili. Non si dica che era quella l’unica via per abolire il “bicameralismo paritario” (che, come si è visto in precedenti interventi, non è stato nemmeno abolito, ma solo ridotto, con l’aggiunta di ulteriori molteplici forme di bicameralismo), perché mantenere due Camere entrambe elettive avrebbe comportato la necessità che entrambe votassero la fiducia al Governo: questo non è vero, lo attestano i migliori costituzionalisti, perché nulla vieta l’esistenza di un “bicameralismo differenziato”, vale a dire l’esistenza di due Camere entrambe elettive con funzioni diverse, compresa quella della fiducia al Governo. Questa obiezione perciò non è ricevibile: allora qual è la ragione di tale scelta?
Di conseguenza, ed a causa principalmente della scelta sul Senato, il giudizio complessivo sugli aspetti economici oggetto della “Riforma” non può che essere negativo. E questo aggiunge un ulteriore tassello – dopo quelli dovuti alla proliferazione dei procedimenti legislativi con la non-eliminazione del “bicameralismo paritario”, nonché al pasticcio di un Senato che non potrà funzionare – che spinge, inesorabilmente e del tutto motivatamente, a votare No al Referendum.
Pubblicato lunedì 31 Ottobre 2016
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