Una delle finalità che hanno ispirato il disegno di legge di revisione costituzionale in discussione in Parlamento è stata quella di ridurre i costi della politica. Lo stesso titolo del disegno di legge esplicita questa finalità: “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”.
Le ragioni che hanno spinto in questa direzione sono più d’una. In primo luogo, l’esigenza di contenere in generale la spesa pubblica in un periodo di crisi economico-finanziaria che stenta ad essere superata; in secondo luogo, l’esigenza di razionalizzare, riducendole, le sedi di esercizio della rappresentanza politica a livello locale, considerate non solo fonti di spesa ma di inutile farraginosità e lentezza delle decisioni amministrative (si veda tutta la legislazione più recente fino alla cosiddetta “legge Del Rio”, in tema di fusione di Comuni e di riforma delle Province, che trova nella proposta in discussione il suo punto d’arrivo nella formale soppressione delle Province); infine, l’esigenza di dare una sollecita risposta ad un’opinione pubblica scossa dalle ripetute e gravi vicende di sperpero di denaro pubblico da parte di coloro che avrebbero viceversa il compito di assicurarne il migliore e più proficuo impiego per tutta la comunità nazionale (di qui, ad esempio, anche la recente riforma della disciplina del finanziamento pubblico dei partiti). In una parola, da questo punto di vista, la riforma costituzionale non è che uno dei tanti indici di un clima che si è creato in questi ultimi anni e che si inscrive in un fenomeno generale di disaffezione dei più nei confronti della politica “professionale”.
Detto che rimane molto dubbio che quello costituzionale sia il piano idoneo ad affrontare il tema dei costi della politica, si tratta di verificare se, e in che misura, il risparmio ipotizzato sia effettivo e quali siano gli effetti di questo ipotetico risparmio sul funzionamento di un organo costituzionale del rilievo del Parlamento.
Sul primo punto, è quanto meno lecito dubitare che la riduzione a 100 dei senatori comporti un risparmio significativo sul piano della spesa complessiva dell’istituto parlamentare e, più in generale, per le casse dello Stato. Al riguardo mi limito a sottolineare due dati. Se certo si avrà una riduzione nell’erogazione dell’indennità di funzione che oggi i senatori percepiscono e del relativo vitalizio, bisognerà tener conto che anche per i nuovi senatori, che pure percepiscono (ma non i 5 senatori di nomina presidenziale) un’indennità come consiglieri regionali o sindaci, sarà inevitabile prevedere una qualche forma di rimborso delle spese sostenute per l’esercizio del loro secondo mandato. Non solo, ma soprattutto a ciò si aggiunga che resteranno del tutto invariate le spese relative al personale non politico del Senato (che diventerà numericamente superiore a quello politico anche in ragione dei numerosi e nuovi compiti di cui l’organo è investito), nonché quelle di gestione complessiva dell’istituzione.
Anche sul secondo punto (aumento della funzionalità del sistema) credo che sia lecito esprimere molte perplessità. Si pensi da un lato alla complicazione del procedimento legislativo che si scompone in più procedimenti distinti a seconda del contenuto dell’atto in discussione (con possibili conflitti tra le due Camere in sede di decisione di quale procedimento vada seguito), dall’altro alla assoluta incertezza circa la reale capacità del nuovo Senato ad esercitare a pieno le funzioni attribuitegli (molte delle quali di nuovo conio, come quella relativa alla verifica delle politiche pubbliche), in ragione del doppio mandato dei suoi membri, della indeterminatezza della sua organizzazione interna, di quale ruolo intenderà privilegiare nella prassi (se quello di co-legislatore o quello di organo di raccordo tra Stato, autonomie locali e Unione Europea o, ancora, quello di valutatore delle politiche pubbliche), in una parola del peso “politico” che riuscirà a conquistarsi.
È chiaro che un mancato decollo della statura costituzionale dell’organo non potrebbe che riflettersi negativamente sul funzionamento dell’intero istituto parlamentare. In definitiva, il rischio che vedo profilarsi all’orizzonte è quello analogo a quello che già è qualcosa più di un rischio a livello di riforma/eliminazione delle Province: a fronte di un modesto (anche in questo caso) alleggerimento della spesa pubblica per gli organi politici, è rimasta intatta la spesa per il personale non politico e si è avviata una complicatissima riallocazione delle funzioni di competenza provinciale con tutti i conseguenti e inevitabili inconvenienti sul terreno dell’efficienza dell’azione amministrativa e della soddisfazione delle esigenze dei cittadini.
Paolo Caretti, professore di Diritto costituzionale presso l’Università di Firenze
Pubblicato lunedì 21 Marzo 2016
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