Il cammino verso il referendum del 2 giugno 1946 e la nascita della Repubblica iniziò l’8 settembre 1943, quando l’annuncio della conclusione dell’armistizio con gli Alleati condusse, con la precipitosa fuga del sovrano e del primo ministro dalla capitale, alla dissoluzione della compagine statale unitaria, trasformando la penisola in un campo di battaglia.
Rinunciando alla difesa di Roma, la monarchia aveva compromesso la poca credibilità che aveva riconquistato due mesi prima, con la destituzione di Mussolini e la sua sostituzione con Badoglio: subito dopo il 25 luglio 1943, la soppressione del Partito nazionale fascista e le altre misure adottate per eliminare gli organi simbolo della dittatura (scioglimento della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, della Camera dei fasci e delle corporazioni e del Gran Consiglio del fascismo), erano state accompagnate dall’impegno a convocare, a quattro mesi dalla fine delle ostilità, le elezioni di una nuova Camera dei deputati. In questo modo, il sovrano ed il suo primo ministro pensavano di potere capitalizzare il colpo di mano con cui avevano messo fine al regime, per salvaguardare la continuità istituzionale dello Stato sabaudo e ripristinare l’ordinamento prefascista, magari con qualche ritocco, costringendo ai margini del gioco politico l’opposizione popolare e democratica al fascismo; quest’ultima era rappresentata soprattutto dai partiti che avevano iniziato a riorganizzarsi già durante la guerra e che ora rivendicavano il diritto del popolo italiano di scegliere la forma istituzionale dello Stato e la Costituzione del Paese, e chiamavano il sovrano a rispondere della sua connivenza ventennale con un regime di cui aveva favorito l’ascesa e il consolidamento, e con cui aveva condiviso le scelte più antipopolari e la catastrofica alleanza con la Germania nazista.
Il periodo aperto con l’armistizio e chiuso con la svolta di Salerno e con il compromesso che avrebbe portato alla partecipazione dei partiti antifascisti al secondo governo Badoglio, può essere letto come l’estremo tentativo della monarchia di presentarsi al Paese come l’unico soggetto in grado di salvaguardare la continuità delle istituzioni e di interloquire con gli Alleati, avvalendosi, per quest’ultimo aspetto, soprattutto del sostegno inglese, solo blandamente contrastato dagli Stati Uniti.
Con la liberazione di Roma, venne data attuazione al compromesso istituzionale messo a punto nelle settimane precedenti (ritiro definitivo del re dalla vita pubblica, affidamento al principe ereditario della Luogotenenza del Regno, formazione di un governo diretta emanazione del CLN) e il progetto di restaurazione monarchica, così come era stato elaborato dopo il 25 luglio, fu definitivamente liquidato: subito dopo la formazione del governo Bonomi, la cosiddetta prima costituzione provvisoria, ovvero il decreto legge luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, demandò ad un’Assemblea Costituente, da eleggere a suffragio universale al termine delle ostilità, la scelta della forma di Stato e la deliberazione di una nuova costituzione, dando così forma legale alla “tregua istituzionale” che avrebbe dovuto regolare i rapporti tra i partiti e la corona fino alla convocazione dell’Assemblea.
L’estate 1944 si apriva con la previsione di un’imminente liberazione di tutto il territorio nazionale, e pertanto la prima costituzione provvisoria era stata concepita per disciplinare una transizione circoscritta ad un periodo di poche settimane; nei fatti, la stabilizzazione del fronte sulla Linea gotica comportò sul piano militare il rinvio dell’offensiva alleata alla primavera seguente e, a livello politico, il tentativo di ridimensionare il peso della Resistenza, concretizzatosi nel proclama Alexander, che invitava i patrioti a sospendere le operazioni belliche in attesa della ripresa di iniziativa da parte degli Alleati, ma anche nella crisi del gabinetto Bonomi, nella quale il pretesto dell’opposizione dei liberali alle misure di epurazione fu utilizzato per tentare di spostare a destra l’asse politico del Paese. In tale contesto, uno schieramento apertamente conservatore iniziò a saldarsi attorno ad una unilaterale sottolineatura dell’esigenza di assicurare la continuità dell’azione dell’apparato dello Stato e di scongiurare il “salto nel buio” rappresentato dall’opzione repubblicana; la monarchia, infatti, si presentava come il principale garante di tale continuità e in tale veste si apprestava a dare battaglia in vista della convocazione dell’Assemblea Costituente.
Risolta la crisi politica con la costituzione di un nuovo governo presieduto da Bonomi, al quale non presero parte socialisti e azionisti, la Liberazione fu preceduta da due importanti eventi: in primo luogo, gli accordi con cui il governo di Roma riconosceva al CLNAI la posizione di organo delegato ad agire in suo nome nei territori occupati, scongiurando il rischio, paventato soprattutto dagli Alleati, di un dualismo di poteri, propedeutico a conflitti come quelli che stavano travagliando la Grecia; in secondo luogo, la missione al Nord del sottosegretario per l’Italia occupata, Medici Tornaquinci, con la quale furono rese note al CLNAI e ai Comitati di liberazione dell’Italia occupata le condizioni poste dagli Alleati, relativamente all’immediato disarmo delle formazioni partigiane subito dopo la Liberazione, al contestuale passaggio dei poteri al Governo militare alleato e alla trasformazione dei CLN regionali in organi consultivi dell’amministrazione militare alleata.
Veniva così delineato il quadro entro il quale avrebbe dovuto svolgersi la transizione verso il nuovo ordinamento democratico, un quadro denso di luci ed ombre, queste ultime prodotte soprattutto dall’intento degli Alleati, condiviso e sollecitato da una parte dello schieramento politico interno, di circoscrivere quanto più possibile la dimensione e la portata del cambiamento in atto. D’altra parte, se la Resistenza aveva restituito dignità al popolo dall’intento degli Alleati, condiviso e sollecitato da una parte dello schieramento politico interno, di circoscrivere quanto più possibile la dimensione e la portata del cambiamento italiano, essa non poteva certo capovolgere la condizione obiettiva dell’Italia post-bellica: un Paese vinto e in parte occupato, nel quale l’influenza anglo-americana continuava a farsi sentire e a condizionare le scelte politiche di fondo: così era stato per la decisione di anticipare la tornata elettorale amministrativa rispetto all’elezione dell’Assemblea Costituente, voluta dagli Alleati al fine di saggiare preventivamente la consistenza delle forze politiche, con particolare attenzione alla temuta egemonia dei partiti di sinistra; così sarebbe stato per la cosiddetta seconda costituzione provvisoria, tradotta nel decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98 e scaturita in primo luogo dall’intento di rimettere la scelta tra monarchia e repubblica non più alla deliberazione dell’Assemblea Costituente, ma ad un referendum popolare, secondo un suggerimento avanzato dai giuristi statunitensi e caldeggiato dal Luogotenente, che sperava in tal modo di fare leva su un consenso popolare all’istituto monarchico ancora vivo soprattutto in alcune zone. L’idea di una consultazione popolare non era inoltre sgradita alle componenti liberali e cattoliche dello schieramento antifascista, e in particolare consentiva alla Democrazia Cristiana di aggirare il rischio derivante da una presa di posizione esplicita all’Assemblea Costituente, suscettibile di aprire una spaccatura tra un gruppo dirigente nazionale e locale orientato in misura maggioritaria a favore della repubblica e un elettorato in cui il peso della componente monarchica non era affatto trascurabile. Al tempo stesso, il dibattito sul decreto legislativo n. 96 mise in luce la scarsa opposizione dei partiti di sinistra ad una scelta che, di fatto, non li favoriva. Non si può escludere che su tale acquiescenza pesassero, oltre alla preoccupazione di non compromettere un quadro politico già precario, la convinzione che il referendum avrebbe comunque confermato l’orientamento popolare maggioritario in favore della Repubblica, e, insieme, la considerazione che la consultazione, contestuale all’elezione dell’Assemblea (secondo la proposta avanzata da Pietro Nenni), avrebbe risparmiato a quest’ultima un defatigante dibattito sulla forma di Stato e le avrebbe consentito di concentrarsi da subito sul lavoro di elaborazione della Carta costituzionale.
Malgrado tensioni e resistenze, si giungeva alla scadenza del 2 giugno con elementi di radicale novità rispetto al passato: il referendum era sconosciuto nel precedente ordinamento liberale, né si poteva invocare una somiglianza con i plebisciti che avevano legittimato il processo unitario conclusosi con la proclamazione del regno d’Italia: in questo caso, infatti, il popolo era chiamato a pronunciarsi sull’incorporazione degli ex stati regionali nell’ordinamento statutario, mentre con il referendum, l’oggetto del voto era costituito dalla forma di Stato, che aveva costituito invece il presupposto dei plebisciti.
Ancora più importante appariva la variazione del corpo elettorale realizzata con l’attribuzione del voto alle donne (decreto legislativo luogotenenziale 1° febbraio 1945, n. 23). L’estensione dell’elettorato attivo e passivo alle donne, oltre a riconoscere loro il ruolo svolto nella lotta per la riconquista della libertà, portava a compimento il pluriennale processo democratico di allargamento del suffragio, brutalmente interrotto dal fascismo, e conferiva nuova ed effettiva legittimità alle scelte che si sarebbero compiute negli anni a venire: non un semplice ampliamento, ma un mutamento politico ed ideale che ridefiniva l’idea stessa di cittadinanza e conferiva una nuova fisionomia all’idea stessa di sovranità popolare.
Alla Repubblica non si giunse attraverso un percorso lineare e scontato. Si trattò al contrario di uno scontro di grande portata, nel quale il blocco conservatore agì con particolare determinazione, consapevole del fatto che la nascita della Repubblica avrebbe potuto mettere a rischio la rete di solidarietà e le connivenze che avevano unito nel sostegno al regime fascista i vertici delle forze armate, della burocrazia e della magistratura, ovvero i soggetti che subito dopo il 25 luglio avevano trovato nella corona il proprio istituto di riferimento. Di qui la forzatura dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III e l’ascesa al trono di Umberto II a pochi giorni dal voto (10 maggio 1946), un atto che rompeva unilateralmente la tregua istituzionale che avrebbe dovuto accompagnare il Paese al referendum e che costituì un maldestro tentativo di salvataggio in limine della Corona; di qui i pretestuosi ricorsi alla Corte di cassazione, che fornirono al sovrano l’appiglio per disconoscere la legittimità della decisione popolare, e tentare, invano, di resistere ad essa.
La Repubblica vinse per volontà di popolo, contro un’opposizione determinata e tentata anche dal ricorso a mezzi extra legali; la vittoria fu netta, ma ancora più significativa fu, nel giro di pochi anni, la progressiva riduzione a valori trascurabili di una minoranza monarchica pure rivelatasi consistente al momento del voto (12.717.923 voti alla Repubblica; 10.719.284 voti alla Monarchia; 1.498.136 voti nulli) e risultata maggioritaria in non poche aree del territorio nazionale. Nel corso degli anni la scelta effettuata il 2 giugno 1946 è diventata sempre più un patrimonio condiviso della società italiana, malgrado le nostalgie revisioniste che fanno periodicamente capolino tra le pieghe di mai sopiti progetti retrogradi: essa ha costituito la premessa per tutti i successivi e difficili passi in avanti della democrazia in Italia e ancora oggi, di fronte alle difficoltà del presente, ripropone l‘esigenza di riportare al centro della vita associata la promozione e la pratica di un credo civile repubblicano, fondato sui valori della Carta costituzionale, la cui attuazione è ancora oggi un processo lungi dall’essersi compiuto.
Pubblicato giovedì 8 Settembre 2016
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