All’inizio di luglio è morta Mizgîn Kobanê, la comandante curda delle Sdf, le forze di difesa siriane, formazione arabo-curda nata per contrastare l’Isis. A ucciderla un drone turco in un attacco sulla città di Raqqa. Questo genere di azioni non sono incidenti isolati ma fanno parte della strategia turca nella regione e hanno come obiettivo combattenti esperti e attivisti delle forze, come l’Sdf, addestrate dagli americani per essere usate nella lotta contro il Califfato di al-Baghdadi.

I curdi che sono presenti nel nord-est della Siria o Rojava e che operano attraverso le formazioni Ypg e Ypj – quest’ultimo ramo femminile del quale era esponente Mizgîn Kobanê – sono considerati terroristi dalla Turchia. Il partito di riferimento dei curdi siriani è il Pyd, omologo del più noto partito dei lavoratori del Kurdistan nato più di 40 anni fa in Turchia, ovvero il Pkk. Anche il Pkk è considerato terrorista da Ankara oltre che da Usa e Ue. Da qualche tempo la politica europea e quella americana hanno derubricato l’Isis e quindi chiudono un occhio sulle operazioni extraterritoriali di Erdoğan.

Il campo di al-Hol

Infatti, se nel 2019 lo Stato islamico si è dissolto come espressione geografica, non si può dire lo stesso dell’ideologia estremista che prolifera nelle menti di uomini, donne e bambini che vivono reclusi e dimenticati dalla politica internazionale. Per esempio nell’imponente campo di al-Hol, una zona di detenzione che è la più grande enclave dell’Isis ancora attiva. Controllare queste persone in detenzione è l’altra guerra dei curdi dopo che le cancellerie occidentali hanno decretato la sconfitta (e quindi la scomparsa dal dibattito pubblico) dello Stato islamico. La guerra e la resistenza contro l’Isis per i curdi significano sopravvivenza ed è parallela alla guerra di difesa e resistenza contro Erdoğan. Se però, come accaduto in passato, il leader turco lancerà una nuova offensiva contro i curdi siriani, ecco che la maggior parte dei miliziani curdi si sposterà sul confine e si indeboliranno i controlli sui detenuti appartenenti all’Isis che già sono pronti a rivoltarsi.

(Imagoeconomica)

In quelle terre i curdi, dello Ypg ma anche del Pkk, insieme alle loro genti hanno difeso anche le minoranze yazide e cristiane dalla furia dell’Isis, al prezzo di più di 10mila morti. Certo, alla guerra contro lo Stato islamico hanno contribuito dal cielo le forze della Coalizione internazionale, e l’addestramento delle forze speciali americane, inglesi, francesi, e l’intelligence. In prima linea a contrastare il nemico però c’erano le ragazze e i ragazzi curdi. Nell’ultimo report fornito dal Rojava Information Center si legge che, durante il mese di giugno, dei 25 attacchi compiuti nell’area 18 sono stati perpetrati da cellule dormienti dell’Isis. E poi assalti a posti di blocco isolati, bombe, rapimenti, spari di cecchini. Scene di ordinaria amministrazione per i curdi impegnati a vigilare nell’area e in questi campi di detenzione. Nell’ultimo mese, solo nel campo di al-Hol ci sono stati 8 omicidi e un ferito. Inoltre si fa concreto l’allarme per una nuova operazione lanciata dalla Turchia oltre confine – nessuno qui invoca il diritto internazionale, come da copione, nessuno si indignerà – con l’intento di invadere il nord-est della Siria, l’area di autonomia dei curdi nata durante il conflitto siriano che però non è riconosciuta a livello internazionale.

La bandiera dell’Isis, sequestrata a un foreign fighter (Imagoeconomica)

Sempre nelle ultime settimane le donne legate all’Isis presenti nel campo al-Roj – un’area di detenzione più piccola di circa 2.300 prigionieri con donne di provenienza europea che hanno sposato membri del califfato o hanno seguito foreign fighters e anche bambini, minori “figli dell’Isis” – hanno dato fuoco alle loro tende. A fine giugno alcuni media locali hanno condiviso un video che mostrava una cerimonia di diploma sotto la bandiera dell’Isis proprio nel campo di al-Hol, nella sezione Annex che ospita donne e bambini “stranieri” dello Stato islamico, cioè non arabi. Alcune ragazze, che parlavano russo, hanno ricevuto il loro diploma sotto l’insegna nera del Califfato. L’educazione all’interno di questo campo è in mano alle donne che fanno proselitismo e trasmettono ai giovani e bambini l’ideologia dell’Isis.

Il vertice Nato dello scorso giugno a Madrid con il Segretario generale Stoltenberg, Erdoğan e i primi ministri di Svezia e Finlandia (Imagoeconomica)

Nelle stesse ore della morte della comandante Kobanê i leader di Stati Uniti ed Europa si davano appuntamento al vertice Nato di Madrid. Da quel summit in cui gli occhi del mondo erano puntati sulla guerra in Ucraina, ecco che Erdoğan chiede e ottiene quello che già aveva anticipato settimane prima. In cambio del sì all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, il leader turco ha chiesto l’estradizione di decine di rifugiati curdi e presunti terroristi che vivono stabilmente nei due Paesi scandinavi: scrittori, giornalisti, politici, attivisti, islamisti. Nella lista nera sui media turchi, controllati per il 90% dal cerchio magico del Presidente, spiccano due sigle: appartenente al Pkk, partito curdo dei lavoratori, o esponenti di Fetö, la rete islamista dell’imam Fetullah Gülen, ex alleato di Erdoğan e invece oggi accusato del tentato golpe del 2016.

Manifestazione a supporto del Rojava (Imagoeconomica)

Alcuni dei Paesi più avanzati del mondo si sono piegati ai diktat della Turchia, che con i suoi effettivi rappresenta il secondo esercito Nato dopo quello americano. Dopo il ricatto dei profughi, il Sultano ha inflitto un altro scacco diplomatico all’Occidente. Nel memorandum firmato al vertice Nato da Stoccolma e Helsinki non ci sono nomi, numeri o liste, però questo accordo ha avuto l’effetto di criminalizzare i combattenti curdi del Rojava e dare legittimità alle richieste di Ankara. Svezia e Finlandia hanno accettato di non sostenere più le forze Ypg del nord-est della Siria.

Il Pride di Istanbul del 2012 (wikipedia)

Erdoğan ha approfittato dello scudo mediatico della guerra di aggressione all’Ucraina per fare le sue “operazioni speciali” in Kurdistan iracheno e nei territori nord-orientali della Siria. Erdoğan è un politico abile, è un dittatore e non da oggi. Erdoğan fa Erdoğan da circa un ventennio e noi europei lo abbiamo permesso. Sulla pelle dei curdi, delle donne, dei turchi progressisti, degli aleviti, degli armeni, degli esponenti Lgtbqi+ e di altre minoranze. Aver concesso una vittoria diplomatica al Sultano lo rafforzerà all’interno della Turchia in cui l’inflazione è al massimo storico. Se Erdoğan vincerà le elezioni parlamentari e presidenziali previste il prossimo anno sarà responsabilità degli Stati Uniti e della Nato.

Erdogan presiede l’incontro con le delegazioni russa e ucraina (Imagoeconomica)

Recep Tayyip Erdoğan, il ragazzo dei quartieri popolari di Istanbul, il calciatore mancato, lo stratega rapace e disinvolto, il politico che ha disegnato la “nuova Turchia” è stato il vincitore del vertice atlantico di Madrid. Oggi è anche il mediatore tra Putin e Zelensky per il transito delle navi cariche di grano ucraino. La penetrazione nell’ex area ottomana del leader turco si è pian piano allargata nell’ultimo decennio: dalla Siria all’Iraq a spese dei curdi, dalla Tripolitania al Corno d’Africa, dai Balcani all’Azerbaijan con fulcro nel mar Mediterraneo, dove la Turchia persegue la dottrina della Patria Blu per affermarsi come potenza marittima. Quest’estate la Turchia si prepara inoltre ad accogliere i turisti russi che sono banditi dalle altre spiagge del Mediterraneo e già ospita da tempo gli oligarchi putiniani in esilio con i loro patrimoni.

(Imagoeconomica)

Erdoğan nei vari conflitti degli ultimi anni ha tenuto sempre il piede in due scarpe, per esempio ha acquistato i sistemi missilistici russi S-400, malgrado le minacce americane, e ha esportato i droni armati Bayraktar Tb2 prodotti dalla società di Selçuk Bayraktar, genero del Presidente turco, in Ucraina, Siria, Libia, Nagorno-Karabakh eccetera. In bilico tra Stati Uniti e Russia, la nuova Turchia costruita da Erdoğan ha una sfera di influenza molto ampia contando anche sulle ramificazioni in ambito islamista grazie alle affinità ideologiche con la Fratellanza musulmana. L’Europa che dal 2016 paga al Sultano 6 miliardi di euro per bloccare il flusso dei quasi 4 milioni di rifugiati siriani ospitati nel Paese ed evitare che arrivino in Grecia dovrebbe agire o quantomeno interrogarsi.

Antonella De Biasi, giornalista e autrice di vari libri tra cui: “Astana e i 7 mari – Russia, Turchia, Iran: orologio, bussola e sestante dell’Eurasia”, Orizzonti Geopolitici, 2021; e “Zehra – la ragazza che dipingeva la guerra”, Mondadori, 2021