Paul è andato in pensione ormai da una decina d’anni, ma non smette di seguire “gli affari europei” ed è sempre attivo nell’AIACE, l’associazione degli ex funzionari dell’Unione Europea. È una miniera di aneddoti su quello che una volta si chiamava il “Mercato Comune” ed un caffè con lui ti riporta indietro nel tempo, in un mondo in cui accedere alla funzione pubblica europea era un privilegio, una missione: “stavamo costruendo l’Europa, noi che avevamo visto le macerie, la bandiera nazista sui palazzi di Parigi, lavoravamo con i tedeschi per evitare che i nostri figli dovessero provare quello che noi avevamo vissuto”. Divide la storia in tre grandi fasi: l’epoca gloriosa, un manipolo di teste pensanti che avevano lasciato i Paesi di provenienza per lanciarsi in un’avventura epica, a cui pochi credevano nelle capitali; quella del dopo allargamento, in cui l’ingresso simultaneo di tanti, troppi, stati dell’est europeo ha sconvolto riti ed abitudini ed ha reso tutto più difficile ed il regno di mezzo, dall’entrata dell’Inghilterra, nel 1973, all’allargamento del 2004.
“Sono arrivati e tutto è cambiato”, è categorico e senza appello Paul e non parla del nuovo millennio, ma dei lontani anni 70. Era un sistema impostato sul modello amministrativo francese e come nell’antica diplomazia il francese era la lingua franca. “Nel giro di 10 anni hanno imposto l’inglese, le clausole di ‘opt-out’, come se invece di scrivere un trattato internazionale stessimo redigendo un contratto di borsa, hanno influenzato l’amministrazione a tal punto che sono riusciti a convincere il Presidente Prodi a cambiare lo Statuto dei funzionari, trasformando un mondo certo di privilegiati ma di visionari in un ufficio postale o nel catasto”.
I capelli bianchi, un francese colto e ricercato, un po’ di nostalgia non devono ingannare; Paul è stato tra i negoziatori dell’ingresso del Regno Unito nella Comunità Europea e per lunghi anni ha lavorato direttamente con gli inglesi sulla formazione delle proposte legislative della Commissione, conosce i britannici meglio di loro stessi ed individua ragioni e motivi per cui probabilmente il “Brexit”, l’uscita degli inglesi dall’Unione Europea, si farà.
David Cameron ha negoziato bene, portando a Londra una serie di concessioni importanti, ma non abbastanza a far cambiare idea all’inglese medio. Il “problema dei britannici è che già fanno fatica a capire gli astrusi meccanismi della politica nazionale, figurati quella europea”, racconta Nathan, studente gallese che sta seguendo una formazione in diritto europeo a Bruxelles.
Secondo lui c’è innanzitutto una questione legata all’informazione, la maggioranza struttura la sua opinione leggendo giornali come The Daily Mail, The Daily Express, The Sun, The Daily Telegraph, media dichiaratamente antieuropei che si concentrano sugli scandali e sui cosiddetti attacchi alla sovranità britannica senza mai parlare dei vantaggi dell’appartenere alla UE. I Brexiters, quelli che sostengono che la Corona britannica deve lasciare l’Unione, sono convinti che sia l’Europa ad aver bisogno del Regno Unito e non il contrario ed accusano i Bremainers, quelli che vogliono restare, di confondere l’opinione pubblica facendo credere che se vincessero i NO alla domanda “Il Regno Unito deve restare un membro dell’Unione Europea?” l’isola si allontanerebbe dal continente e nella Manica apparirebbero i coccodrilli come nei fossati dei castelli medievali. Allo stesso modo, i separatisti sono persuasi che gli Stati del Commonwealth, le antiche colonie dell’impero su cui non tramontava mai il sole, siano in qualche modo spaventati dall’appartenenza all’Unione del Regno Unito e non vedano l’ora che il regno riconquisti l’indipendenza da Bruxelles per poter riabbracciare Londra e far fiorire commerci ed accordi che sarebbero una manna per la City.
Inutile, spiega Paul, cercare di far capire loro che la Borsa londinese si sta fondendo con quella tedesca e l’accordo che prevede di tenere la sede al 10 di Paternoster Square (sede storica del London Stock Exchange accanto alla cattedrale di St. Paul) potrebbe saltare in un attimo, portando la potente organizzazione commerciale inglese a Francoforte. “Non ammetteranno mai che la libera circolazione dei beni e dei capitali ha fatto crescere l’Inghilterra molto più della tassa sul the o sui tessili, sono inglesi, non europei” scherza Nathan parlando dei suoi connazionali, “I Brexiter sono patrioti, i Bremainer sono dei traditori che sostengono un regime non democratico governato da oscuri burocrati brussellesi”. Che poi molti dei posti chiave a Bruxelles siano occupati da funzionari con passaporto britannico appare un dettaglio.
Dettaglio non trascurabile sia per il potere reale che l’Inghilterra esercita nelle decisioni della UE, sia in vista di un’eventuale uscita dall’Unione. Requisito per appartenere alla funzione pubblica europea, infatti, è quello della cittadinanza di uno Stato membro. Che ne sarà delle migliaia di alti e medi dipendenti della Commissione, del Consiglio, del Parlamento, della Corte di Giustizia, della miriade di agenzie europee dopo il Brexit? Come farà il governo inglese a trovare per tutti un posto nell’amministrazione nazionale? E dove nasconderanno i 73 eurodeputati che il giorno seguente al NO si troveranno disoccupati? Perché se è vero che l’articolo 50 del Trattato di Lisbona permette il ritiro dall’Unione di uno Stato membro, lo stesso articolo enuncia espressamente che chi “si ritira non parteciperà alle discussioni del Consiglio europeo sulle modalità del ritiro e sui futuri accordi con l’Unione Europea”. Ovvero, restate pure a casa; come ve ne andate, che prezzo pagate lo decidono quelli che restano. Che, immaginiamo, non saranno obbligatoriamente gentili con i cugini d’oltremanica …
L’analisi dei flussi suggerisce che i più favorevoli alla partenza siano gli inglesi sopra i 55 anni (44%) con un livello d’istruzione medio-basso; minore l’età, maggiore il titolo di studio, la proporzione è opposta (solo il 21% dei cittadini sotto i 55 anni pensa al SI e tra i laureati la percentuale scende ancora al 12%.). Senza contare le differenze geografiche, secondo il National Centre for Social Research il 75% dei votanti dell’Irlanda del Nord sarebbe contrario al Brexit, in Scozia il 64%, nel Galles il 55%. Il che, in pratica, introduce anche la seconda questione indipendentista, non da Bruxelles ma da Londra.
Lo Scottish National Party, il partito indipendentista scozzese, si oppone all’uscita del Paese dall’UE e ha già annunciato che se il SI dovesse vincere si terrà un nuovo referendum sull’uscita della Scozia dal Regno Unito; le tensioni in Irlanda del Nord sono note e hanno portato alle lotte degli anni 70, ma se Londra decidesse di abbandonare l’Unione anche i “Lealisti” potrebbero schierarsi con gli indipendentisti e chiedere di lasciare il Regno Unito per restare nella UE. Anche la questione del diritto di voto è in ballo. Dovrebbero votare i cittadini della Gran Bretagna, dell’Irlanda del Nord e del Commonwealth con più di 18 anni, residenti nel Regno Unito o all’estero da meno di 15 anni, i cittadini britannici residenti a Gibilterra (che non possono di regola votare nelle elezioni generali) e c’è una forte richiesta perché anche gli stranieri residenti in Inghilterra da oltre 15 anni possano esprimersi, anche se non cittadini della Corona. I Labour e gli scozzesi hanno chiesto di abbassare l’età minima per votare a 16 o 17 anni, come accaduto con il referendum per l’indipendenza scozzese del 2014, ma i Conservatori si oppongono, pur essendo divisi al loro interno in quattro grandi famiglie, i “Vote leave” (ovvero “vota per lasciare”) i “Get Britain out” (“fate uscire la Gran Bretagna”, meno intransigenti) i più moderni “leave.eu” ed una minoranza che si è schierata con il Primo Ministro dopo le concessioni ottenute all’ultima riunione di Consiglio, i “Britain stronger in Europe”, ovvero quelli disposti a restare ma con una serie di clausole che trasforma l’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea in una sorta di “menu à la carte” in cui Londra potrà scegliere quale normativa europea recepire, anche se è stato rifiutato il diritto di veto.
La riunione di Consiglio dedicata al “Brexit” è durata 30 ore, una maratona che non si vedeva dai tempi della ridiscussione della politica agricola comune, persino più lunga delle riunioni sulla crisi dei migranti. Martin Schulz, Presidente del Parlamento europeo si lascia andare ad un commento abbastanza allarmante: “Nella mia carriera politica non mi ero mai trovato davanti a un insieme di problemi tanto gravi tutti allo stesso momento. Dobbiamo far prevalere la ragione, restare calmi e avanzare passo dopo passo, c’è tensione ma non possiamo reagire con isteria. Ma se uno Stato membro dell’Unione europea e del G-7, che ha potere di veto al Consiglio di Sicurezza Onu, sostiene che senza un accordo se ne andrà, è fondamentale agire. Onestamente, mi sono sorpreso che ci siano volute ‘soltanto’ 30 ore, ma ora l’accordo c’è e da lì si parte. Escludo che si possa rinegoziare, soprattutto perché tra gli Stati membri in tanti pensano che l’accordo raggiunto sia soprattutto a favore del Regno Unito. Se il Paese lo accetta, bene, ma se verrà rifiutato allora non ci sarà spazio per un altro accordo. Non resterà che l’uscita dall’Unione”.
Il dado è tratto: David Cameron, nella riunione straordinaria del governo successiva all’accordo di Bruxelles, ha annunciato che gli elettori britannici saranno chiamati a votare il 23 giugno su quello che il Premier definisce “il nuovo status speciale del Regno Unito all’interno della UE”.
Cameron ora sostiene che “Lasciare l’Unione Europea minaccerebbe la nostra sicurezza economica e nazionale”, ma 5 ministri ed 1 sottosegretario del suo stesso governo hanno già dichiarato che voteranno contro.
Basteranno il sostegno del nuovo leader laburista Jeremy Corbyn, che ha comunque definito i risultati del Consiglio “un’operetta”; di Nicola Sturgeon, leader del partito nazionale scozzese, e le minacce della City – Douglas Flint, presidente della potentissima banca Hsbc ha già immaginato il trasferimento di 1.000 dipendenti a Parigi se dovesse vincere il SI – a far restare il Regno Unito d’Inghilterra, Galles, Scozia ed Irlanda del Nord nell’Unione?
Paul e Nathan pensano di no, molti a Bruxelles giurano d’aver già messo una bottiglia di champagne in fresco se dovessero vincere i secessionisti.
Tempi duri per l’Unione…
Filippo Giuffrida, giornalista, Presidente ANPI Belgio, membro del Comitato Esecutivo della FIR in rappresentanza dell’ANPI
Pubblicato lunedì 7 Marzo 2016
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