«Il 25 luglio 1943 cade il fascismo. Verso mezzanotte un breve corteo di antifascisti percorre via Roma e passa sotto le mie finestre. Sento che gridano “abbasso il fascismo”, “viva l’esercito”. Ma quale esercito? Mi affaccio alla finestra, vorrei scendere per affrontarli, per dire che la guerra non è finita, che i nostri caduti in Russia sono morti per niente! Nella testa ho confusione, sentimenti contraddittori. Soltanto le lacrime di mio padre mi fermano. Se fossi sceso in strada sarei stato preso per un fascista».

[Nuto Revelli, Le due Guerre, Einaudi 2003, p. 129]

 

Intorno alla metà del 1943 il fragile equilibrio sul quale il regime fascista si mantiene per inerzia ancora in vita è definitivamente compromesso dall’accentuarsi della pressione militare angloamericana. Il 10 luglio gli Alleati sbarcano in Sicilia, tra Siracusa e Licata: contrastati vittoriosamente i tardivi contrattacchi dei reparti italotedeschi il 22 entrano a Palermo e già il 5 agosto raggiungono Catania. La rapida occupazione dell’isola mette in luce, in tutta la loro drammaticità, le contraddizioni della guerra fascista. La debole opposizione allo sbarco testimonia la stanchezza del conflitto che ormai imperversa fra i reparti italiani. Roma, intanto, è colpita dal primo devastante bombardamento. Nel Paese si respira un senso tangibile e diffuso di disillusione.

È questo il contesto politico nel quale il 24 luglio 1943 Mussolini convoca la seduta del Gran Consiglio (unico organismo collegiale del regime non più riunitosi dall’autunno 1939). Nel corso della riunione è presentata dai fascisti dissidenti capeggiati da Dino Grandi una mozione, che propone di «tornare alla legalità» rimettendo nelle mani del re il comando delle forze armate; e che – accolta a maggioranza – determina l’improvvisa destituzione di Mussolini per iniziativa dei suoi stessi gerarchi. Quasi che le responsabilità politiche della disperata situazione di guerra in cui si trova l’Italia possano con semplicità essere ricondotte alla sola figura del duce. Il 25 luglio Mussolini recatosi a colloquio da Vittorio Emanuele III, forse nell’intima speranza di poter ancor salvare il proprio ruolo di potere, è costretto a presentare le dimissioni da capo del governo e appena uscito da villa Savoia è posto in stato d’arresto. Intanto il re assegna il compito di costituire un nuovo governo militare di emergenza al maresciallo Pietro Badoglio.

25 luglio 1943 a Torino
Il busto di Mussolini trascinato dalla folla in Via Corte d’Appello a Torino il 25 luglio 43

La notizia della destituzione del duce si diffonde velocemente, ma non produce reazione né fra gli aderenti al Partito Nazionale Fascista né fra i reparti della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, a conferma che anche all’interno della compagine fascista non è quest’epilogo ad aprire la crisi, ma piuttosto sanziona una ormai insanabile situazione di fatto. La dissoluzione del regime aleggia da tempo negli umori dell’opinione pubblica: nel corso degli ultimi anni di guerra – almeno a partire dal 1942 – la credibilità del fascismo si è infatti infranta nel quotidiano stillicidio di disillusione determinato dall’incapacità di governare il conflitto sia al fronte, che in patria. Lo iato fra la percezione della realtà materiale delle condizioni di guerra – andamento dei combattimenti, strategia militare, armamento, razionamento alimentare, bombardamenti – e gli irrealistici scenari bellici e di conquista che la propaganda fascista ha instancabilmente continuato a tratteggiare sembra aver raggiunto un punto di rottura. Lo stridore è palpabile e produce rabbia, delusione, senso di tradimento e ancora non ben definiti desideri di rivalsa, che alla notizia della caduta del regime si trasformano in incontrollate manifestazioni di protesta spontanea. Fasci e busti di Mussolini sono pubblicamente rimossi, trascinati per le strade e distrutti in un liberatorio moto collettivo di euforia e di rivalsa popolare contro i simboli e le sedi del fascismo. La violenza della gente si scaglia contro le icone di un potere repressivo e asfissiante, che con i suoi sogni di gloria ha trascinato la nazione in una guerra irrazionale e l’ha condotta alla rovina, offrendo agli italiani solo un futuro di morte, fame, distruzione e povertà. La fiamma di questa prima istintiva rivolta è però destinata a consumarsi in fretta.

Al momento di assumere formalmente il potere di governo il maresciallo Badoglio risolutamente avverte: «La guerra continua, l’Italia duramente colpita nelle province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa delle sue millenarie tradizioni». Il messaggio diretto al fronte interno appare chiaro: non si illuda chi ha creduto che la caduta del regime corrisponda ad un’automatica uscita dal conflitto. Terminato un breve intermezzo di libertà, alla dittatura fascista subentra infatti una spietata dittatura militare, per la quale moti contadini e operai e iniziative di protesta popolare rappresentano un pericoloso oltraggio all’ordine costituito da reprimere con le armi. Si spara ad altezza d’uomo a Milano (23 morti e 87 feriti), a Reggio Emilia contro gli operai delle Reggiane (9 morti e 30 feriti), a Bari contro la folla inneggiante alla caduta del fascismo (17 morti e 36 feriti), mentre l’istintiva protesta popolare nel corso dell’estate si arricchisce delle voci degli antifascisti, tornati dopo un ventennio di clandestinità e detenzione a parlare nelle piazze italiane. La protesta contro il nuovo governo militare, che fa uso dell’emergenza di guerra per imporre un repressivo controllo dell’ordine pubblico e ingabbiare il mondo del lavoro nella rigida disciplina della mobilitazione civile, non si è ancora dispiegata organicamente nella riorganizzazione dei comitati e dei partiti antifascisti, quando il rapido avvicendamento degli eventi determina un nuovo radicale mutamento del contesto internazionale di guerra.

Per quanto nel corso dell’estate la Wehrmacht abbia effettuato un massiccio trasferimento di nuovi contingenti e i bombardamenti alleati si siano intensificati sia sull’Italia meridionale che su quella settentrionale, il re, il governo e gli alti comandi sono apparsi inerti e confusi sul modo di confrontarsi con l’eredità della guerra fascista. Mentre l’8ª armata britannica sta sbarcando in Calabria, il 3 settembre è finalmente raggiunto un accordo con gli Alleati ed è siglato a Cassibile l’armistizio, che verrà reso noto a qualche giorno di distanza senza che sia predisposto alcun piano d’azione per le forze armate, in grado di governare la delicata fase del passaggio di campo.

«L’8 settembre è un’altra data difficile da capire. Gli antifascisti certo la aspettavano, la prevedevano. Ma io, come tanti, appartenevo ad un altro mondo e continuavo a non capire.

La notizia dell’armistizio mi arriva dalla strada, da via Roma. Sono le 18.30 e vedo gente raccolta in gruppi che discute, che grida, che parla a voce alta. Vedo soldati che fanno festa, che gridano che la guerra è finita. Davanti a un bar ascolto il comunicato di Badoglio, inciso su un disco prima di scappare da Roma con il re. Un messaggio equivoco, una voce vecchia, un disco rotto che comincia sempre dall’inizio. Intuisco che sta per iniziare un’altra guerra. Ho conosciuto i tedeschi sul Fronte russo e so che non perdonano».

[Nuto Revelli, Le due Guerre, Einaudi 2003, p. 130]


8 settembre 1943: il Maresciallo Badoglio annuncia per radio l’armistizio con gli Alleati

 

La disarmante notizia dell’armistizio giunge alle 19.45 per radio e in un istante ribalta ogni prospettiva: gli amici di ieri si trasformano in nemici e viceversa. Vittorio Emanuele III e Badoglio – consapevoli dei rischi insiti in questo improvviso cambio di schieramento – fuggono da Roma verso Brindisi, dove all’ombra della forza militare degli Alleati costituiranno il Governo del Sud. Mentre il Paese abbandonato a se stesso si risveglia in una condizione di paradossale irrealtà: all’euforico entusiasmo per la fine ufficiale del conflitto, si sovrappone minacciosa la percezione del prezzo che comporterà per ogni italiano questo maldestro sfilarsi dall’alleanza tedesca. I comandi militari, che insistentemente chiedono direttive al comando supremo, ricevono risposte ambigue e dilatorie, e negli stessi termini rispondono ai propri sottoposti. La catena gerarchica di comando s’inceppa e ogni reparto, ogni squadra, ogni soldato è chiamato a una scelta personale a fronte del repentino sfascio dell’esercito e delle istituzioni. I comandi germanici avviano intanto il rapido disarmo delle unità e la cattura dei soldati italiani, destinati all’internamento in Germania.

8 settembre 1943 - Roma Porta San Paolo
Siamo a Roma, a Porta San Paolo, ed è il 9 settembre-1943. Una pausa dei violentissimi combattimenti nel corso dei quali militari e civili tentano di salvare la capitale dall’occupazione nazista. Il primo a destra, in abiti borghesi, è il prof RaffaelePersichetti che cadrà combattendo. Gli sarà concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare

Non tutti però accettano di deporre pacificamente le armi e di arrendersi, alcuni singoli reparti oppongono resistenza: così a Trento, a Livorno, a Piombino, sull’isola d’Elba, a Bari, alla Maddalena, nell’area di Gorizia e di Napoli. Roma viene strenuamente difesa per un paio di giorni con il concorso spontaneo della popolazione civile e già il 9 settembre le forze antifasciste danno vita al Comitato Centrale di Liberazione Nazionale, a cui si affianca il Fronte clandestino militare della Resistenza. Le divisioni della Wehrmacht, preponderanti e installate nelle posizioni chiave, occupano però velocemente le principali vie di comunicazione e i maggiori centri urbani. La disparità delle forze in campo, la brutalità della reazione tedesca e la latitanza dei comandi centrali alimentano il disorientamento e lo spirito di rinuncia dei militari, amareggiati dall’insensatezza dei lunghi anni di guerra passati e ormai desiderosi solo di svestire l’uniforme, per cercare di fare ritorno a casa sostenuti dalla diffusa solidarietà popolare.

Nei territori occupati i soldati, lontani dalla madrepatria, sembrano mantenere invece una maggiore coesione di corpo: in alcune località dei Balcani e nelle isole greche (come a Cefalonia, a Corfù, a Rodi, a Lero, a Spalato, in Albania o in Montenegro) grandi unità prive di ordini, ma avvertite della feroce condotta di guerra nazista, non accettano la resa; a volte si riorganizzano in collaborazione con le forze partigiane locali e – seppur destinate a soccombere – impegnano i reparti tedeschi in violente e prolungate battaglie di resistenza, che si concludono con numerose fucilazioni e l’internamento in Germania di circa 600.000 militari italiani.

La 5ª armata americana, sbarcata nel golfo di Salerno il 9 settembre, e l’8ª armata britannica intanto lentamente risalgono la penisola superando con l’appoggio popolare le controffensive dei reparti tedeschi, che nel corso della ritirata sfogano per rappresaglia la propria rabbia in razzie ed eccidi contro i civili. In risposta a questa indiscriminata condotta di guerra si susseguono numerosi gli episodi di rivolta della popolazione del Sud, frutto dell’istintiva resistenza contro la violenza nazista, ma anche espressione di una prima volontà di rivalsa contro le autorità locali di matrice fascista. Raggiunta Napoli già liberata dagli insorti, gli Alleati verso la metà di ottobre sono costretti ad arrestare la propria avanzata in prossimità della Linea Gustav (la linea di fortificazione dei tedeschi, decisa da Hitler il 4 ottobre 1943, contro gli Alleati che risalivano la penisola; andava dal confine tra Lazio e Campania fino a Ortona). Contemporaneamente nelle regioni del Centro e del Nord i militari sbandati impossibilitati a raggiungere le proprie famiglie e i prigionieri di guerra sfuggiti alla reclusione raccolgono le armi, abbandonate sul terreno nei convulsi momenti seguiti all’armistizio, e per difendersi dalla minaccia tedesca danno forma ai primi embrionali gruppi armati partigiani, a cui si affiancano – spesso sotto la guida di vecchi antifascisti – formazioni di più chiara matrice politica. Mussolini, intanto liberato dalla sua prigionia per volere di Hitler, ritorna sulla scena politica e dà vita alla Repubblica Sociale Italiana: un nuovo stato fascista collaborazionista, che dipende dall’alleato occupante ed è pervaso di desiderio di rivalsa contro i traditori italiani; la RSI impone già nel novembre 1943 un nuovo richiamo alle armi, suscitando in molti giovani ventenni in età di leva un ulteriore moto di resistenza alla guerra e la scelta di una fuga sui monti. Sarà l’incontro fra generazioni diverse di antifascisti – gli oppositori del ventennio, chi la guerra fascista l’ha già amaramente combattuta e i giovani che si ribellano all’idea d’imbracciare a propria volta le armi per il duce – a innescare la scintilla di un generale moto popolare di ribellione alla guerra che, seppur nato per molti dall’istintiva volontà di difesa personale, con il tempo assumerà precise e profonde valenze politiche nell’intero Paese.

*Questo articolo è stato pubblicato sul numero di Patria indipendente “speciale 70° Liberazione” dell’aprile 2014

* Toni Rovatti, del Comitato scientifico dell’Istoreco di Reggio Emilia