Ottant’anni fa, nel mezzo di una guerra totale e brutale, tante piccole (e a volte labili) esperienze di liberazione fecero emergere, nell’Italia occupata dall’esercito nazifascista, aspettative e progettualità di radicale trasformazione, chiamando all’appello tutti e tutte. Erano esperienze a volte molto acerbe, contraddittorie, con i limiti e i difetti di un esperimento politico che sorgeva dopo vent’anni di negazione di ogni confronto civile, se non addirittura, talvolta, dopo un’eternità di depoliticizzazione.
Furono esperienze, però, che incoraggiarono una presa di coscienza collettiva, dal basso, mai conosciuta prima, anche da parte di chi, per legge o per tradizione, era sempre rimasto escluso, ai margini. Lungo la frontiera con la Svizzera, nell’Alto Piemonte, la Zona libera dell’Ossola (o “repubblica” partigiana, come sarebbe divenuta famosa nel dopoguerra) in una manciata di settimane si ritrovò al centro di quel complesso di speranze e di attese democratiche che intendevano rompere non solo con la dittatura fascista, ma anche con l’Italia prefascista.
Se ne è parlato sabato 5 ottobre, a Villadossola, nell’ambito dell’80° anniversario della repubblica dell’Ossola. Una platea gremita (incoraggiante segnale d’interesse verso una storia che continua a parlare al presente, alle nostre inquietudini contemporanee) ha partecipato al dialogo tra il presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo, e gli storici Antonella Braga e Andrea Pozzetta della Casa della Resistenza di Verbania. L’incontro, aperto dal presidente del comitato provinciale Anpi del Verbano Cusio Ossola, Franco Chiodi, e dalla presidente della sezione di Domodossola, Cassandra Femminis, è ruotato attorno alle aspettative che il movimento di Resistenza e il governo dell’Ossola partigiana suscitarono in campo sociale e politico; si è discusso delle loro concrete realizzazioni nel corso della storia repubblicana, delle prospettive presenti e future, delle progettualità rimaste incompiute.
Del resto tra le numerose zone libere, l’Ossola è forse tra le più celebri e singolari, soprattutto per il suo carattere di laboratorio di democrazia. La sua fortuna fu la prossimità con la Svizzera, dove si ritrovava rifugiata la migliore intellettualità antifascista in esilio e dove giornalisti da tutto il mondo poterono raccontare l’episodio di autogoverno locale.
Nel settembre 1944, con lo sgombero dei presidi nazifascisti dalle valli ossolane (circa 60.000 abitanti dislocati in 32 Comuni, fabbriche sul fondovalle, centrali elettriche, pascoli e alpeggi nel vasto territorio montano), le forze partigiane affidarono a un comitato di civili l’amministrazione del territorio e così, dall’esilio, entrarono in quel fazzoletto d’Italia libera personalità come Umberto Terracini, Ezio Vigorelli, Piero Malvestiti, Gisella Floreanini. Accanto al medico Ettore Tibaldi, presidente della Giunta provvisoria di governo, essi non si limitarono soltanto alla stretta amministrazione del territorio liberato, ma discussero e progettarono pensando al lungo periodo, all’Italia del futuro. «Cadremo o resteremo», scriverà da Domodossola Tibaldi il 20 settembre 1944 al suo collaboratore Cipriano Facchietti, «ma devono restare come esempio o come affermazione di principio i nuovi istituti che stiamo creando».
Numerose furono le questioni affrontate dal governo della Zona libera; questioni che, peraltro, rimangono di estrema attualità. La libertà di pensiero e di parola, innanzitutto, con i primi affollati comizi e con la fioritura spontanea di giornali e fogli periodici di ogni orientamento. Fu un’autentica scoperta della politica per la popolazione locale: le diverse testate poterono affrontare così la questione della parità di genere accanto a quella dell’autonomia amministrativa, la questione della decolonizzazione accanto ai problemi dei rifornimenti alimentari.
Venne sancito il principio dell’autonomia comunale, come garanzia democratica e nell’interdipendenza degli enti locali con l’unità nazionale. In ogni singolo comune, poi, venne stimolata la nascita di CLN e di giunte amministrative, tra assemblee popolari e rudimentali forme elettive. L’autonomia venne affermata anche nei confronti dei sindacati e delle organizzazioni di massa: il governo assicurò loro tutto il sostegno possibile, eliminando però ogni forma di controllo o di condizionamento esterno. Sfogliando i verbali della Giunta provvisoria di governo emerge inoltre l’attenzione verso i diritti sociali e verso forme di assistenza previdenziale e sanitaria gratuite, non più di tipo privatistico o concepite come effetto di beneficenza ed elemosina.
In un territorio assediato dai nazifascisti e ridotto alla fame dal blocco dei rifornimenti alimentari, occorreva dimostrare che l’Italia non era soltanto quella del fascismo e delle guerre di conquista, ma che una nuova idea di Patria (indelebilmente connessa ai principi democratici e internazionalisti) poteva nascere dal basso. Tre progetti di riforma radicale, tra i frenetici dibattiti politici del settembre-ottobre ’44, emersero allora in Ossola. La parità di genere, introdotta di fatto con la nomina di Gisella Floreanini (partigiana e organizzatrice nelle valli liberate dei Gruppi di difesa della donna) a commissaria per l’assistenza: fu la prima volta, in Italia, che una donna assumeva un incarico di governo, mentre ancora il suffragio universale non era stato introdotto.
Vi era poi la riforma dell’istruzione: una commissione didattica formata da insegnanti del luogo, assieme a intellettuali e illustri accademici come Gianfranco Contini, Carlo Calcaterra, Mario Bonfantini, elaborò un progetto di scuola democratica, che fosse finalizzata alla formazione della persona, del cittadino, prefigurando il superamento dell’istruzione classista e la creazione di una scuola media unica. Una riforma, quest’ultima, che entrerà in vigore in Italia soltanto nel 1962. Infine, la giustizia.
Il 28 settembre 1944 l’avvocato Ezio Vigorelli venne nominato consulente legale della Giunta provvisoria di governo, responsabile dei servizi di giustizia per la zona libera e giudice straordinario. Vigorelli era il papà di Bruno e Adolfo, due partigiani uccisi durante il rastrellamento nazifascista della Val Grande nel giugno ’44. Il suo obiettivo era quello di superare il fascismo anche nei confronti dei fascisti: nei metodi, con il rifiuto delle rappresaglie, delle violenze, delle vendette.
Fu l’affermazione del principio della dignità umana come fondamento costituzionale di un nuovo vivere civile, nonostante l’orrore della guerra, delle deportazioni, degli eccidi. Si capisce così, allora, la puntigliosità di Vigorelli e di Tibaldi nell’assicurare ai detenuti un trattamento dignitoso nelle carceri, il rispetto delle norme di igiene, il superamento di condizioni umilianti di reclusione.
Il governo dell’Ossola partigiana si aprì alla collaborazione internazionale auspicando un mondo che alla fine del conflitto si sarebbe dovuto fondare sull’autodeterminazione dei popoli, sulla giustizia, sulla pace. Migliaia di bambini e di civili, alla rioccupazione nazifascista dell’Ossola, poterono essere accolti nei campi profughi in Svizzera. Ecco perché gli uomini e le donne della Resistenza sapevano benissimo, sulla loro pelle, che cosa volesse dire “diritto d’asilo”, che cosa volesse dire essere rifugiati. E non è un caso se furono proprio gli uomini e le donne della Resistenza a presentare all’Assemblea Costituente l’articolo 10 sul diritto d’asilo, prendendo spunto dalle loro personali esperienze. Anche per questo motivo occorre sempre ricordare che la Costituzione italiana e la nostra democrazia affondano le loro radici nella Resistenza e pure, per quanto breve ed effimera, nell’esperienza della repubblica partigiana dell’Ossola.
In un tempo presente che sorge dalla sconfitta del “fascismo storico”, ma in cui il “fascismo perenne” appare più vivo che mai, confrontarsi attorno al significato storico della repubblica dell’Ossola ci ha portato a ragionare su un’idea di civiltà, di convivenza civile. Quell’idea di civiltà ci può essere di aiuto nella difesa e nel continuo rinnovamento di una democrazia che non deve escludere nessuno e che deve continuare a dare un senso alla nostra cittadinanza repubblicana.
Come ha detto il presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo: “Occorre riflettere sulla coppia di valori a cui si ispirava la grande maggioranza del movimento partigiano e che portò alla nascita della repubblica dell’Ossola: il patriottismo e l’internazionalismo. I due valori si compenetravano, perché l’amore per la patria comprende il rispetto verso le altre patrie, ed entrambi – patriottismo e internazionalismo – guardano a un mondo migliore. Oggi, nel tempo carico di pericoli di guerra in cui viviamo, penso che dobbiamo assumere un’idea di umanesimo integrale e universale, che ponga al centro il valore costituzionale della persona umana e della sua dignità. A ben vedere, lo stesso valore che ispirò la repubblica dell’Ossola”.
Andrea Pozzetta, storico, Casa della Resistenza di Verbania (Fondotoce)
La bellissima orazione della storica Antonella Braga
Rivolgo un caloroso saluto a tutti i presenti, alle autorità civili, religiose e militari, al Prefetto, ai Sindaci di Domodossola e degli altri Comuni qui convenuti, a tutte le Associazioni partigiane, ai rappresentanti dei partiti politici, delle organizzazioni sindacali e della società civile, oltre che agli insegnanti e agli studenti delle scuole che, con la loro semplice presenza, ci donano speranza per il futuro.
Un sentito ringraziamento va doverosamente a coloro che, ancora tra noi, presero parte al movimento di Liberazione, ai loro famigliari che ne rinnovano l’eredità d’impegno e ai parenti dei caduti che ne conservano tenace memoria. Vi invito dunque a salutare con un caloroso applauso l’amico Arialdo Catenazzi, nome di battaglia “Gatto”, che è ancora testimone vivente di quella battaglia.
Credo, infine, di interpretare la volontà di tutti, ricordando in questa giornata l’amico Pierantonio Ragozza, che ci ha lasciato il maggio scorso e che, come ricercatore storico, insegnante e dirigente del domese Liceo “Spezia”, tanto ha fatto per valorizzare la storia di questi luoghi e della lotta di liberazione.
È per me un vero onore essere qui con voi oggi a commemorare l’80° anniversario della Repubblica dell’Ossola, MOVM, in questo luogo sacro, dedicato alla memoria di Giacomo Mattotti, il deputato socialista ucciso cento anni fa, il 10 giugno 1924, dalla violenza fascista.
Fu proprio la Giunta provvisoria di governo dell’Ossola che, nella seduta del 22 settembre 1944, volle denominare le vie e le piazze della città alla memoria dei martiri antifascisti di ogni corrente politica. Piazza Italo Balbo si trasformò così in piazza Matteotti e, nella toponomastica cittadina, oltre alle intitolazioni al radicale Felice Cavallotti e ai caduti partigiani (i fratelli Vigorelli, Marco Giani, Stefanoni), comparvero i nomi del liberale Giovanni Amendola, del cattolico don Minzoni, del comunista Antonio Gramsci e dei giellisti fratelli Rosselli: tutti vittime della brutale violenza fascista.
In questo modo, scolpendo i loro nomi sui muri delle case, i partigiani del 1944 riconobbero il loro debito a quella “resistenza lunga”, che era nata ben prima dell’8 settembre, essendo sorta insieme al fascismo, e che aveva resistito per tutti i venti anni del regime mussoliniano.
Lo ricordava spesso Gisella Floreanini, la commissaria “Amelia Valli” della Giunta dell’Ossola, prima donna ad avere incarichi di governo in Italia, la quale, come altri protagonisti dell’esperienza ossolana (Ettore Tibaldi, Umberto Terracini, Mario Bonfantini, Gigino Battisti, Piero Malvestiti, Gianfranco Contini, Tito Chiovenda), aveva già pagato con la persecuzione e l’esilio in Svizzera la sua fiera opposizione al regime.
Fu poggiando su questa tradizione di impegno che, ottant’anni fa le formazioni partigiane di diverso orientamento politico che operavano sul territorio – la Valdossola, la Valtoce, la Seconda divisione Garibaldi “Redi”, la Piave e la Beltrami – seppero con uno sforzo congiunto donare al capoluogo e alle valli ossolane sei settimane di libertà, tra il 10 settembre e il 23 ottobre 1944.
A celebrare quest’esperienza, rappresentando la libertà con il simbolo dell’araba fenice, che sa sempre risorgere a costo di dolorosi sacrifici dalle proprie ceneri, nel 1979 fu eretto in piazza Matteotti il monumento dell’artista ossolano Giuliano Crivelli.
Questo simbolo accoglie i visitatori che giungono in città dalla stazione ferroviaria e resta ancora oggi emblema di un momento glorioso della storia del territorio, che ne connota l’identità e rende il nome dell’Ossola celebre ben oltre i confini di queste valli.
Che il nome di Domodossola e delle valli ossolane sia indissolubilmente legato alla memoria di uno dei momenti più alti della lotta di liberazione e al concetto stesso di “libertà” è legittima ragione di orgoglio per questa città e per il popolo ossolano, cui va il nostro commosso saluto.
Sebbene sia la più celebre e celebrata delle cosiddette “Repubbliche partigiane” – definizione per certi versi impropria e posteriore agli eventi – l’Ossola non fu l’unico lembo di territorio italiano liberato dai partigiani durante la lunga estate del 1944, una stagione piena di speranze, in cui la fine della guerra e la liberazione sembravano quasi a portata di mano. Le zone libere furono, infatti, circa una ventina nell’Italia centro-settentrionale e assunsero forme molto diverse.
Queste brevi esperienze di autogoverno, realizzatesi nel corso di una guerra totale e nel mezzo di un’occupazione spietata che marcava il territorio con rastrellamenti, stragi di civili e deportazioni di massa, furono segnate da insuperabili limiti oggettivi, dovuti al contesto bellico e territoriale, che impedirono di attuarne tutte le potenzialità.
Si può tuttavia sostenere che, almeno negli esempi più avanzati (come nel caso dell’Ossola, di Montefiorino, della Carnia, del Friuli Orientale, di Alba e dell’Alto Monferrato), le zone libere segnarono una decisa rottura rispetto al passato regime fascista e anche rispetto allo Stato liberale prefascista, sapendo progettare e, parzialmente, sperimentare nuovi istituti democratici.
Per questo, forse con un po’ di enfasi, queste prime prove di autogoverno dopo vent’anni di oppressione fascista sono state definite «semi di Costituzione»; e, in effetti, senza che si possa indicare un diretto legame di derivazione con la futura Costituzione repubblicana, si può legittimamente dire che alcuni istituti e norme sperimentati in questi contesti prefigurarono il successivo quadro costituzionale.
Nella Zona libera della Carnia, per esempio, fu promulgata l’abolizione della pena di morte; nelle valli del Cuneese si bandì la tortura; altrove si affermarono politiche fiscali improntante alla progressività; ovunque si ricostituirono liberi sindacati e un nuovo rilievo fu attribuito al ruolo delle donne nella sfera pubblica.
Tra queste importanti esperienze di autogoverno territoriale, la zona libera dell’Ossola ebbe una storia per più versi peculiare per la risonanza internazionale ottenuta attraverso la vicina Svizzera, per il rilievo politico dei suoi protagonisti – alcuni dei quali furono in seguito eletti nell’Assemblea costituente ed ebbero responsabilità istituzionali e di governo nell’Italia libera – e anche per l’alto livello di discussione ed elaborazione politica. Ne sono prova i documenti progettuali, i verbali della Giunta e la Relazione ufficiale sul lavoro svolto, redatta in Svizzera dopo la rioccupazione del territorio da parte dei nazifascisti.
Tali documenti sono la testimonianza vivente della volontà di dar forma a nuove libere istituzioni civili, entro il quadro di un solido stato di diritto.
Certo, gli inizi non furono facili e la Giunta non nacque con tutti i carismi della formalità democratica, cosa per altro impossibile in una condizione di tale eccezionalità. Ma ciò che conta è che vi fu la volontà di creare da subito un’amministrazione civile e non militare, istituendo una Giunta provvisoria di governo, formata dai principali partiti politici.
In assenza di un CLN locale, i cui componenti si erano rifugiati in Svizzera nei mesi precedenti, furono i comandanti partigiani che avevano liberato Domodossola a firmare l’ordine di costituzione della Giunta di governo, che solo in seguito poté ottenere la ratifica formale da parte del CLN Alta Italia e del governo dell’Italia liberata a Roma.
Tuttavia, sebbene sorse quasi “dall’alto” e “dal di fuori”, non “dal basso” e “dall’interno”, la Giunta diede prova, sin dall’inizio, di spirito democratico e legalitario, sotto la presidenza del socialista Ettore Tibaldi, già primario dell’ospedale domese.
C’era, infatti, in tutti i protagonisti, come sottolineò Tibaldi nella seduta della Giunta del 18 settembre, la grave consapevolezza che l’Ossola liberata costituisse un “banco di prova della capacità ricostruttrice del popolo italiano”.
Bisognava mostrare agli Alleati e al mondo intero che le forze antifasciste italiane sapevano autogovernarsi in modo responsabile e ordinato, riuscendo a reggere il confronto dialettico, anche duro, tra ideologie diverse e forze sociali antagoniste senza che ciò portasse alla disgregazione politica e al bisogno di un governo autoritario.
In gioco era la prova della superiorità del pluralismo democratico rispetto al regime liberticida e tirannico che aveva oppresso per vent’anni l’Italia.
Era una responsabilità pesante che spiega la ragione per cui, oltre all’urgente assistenza alla popolazione e alla difficile amministrazione di un territorio sotto assedio, la Giunta provvisoria di governo pensò anche a progetti più ambiziosi e di più lunga lena, anche quando le prospettive di sopravvivenza della zona libera si fecero sempre più fosche, a causa delle soverchianti forze nemiche e al mancato invio degli aiuti militari promessi dagli Alleati e dal governo di Roma.
Fu così che la Commissione didattica consultiva, su incarico della Giunta, progettò una riforma scolastica, a partire dalla revisione dei libri di testo fascisti fino alla prefigurazione di un “programma ideale e pratico”, finalizzato a una “educazione nuova”, entro un rinnovato ordinamento sociale e politico d’impianto democratico.
Come si legge nelle proposte, redatte col contributo di intellettuali della levatura di Gianfranco Contini e Carlo Calcaterra, scopo della nuova scuola doveva essere non più “formare l’umo di fazione o il superuomo” ma educare l’umanità degli allievi, in un’ottica universale, tesa a reinserire la società italiana “nella vita civile europea e mondiale”, riesumando la migliore tradizione umanistica, interpretata non in senso “classista e aristocratico”, ma in senso emancipatorio, volendo armonicamente “sviluppare ed educare tutte le forme dello spirito” nelle sue “fondamentali esigenze gnoseologiche, religiose, morali, civili, estetiche, scientifiche, sociali e politiche”.
Solo così l’insegnamento, finalmente “liberato da ogni sovrastruttura di falsa mistica” e dalle imposizioni dello Stato etico fascista, poteva educare lo spirito “ai sensi di una vera auto-educazione”.
Sono parole che si leggono ancora oggi con commozione, come una fresca boccata di aria pura, se confrontate con l’impostazione autoritaria, xenofoba e razzista della scuola fascista che aveva irregimentato insegnanti e allievi, riletto il percorso storico a suo uso e consumo, tolto lo studio delle lingue straniere nell’ordine medio inferiore ed espulso dalle scuole italiane insegnanti e studenti ebrei, oltre che i libri di testo scritti da autori con origini ebraiche, anche quando si trattava di eminenti autorità nei diversi settori del sapere.
E mentre si progettava di riaprire le scuole il 16 ottobre 1944 ispirandosi a queste nuove indicazioni programmatiche, la Giunta dell’Ossola impostava anche le linee di un innovativo piano di assistenza pubblica, non di beneficenza, improntato ai seguenti principi: «decentramento, autonomia, coordinazione; responsabilità collettiva e collettiva solidarietà; collaborazione fra assistenti e assistiti».
Come vedete e come ha recentemente sottolineato lo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, commemorando l’80° della zona libera della Carnia, siamo davvero in presenza di un vero “laboratorio di democrazia”, di una democrazia allo stato nascente, che progetta e sperimenta, pur tra insuperabili limiti e difficoltà.
Per certi versi, l’infaticabile lavorio progettuale dei quaranta giorni di libertà nell’Ossola assediata ricorda quello degli eletti nell’Assemblea costituente della Repubblica romana del 1849 che, nonostante le cannonate delle truppe francesi, non si arresero fino a quando non fu ultimata e data alle stampe la sola vera Costituzione democratica della nostra storia risorgimentale, ispirata al pensiero mazziniano.
Quasi cento anni dopo, nel 1944, in un contesto completamente mutato, si visse una medesima esaltante esperienza di libertà ritrovata. Leggendo le cronache di quei giorni, stupisce la vivacità anche rissosa del dibattito, indice di un progressivo risveglio democratico e civile della popolazione, che si manifestava nella rinascita dei partiti e dei sindacati liberi, nella diffusione dei Cln locali, nella capillare diffusione della stampa e nella grande partecipazione a pubblici comizi.
Nell’Ossola liberata, notevole fu anche l’intraprendenza femminile. Le donne affollavano le assemblee, davano vita ai Gruppi di Difesa della Donna, rivendicavano migliori condizioni di vita, collaborando con le rinascenti Camere del lavoro, che si stavano formando in tutti i centri del territorio ossolano di più antica tradizione operaia.
Sotto la pressione di questo fermento democratico, la Giunta fu stimolata ad aprirsi al confronto con la popolazione: furono create Commissioni con compiti consultivi, le riunioni della Giunta furono aperte ai componenti del rinato Cln locale e si parlò di allargarne la composizione a rappresentanti delle organizzazioni di massa.
All’inizio non fu facile dar forma a questa libertà ritrovata, organizzandola in istituzioni politiche dotate di sufficiente autorevolezza così che la Giunta di governo potesse – in nome del governo dell’Italia libera sorto a Roma nel giugno 1944 – esercitare efficacemente la propria giurisdizione su civili e militari, all’interno di un autentico stato di diritto, la cui formalità giuridica poteva sembrare persino paradossale nel contesto di guerra in cui era calata.
Eppure, nonostante le vivaci polemiche tra le forze politiche, nonostante i conflitti di competenze fra autorità civili e comandi partigiani e benché le esigenze della sicurezza, della dura sopravvivenza e lo spirito di rivalsa verso la brutalità dei nazifascisti portasse, a volte, a cercare vie spicce al di fuori del rispetto della formalità giuridica, le istituzioni civili nell’Ossola liberata nacquero, cominciarono a funzionare e gradualmente a correggersi e a migliorarsi, pur nel tempo limitato che ebbero a disposizione per impiantarsi.
Per rendersi conto della straordinaria novità di questo modo di operare, basta confrontare ciò che avveniva al di qua e al di là della linea di confine che delimitava il territorio dell’Ossola liberata dalla provincia di Novara.
Al di qua del confine, c’erano gli ordini della Giunta ossolana che imponevano, per superare lo spirito di vendetta, di portare ogni arrestato entro 24 ore davanti al giudice straordinario perché venisse trattenuto o prosciolto secondo una regolare istruttoria e, nel caso, rinchiuso in attesa di giudizio da parte del futuro governo italiano legittimamente ricostituito.
Nell’Ossola liberata, c’era una Giunta di governo che si preoccupava delle condizioni dei carcerati, comuni e politici, che chiudeva il vecchio carcere perché inadatto e ne apriva uno nuovo, pensando alle necessarie disinfestazioni per migliorarne le condizioni igieniche, regolamentando le visite dei famigliari e garantendo il “vitto bianco” ai reclusi malati.
L’Ossola liberata diede vita a una Commissione per l’epurazione, con compiti consultivi, subordinata alla autorità della Giunta, la cui azione ad alcuni sembrò troppo morbida perché si limitò a sospendere – non a licenziare definitivamente, attenendo per questo un formale atto del ricostituito Stato italiano – i pubblici ufficiali che avevano aderito al fascismo repubblichino rendendosi così complici degli occupanti tedeschi. E, benché si sospendesse loro lo stipendio, la Giunta si preoccupò di non far comunque mancare assistenza ai loro famigliari in stato di bisogno.
In Ossola, ci fu un giudice straordinario Ezio Vigorelli, il quale aveva appena perso due figli partigiani, Bruno e Fofi, caduti nel rastrellamento dei mesi precedenti, e che mai cedette allo spirito di vendetta, mai emise un giudizio di condanna capitale, sforzandosi sempre di far rispettare lo stato di diritto, a volte anche contro le pressioni di alcuni esponenti partigiani.
Dall’altra parte, nel territorio novarese sotto il tallone dell’occupazione nazifascista, c’era invece un prefetto, Enrico Vezzalini, il quale, il 22 settembre 1944, emanò un bando che è prova della sua disumanità.
“Accertata la connivenza dei famigliari con i congiunti renitenti, disertori, banditi”, Vezzalini ordinava che tutti i loro “congiunti maschi, della età dai 15 ai 65 anni” fossero immediatamente tratti in arresto e che tutti i loro beni mobili e immobili fossero sequestrati e subito confiscati in favore dello Stato.
Dalle prigioni e dai campi di concentramento dove furono rinchiusi questi arrestati, furono poi prelevati i condannati alla fucilazione, uccisi insieme ai civili nelle numerose rappresaglie che, con una lunga scia di sangue, segnarono tutto il territorio della provincia di Novara.
Dando notizia dello spietato proclama di Vezzalini, pur con un titolo vagamente minaccioso Noi risponderemo!, il “Bollettino quotidiano di informazioni” della Giunta dell’Ossola sottolineava la diversità del proprio metodo di azione e “lo spettacolo di magnanimità offerto fino ad allora dai patrioti ossolani verso gli avversari”: “magnanimità” che restava “a titolo d’onore per loro dinanzi al mondo” e che non poteva essere, in alcun modo, interpretata come un segno di cedimento o di “debolezza”.
No, non si trattava di un segno di debolezza, benché potesse apparire tale ai nazifascisti che sapevano comprendere solo la legge bruta della forza e la logica “amico/nemico”. Forse poteva sembrare così anche ad alcuni partigiani non ancora educati alla dialettica democratica e cresciuti nell’atmosfera corruttrice del fascismo.
No, ciò che a costoro, per cattiva coscienza o diseducazione politica, poteva apparire come debolezza era, invece, il segno di vera “forza”, o meglio era la prova di quel “carattere misterioso e commovente” delle istituzioni politiche che, quando liberamente costituite, cessano di essere mezzi di dominio dell’uomo sull’uomo, e divengono strumenti di creazione di uno “spazio pubblico” condiviso, in cui gli uomini si autogovernano per mezzo di leggi comuni e attraverso la potenza mediatrice della parola.
Se così intese, le istituzioni politiche non tracciano solo il limite di ciò che è giuridicamente consentito, escludendo la violenza faziosa e di parte, ma permettono agli esseri umani di riconoscersi reciprocamente, pur nella loro insopprimibile unicità e differenza, come “fratelli”, amici, concittadini, compatrioti, compagni.
Usate il termine che più preferite e che meglio aderisce alla vostra personale ispirazione ideale, ma la nostra povera umanità, se vuole costituirsi in comunità politiche in cui sia possibile la pacifica convivenza, dal livello locale a quello, un domani, di una cosmopoli universale, ha bisogno di libere e civili istituzioni come l’aria per respirare.
Come si legge in un celebre articolo di Pier Paolo Pasolini, le istituzioni politiche, benché imperfette e per questo perfettibili, sono davvero “commoventi” e “misteriose” perché al loro interno gli esseri umani si impegnano a rendere possibile una vita comune e a organizzare forme di concreta solidarietà che, prima di quel preciso momento fondativo, semplicemente, non esistevano.
In tale prospettiva, in un appassionato discorso svolto il 13 marzo 1947 davanti all’Assemblea costituente, Aldo Moro ricordò che ogni Stato è, in primo luogo, «una forma
essenziale, fondamentale di solidarietà umana». Il concetto fu poi ripreso nell’art 2 della Costituzione Repubblicana del 1948, che richiama i cittadini, titolari di diritti personali inalienabili, anche ai reciproci e inderogabili «doveri di solidarietà politica, economica e sociale».
La nuova Repubblica, nata dalla Resistenza, come affermava Moro, si opponeva così alla «lunga oppressione fascista dei valori della personalità umana e della solidarietà sociale», assumendo una chiara presa di posizione – non semplicemente «afascista», ma dichiaratamente «antifascista» – «intorno ad alcuni punti fondamentali inerenti alla concezione dell’uomo e del mondo».
Tali principi trovarono una prima espressione, seppure aurorale, nelle forme di autogoverno nelle diverse Zone liberate da parte delle forze partigiane tra l’estate e l’autunno del 1944.
In tal senso, la zona libera dell’Ossola superò con onore la prova cui era attesa, progettando e dando vita, anche se in modo incompiuto per i limiti temporali e oggettivi entro cui fu circoscritta, a istituzioni politiche potenzialmente capaci sia di rendere più giusta e generativa la vita comune, sia di autocorreggersi laddove il libero confronto fra le forze politiche consentiva di riconoscere e rimediare all’errore.
Accadde così, ad esempio, quando la Giunta ritornò sulle proprie decisioni, scegliendo di astenersi da un ruolo di diretto controllo – prima stabilito – sulla rinascita dei liberi sindacati e delle amministrazioni comunali, rispettando l’autonoma iniziativa dei lavoratori e delle popolazioni locali.
Venti anni dopo l’ultimo intervento tenuto da Giacomo Matteotti in Parlamento il 30 maggio 2024, la Giunta di governo dell’Ossola mostrava dunque la giustezza delle affermazioni contenute nella chiusa del suo appassionato discorso. Denunciando la violenza fascista e le irregolarità delle elezioni politiche svoltesi nella primavera del 1924, Matteotti aveva usato parole illuminanti e di grande attualità ancora oggi. Rivolgendosi a Mussolini e ai suoi ministri, aveva affermato:
«Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità̀ dello Stato e della legge. Fatelo,se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della nazione. Non continuate più, oltre a tenere la nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi e educandosi, anche con l’opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro». E, chiudendo il suo intervento, Matteotti riaffermò la libera sovranità del popolo italiano, rivendicandone davanti agli occhi del mondo la dignità e la capacità di autogovernarsi.
Ecco, forse sta tutto qui il senso ultimo della breve esperienza di Governo della zona libera dell’Ossola: l’aver mostrato la capacità del popolo italiano di autogovernarsi cercando il libero consenso e non più affidandosi al dominio della forza; di aver mostrato la superiorità del pluralismo politico sulla dittatura di un solo partito; del libero confronto dialettico sulla censura liberticida; di un’autonomia, saldamente inquadrata in una cornice di diritti e doveri comuni, su uno Stato accentrato e dispotico; dello spirito di giustizia sullo spirito di vendetta; della pacifica collaborazione tra i popoli – che consentì gli accordi con la libera Svizzera e l’accoglienza dei bambini e dei profughi ossolani in una terra di pace – rispetto alla logica imperialistica e bellicistica; nonché, infine, l’aver mostrato la maggiore potenzialità ed efficacia di quel “metodo per prova ed errori”, proprio della democrazia, rispetto all’ottusità di ogni sistema chiuso e autoritario, che conoscendo una sola verità, persevera dogmaticamente nell’errore sino al tragico esito finale.
Certo la democrazia parlamentare ha tempi lunghi e incerti, ma ha in sé gli strumenti per riconoscere e correggere l’errore e sa sempre introiettare un qualche senso di possibile alternativa.
Al contrario, un sistema autoritario non riesce a cogliere l’errore se non nel diverso da sé, nell’oppositore definito come “nemico”, e non può quindi debellarlo se non tramite una prova di forza e una distruttrice guerra civile che trascina anche coloro che non la vorrebbero. Per opporsi a un tale sistema dogmatico incarnato dal regime fascista, anche coloro cui la violenza ripugnava dovettero, sulla base del diritto di resistenza a un governo oppressivo, prendere le armi e rischiare la propria e altrui vita per riaffermare la dignità del popolo italiano e il suo diritto a una libera esistenza.
Fu uno sforzo doloroso. Tuttavia, come cita il titolo del libro di Aldo Aniasi, il comandante “Iso” della Garibaldi “Redi” che contribuì all’esperienza dell’Ossola liberata, nonostante tutte le sofferenze patite, “ne valse la pena”.
Valse davvero la pena di liberare, anche se per breve tempo, il territorio ossolano per ritornare a respirare un’atmosfera di libertà, nonostante i sacrifici umani che costò la sua liberazione e nonostante le perdite che seguirono alla sua rioccupazione da parte delle truppe nazifasciste.
Tra gli altri insegnamenti di cui è maestra l’esperienza dell’Ossola liberata è, forse, proprio questo il più decisivo: la libertà può rinascere, sempre, come l’araba fenice dalle sue ceneri, ma non viene da sé, non cade come un dono dal cielo; il costo per riconquistarla è sempre doloroso e non indenne da sacrifici e da perdite di vite umane.
Da questi luoghi, segnati così a fondo dalla lotta di liberazione, dovrebbe dunque partire oggi un monito che, rivolto all’Italia tutta, sappia poi correre per le contrade dell’Europa, del Medio Oriente e del mondo intero:
* temiamoci stretta la libertà di pensiero, parola, stampa, riunione, manifestazione, insieme alla tavola di principi e all’equilibrio di “pesi e contrappesi” inscritti nella nostra Costituzione Repubblicana e attuiamola pienamente, prima di pensare a possibili riforme;
* difendiamo e prendiamoci cura delle nostre libere istituzioni (dal piano locale a quello nazionale ed europeo) che ci fanno essere concittadini entro un comune quadro di diritti e doveri, in cui l’autonomia non deve mai andare a scapito dell’unità o l’unità a scapito dell’autonomia, ossia senza che il sistema degeneri in forme di “differenziazione” fra aree territoriali più o meno svantaggiate o si uniformi in un centralismo burocratico tendenzialmente dispotico;
* partecipiamo attivamente alla vita democratica, all’esercizio del voto popolare, ridando nuova linfa e vitalità alle istituzioni della vita politica e sociale (partiti, sindacati, movimenti, associazioni, circoli);
* ricordando il primato che la Repubblica dell’Ossola ha nell’aver attribuito a una donna responsabilità di governo, alziamo forte la voce per il rispetto dei diritti di tutti, contro ogni discriminazione di genere;
* mostriamo un concreto spirito di solidarietà (politica, economica e sociale) verso i nostri concittadini (italiani ed europei) in ogni sede della vita civile e associata, conservando altresì la volontà di convivenza pacifica tra i popoli e il rispetto dei cittadini stranieri che vivono tra noi (profughi, rifugiati, migranti), come previsto dagli articoli 10 e 11 della nostra Costituzione, posti a fondamento della nostra libera partecipazione all’Unione europea e alla comunità internazionale;
* non lasciamoci ancora una volta convincere che non c’è amor di patria senza nazionalismo aggressivo, che non c’è pace senza una generalizzata rincorsa agli armamenti e, soprattutto, che non c’è “sicurezza” senza limitazioni delle “libertà” personali (come, invece, tenta di fare il ddl 1660 ora all’esame del Senato);
*mostriamo al mondo – attraverso la nostra tragica storia di stragi e di omicidi politici: da Piazza Fontana a Piazza della Loggia, dall’assassinio di Moro alla stazione di Bologna – che è possibile, se c’è unità tra le forze democratiche, vincere il terrorismo politico (sul piano interno e internazionale) senza deflettere dallo stato di diritto e senza smarrire la nostra umanità.
Solo se sapremo, insieme, avere cura delle nostre libere e civili istituzioni, potremo salvare il mondo e noi stessi, senza dover ripetere le dolorose esperienze del passato e ricominciare ancora una volta tutto daccapo.
Mai più! «Questo è l’imperativo morale che deve guidarci ora e per sempre in futuro», come è stato solennemente ribadito una settimana fa a Marzabotto, un luogo simbolo delle stragi nazifasciste, attraverso un comunicato congiunto del presidente italiano Mattarella e del presidente tedesco Steinmeier.
Per questo il grido è ancora quello di allora: viva la libertà, viva l’unità delle forze antifasciste!
Grazie.
Domodossola, 6 ottobre 2024
Pubblicato mercoledì 9 Ottobre 2024
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