Nei primi giorni di marzo è scomparso il generale di Corpo d’Armata Ilio Muraca, partigiano, già componente del Comitato Nazionale e della Presidenza onoraria dell’ANPI. Muraca era nato nel 1922 a Foiano della Chiana (AR). Ufficiale sulla costa dalmata, dopo l’8 settembre ha combattuto la Guerra di Liberazione nella ex Jugoslavia, inquadrato nell’esercito popolare di Liberazione.
In sua memoria, pubblichiamo questo articolo uscito su Patria indipendente n. 11 del 10 luglio 1983.
La Presidenza e la Segreteria Nazionale ANPI hanno diramato questa nota:
“Esprimiamo grande cordoglio unito a intensa commozione per la scomparsa di Ilio Muraca, pluridecorato Generale di Corpo d’Armata, per molti anni componente del Comitato Nazionale ANPI e poi della Presidenza Onoraria dell’Associazione, esempio di coerenza ideale, lucidità intellettuale e integrità morale.
Raccontare il Suo contributo nella Resistenza significa ripercorrere la storia della democrazia in Italia e in Europa: un impegno per la libertà e la convivenza tra popoli perseverato con la stessa sensibilità e capacità anche in tempo di pace.
Le numerose onorificenze al valore a Lui tributate in Patria e all’estero possono misurare solo in parte la Sua statura di grande protagonista delle Forze Armate e della società civile: due Croci di guerra e due Medaglie dell’Esercito Jugoslavo; prima Commendatore e poi grande Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana; Croce d’Argento dell’Esercito italiano e Cavaliere di Gran Croce.
Muraca ha accompagnato ogni attività operando in favore della cultura e della memoria con una straordinaria lungimiranza. Realizzò una collana editoriale capace di riportare all’attenzione collettiva eventi determinanti per comprendere la lotta contro il nazifascismo, insieme battaglia di popolo e di militari. Per dieci anni Presidente della Commissione di II grado del Ministero della Difesa per la concessione dei riconoscimenti e delle qualifiche partigiane, impiegò in seguito enormi energie per tutelare il Fondo Ricompart, l’Archivio dei Partigiani, ora conservato, grazie alla Sua dedizione, all’Archivio Centrale dello Stato. Collaboratore di Patria indipendente, ha continuato a offrire un prezioso contributo per la conoscenza di fatti in cui vennero coinvolte persone comuni e soldati semplici che, altrimenti, sarebbero stati consegnati all’oblio. Cittadino onorario di Foiano della Chiana, dove era nato, ha ricevuto corali attestazioni di affetto e stima in più città.
Con Muraca perdiamo una personalità e un costruttore inestimabile di democrazia, ma a noi che lo abbiamo conosciuto e abbiamo condiviso tante battaglie civili mancherà soprattutto un carissimo amico. Ai figli, alla famiglia tutta le più sentite e partecipate condoglianze”.
Il riandare con la memoria a quei giorni del settembre 1943, in Jugoslavia, conserva ancor oggi un grande potere di suggestione.
Si tratta in effetti di un evento straordinario, dai toni di una sinfonia disperata ed eroica insieme, con motivi sempre nuovi e drammatici, non ancora del tutto interpretati da noi stessi, che vi fummo partecipi, e dalla critica storico-militare in genere.
A rileggere le monografie e le memorie storiche ufficiali di quel periodo redatte in un lungo arco di tempo successivo, si avverte come i ritmi di quella tragedia risultino scanditi dall’operato dei comandanti di elevato livello, con i loro umani moti di indecisione, smarrimento, qualche volta paura, come anche delle frequenti manifestazioni di coraggio, spesso preambolo di una loro condanna a morte da parte tedesca.
Ma il motivo dominante, ossessivo, possente è costituito dal coro di quei 350.000 nostri soldati, sparsi per ben 17 divisioni, che manifestano il loro sgomento di uomini lontani dalla Patria e abbandonati a se stessi. Uno sgomento a volte dignitoso e contenuto, a volte disperatamente manifesto, ma che ancor oggi, ai lettori non superficiali di quelle cronache, suona come una condanna senza tempo e senza appello per i responsabili, costituzionali ed istituzionali, di quella tragedia, che fu lo sbando di due intere Armate in Jugoslavia.
Una tragedia che non ha precedenti nella storia del nostro esercito, neppure nella ritirata dell’ARMIR dalla Russia, che ebbe una sequenza di atti sempre controllati e diretti.
Ebbene, scomparso da tempo il fenomeno del patriottismo edulcorato, ritengo che simili eventi fondamentali della vita di una nazione, vadano di continuo studiati e analizzati e non già per rivederne la cronaca a scopo esaltativo o denigrativo, ma per ricavarne nuovi ammaestramenti che arricchiscano il bagaglio della nostra storia e suggeriscano i possibili comportamenti teorici, in presenza di analoghe, deprecate circostanze.
Una delle qualità più apprezzabili nell’ANPI è la quasi totale assenza di quel «reducismo» che è fenomeno dannosamente riduttivo dei significati e delle finalità della maggior parte delle pur benemerite associazioni combattentistiche oggi esistenti.
L’ANPI, per intenderci, va raramente alla ricerca delle foto di gruppo, perché rivive i fatti drammatici di cui i suoi associati furono protagonisti, nella prospettiva del domani ed e per ciò continuamente creativa, moralizzatrice, educativa.
Questo modo di interpretare le vicende della Resistenza porta l’Associazione a schierarsi con i giovani, secondo un moderno modulo di ricerca dei valori che contano, contrario alla interpretazione nostalgica di quei simboli che le nuove generazioni hanno dimostrato di non accettare più.
Per questo nel ridisegnare il quadro dei fatti che hanno originato il contributo italiano alla Resistenza in Jugoslavia, è necessario esaminare le immagini oltre la tela di fondo, alla ricerca di quelle considerazioni che, senza che ce ne rendiamo pienamente conto, costituiscono il significato più profondo di quel contributo.
L’8 settembre 1943, le nostre forze in campo, in Jugoslavia, erano rappresentate da due Armate, la 2ª e la 9ª, articolate in cinque comandi di corpo d’armata e 17 divisioni, per complessivi 350.000 uomini.
Una rapida carrellata sui fatti ci presenta l’anticipato annuncio dell’armistizio, la sorpresa negli alti Comandi, ancora alla ricerca di dare un senso operativo alla famosa Memoria O.P. 1944, la assurda pretesa di continuare ordinatamente una guerra dopo l’improvviso rovesciamento delle alleanze, con moralità ambigue che anche a distanza di decenni riempiono di stupore per la loro insulsa e pavida enunciazione e, finalmente, una volta al riparo nel sud, la dichiarazione del tedesco «nemico», data dal nostro Comando supremo, quando ormai gli eventi, arduamente controllati all’inizio, erano sboccati nel caos più completo.
Un episodio per tutti, è quello della piazzaforte di Sebenico, il cui comandante chiese, ottenendone conferma dal comandante della Divisione Bergamo, di non opporsi con la forza alla sopraggiungente colonna tedesca. Quella richiesta e quella conferma, che è difficile non definire come resa di fronte al potenziale nemico, ebbero il potere di disarmare, d’un sol colpo, una poderosa cintura di fortini in calcestruzzo, comprendenti anche numerosa artiglieria, dotati di più giorni di autonomia di combattimento, e che avrebbero potuto bloccare a lungo la progressione nazista, oltreché infliggergli notevoli perdite.
A proposito di simili episodi, è doveroso dichiarare che le memorie storiche degli Stati Maggiori risultano incomplete, imprecise, sovente equivoche nella verità dei fatti se non addirittura in contrasto con la loro evidenza. Occorrerà, perciò, che prima o dopo, queste memorie, certamente ricavate da relazioni personali di alti ufficiali, sui quali fatalmente ricadevano grosse responsabilità, siano rivedute in collaborazione con gli Istituti di storia della Resistenza, presso i quali sono custoditi documenti e testimonianze sparse, di alto valore umano e storico.
A tale proposito, è auspicabile che i responsabili del dicastero della difesa e dei vertici militari, i quali hanno dimostrato di valutare pienamente la necessità della integrazione Forze Armate-Paese, non solo in maniera simbolica ma strutturale e operativa, compiano questo ulteriore atto di giustizia e di buona volontà, aprendo gli archivi alla consultazione degli studiosi e protagonisti della guerra di liberazione ed accogliendo, con le debite garanzie, le loro testimonianze. […].
Per ritornare al tema, in Jugoslavia; a pochi giorni dalla dichiarazione d’armistizio, regnava nelle nostre unità il caos più completo, anche in conseguenza della polverizzazione dei presidi, secondo un’errata tattica, allora imperante e non imitata dai tedeschi, i quali, grazie ad una maggiore mobilità avevano sempre preferito schierarsi su pochi e robusti presidi.
Caos e disintegrazione, cui facevano da contrappunto, com’è nelle tradizioni del nostro esercito, quei luminosi episodi individuali e di gruppo, di cui diremo brevemente e che in questa sede, pur nella rievocazione critica dei fatti, è doveroso onorare come il vero atto di nascita, meglio di rinascita, del «garibaldinismo» nell’esercito italiano, dopo quello ottocentesco.
A onor del vero, è bene anche aggiungere che l’enorme distanza fra la posizione psicologica delle unità italiane e quella dei cosiddetti «banditi» jugoslavi, sul piano ideologico, educativo, religioso, militare e di costume, ha reso possibili, e in parte giustificabili, le iniziali diffidenze reciproche, gli inganni, i tranelli fra le due parti, le tergiversazioni e i cavilli in fatto di disarmo, le ingiunzioni jugoslave di spoliazione del nostro equipaggiamento e del vestiario, spesso al limite della sopravvivenza, le dolorose rappresaglie a freddo contro militari sospetti di atti criminosi a danno della causa partigiana. Ma è anche urgente aggiungere che dovunque unità italiane o singoli militari ebbero a manifestare il proposito di combattere per la libertà, al fianco di quelle jugoslave, queste immediatamente fraternamente li accolsero, lasciando loro le armi e concedendo il riconoscimento dei gradi e dei distintivi militari. A tal proposito, gli ordini del quartier generale del maresciallo Tito, a differenza di consimili vicende di altri stati balcanici (vedi per esempio la Grecia) furono di chiara ed inequivocabile interpretazione e mirarono sempre alla riunificazione dei soldati italiani più che alla loro dispersione nelle unità partigiane indigene.
Chiarito questo punto, è bene dire che il comportamento dei comandanti italiani, esclusi gli episodi di inettitudine, di egoistica sopravvivenza o di disperazione, vanno in buona parte attribuiti alla novità assoluta degli eventi e alla incapacità ed impreparazione ad interpretare politicamente il grande fatto storico sorto all’improvviso davanti ai loro occhi e che, tuttavia, aveva avuto chiari segni precursori nell’eclatante svolta del 25 luglio.
Per ritornare all’esempio di Spalato, sede del comando della Divisione «Bergamo», mentre il suo comandante interpreta frammentariamente i fatti, privo com’è di mordente e di una capacità di vedere unitariamente la situazione politico-militare in rapida evoluzione (i tedeschi alle porte di tutti i suoi presidi, l’appoggio manifesto dei partigiani, la richiesta dei suoi soldati di sapere dove e come resistere) un forte gruppo di carabinieri, insieme ad alcuni ufficiali rompe gli indugi e decide di passare, armi e bagagli, nello schieramento dei partigiani di Tito.
Mentre il comandante della Divisione si mette in salvo nelle isole e quindi in Italia, diverse altre centinaia di soldati, delle varie armi, seguono l’esempio dei carabinieri. Si costituisce, così, il Battaglione «Garibaldi».
Se non ci si immerge nell’atmosfera di quelle giornate, resta difficile intendere i motivi per cui, mentre da una parte la stragrande maggioranza del presidio di Spalato (circa 9.000 uomini) assiste passivamente all’entusiasmo pur rivelatore di una città insorta, fino ad attendere rassegnata, sotto i micidiali bombardamenti degli Stukas, o un aleatorio imbarco per l’Italia o la fine, dall’altra un robusto nucleo di militari di varia provenienza decide di accogliere l’esortazione dei più decisi, di darsi il nome di battaglia «Garibaldi», dal significato ancora vago, e di avviarsi verso un’esistenza diversa, di cui non si intuiva la sorte.
Forse in quel frangente, fra i carabinieri, uomini d’ordine e per l’ordine, ha avuto la meglio il desiderio di tirarsi fuori da quell’insostenibile stato di incertezza e dal disordine in cui i comandi e la città andavano rapidamente sprofondando. In ogni caso, per essi come per la maggior parte degli altri, il movente più credibile deve essere stato un impulso ad agire, ad onorare un giuramento prestato, a decidere finalmente da uomini liberi.
Quest’ultima nota merita di essere storicamente sottolineata per dedurre come la privazione delle libertà, cui il regime fascista aveva lentamente assuefatto gli italiani, non ha potuto uccidere il germe di una decisione autonoma, né evitare un moto di ribellione in soldati particolarmente responsabili, abituati ad anni di disciplina, la più esclusiva e limitativa.
Da Patria Indipendente n. 11 del 10 luglio 1983
Pubblicato martedì 21 Marzo 2017
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/quei-350mila-soldati-allo-sbando-jugoslavia/