Dal 28 settembre al 1° ottobre 1943 Napoli fu la prima tra le grandi città europee ad insorgere contro l’occupante tedesco. In Un popolo alla macchia Luigi Longo, già commissario politico delle Brigate Internazionali in Spagna dal 1936 al 1939, poi dirigente del Corpo Volontari della Libertà scrive: “Dopo Napoli la parola d’ordine della insurrezione finale acquistò un senso ed un valore e fu da allora la direttiva di marcia per la parte più audace della Resistenza”. E Giancarlo Pajetta, anch’egli dirigente della Resistenza, condannato a 21 anni di carcere dal Tribunale Speciale, nel 40° anniversario delle Quattro Giornate disse: “Napoli era la speranza che malgrado le esitazioni, gli errori, si potesse compiere la liberazione di tutta l’Italia”.
Già allora era sorta una grossa disputa sul carattere spontaneo o meno della insurrezione. Ed è ancora Pajetta a controbattere ed a contrastare la tesi della spontaneità: “A Napoli c’erano stati gruppi antifascisti di resistenza; anche a Napoli i gruppi organizzati fecero la loro parte, di solo spontaneo non c’è mai niente, spontaneità ve ne fu, di adesione, di partecipazione, di gente che disse: “io lo devo fare”, e non si sentì dire: “lo farai perché io ti comando di fare”.
Le Quattro Giornate non furono un frutto spontaneo che si stacca da sé dall’albero: c’è un retroterra che non può essere ignorato o dimenticato. Già alla fine di gennaio del 1943 l’Armata Rossa a Stalingrado costrinse le potenti forze armate germaniche comandate da Paulus ad arrendersi, contro gli ordini di Hitler. Fu la prima sconfitta di portata strategica, che costituì la grande speranza per tutti gli antifascisti di poter resistere e distruggere quella poderosa macchina bellica e la ideologia di cui era portatrice.
Nel marzo i grandi scioperi della classe operaia del Nord d’Italia, in pieno regime fascista, stavano ad esprimere non solo la protesta per le sempre più pesanti condizioni di vita, ma anche il grado di irritazione di larga parte di cittadini stanchi della guerra. E, poi, il 25 luglio, con le dimissioni di Mussolini, sino all’armistizio dell’8 settembre ed allo sbarco a Salerno delle forze alleate.
A Napoli l’esasperazione popolare era ancor più avvertibile e manifesta per le distruzioni inferte alla città dai continui bombardamenti (200mila senzatetto e tanta popolazione costretta a vivere sottoterra), per la fame e le malattie, per l’acqua razionata, per i saccheggi e per i proclami del colonnello Scholl, che imponeva non solo la fucilazione in caso di mancata consegna di armi e munizioni, ma soprattutto in caso di renitenza al servizio obbligatorio di lavoro in Germania dei giovani dai 18 ai 33 anni. Ma su 30mila giovani censiti allo stato civile se ne presentarono solo 150 per essere deportati.
Alla questione della liberazione dalla occupazione e dalla oppressione tedesca si aggiungeva inoltre la questione sociale del lavoro e del futuro produttivo della città, dal momento che gli occupanti distruggevano fabbriche e infrastrutture e sottraevano anche risorse umane indispensabili per la ricostruzione e la ripresa delle attività.
In merito al carattere “spontaneo” dell’insurrezione, sostenuto anche da Paolo Emilio Taviani che diresse quella di Genova, si può convenire solo sul fatto che le Giornate di Napoli non si ebbero in esecuzione di un piano militare prestabilito da un comando unico, ma certamente esse non furono solo la rivolta degli “scugnizzi”, come da più parti e non solo da parte degli alleati anglo-americani si è voluto sostenere per sminuirne il valore.
Dopo l’8 settembre le truppe tedesche in vari punti della città eseguirono fucilazioni (decine di militari, carabinieri, semplici cittadini trucidati barbaramente), saccheggi, rastrellamenti, rappresaglie, distruzione di impianti, incendi, compreso quello dell’Università Federiciana. Ma in quegli stessi giorni si costituì il comando partigiano ad opera di un insegnante comunista, Antonino Tarsia in Curia. Dopo l’armistizio era iniziata la raccolta e la distribuzione delle armi prelevate in varie caserme, si nascondevano gli uomini abili per impedirne la deportazione. In molti rioni ci si organizza e qualcuno si mette alla testa di gruppi di difesa. Sui circa 2.000 “riconosciuti”, che parteciparono all’insurrezione, gli scugnizzi furono meno di 200!
Ma già prima era venuta maturando una coscienza antifascista grazie all’opera di illustri esponenti della cultura napoletana quali Benedetto Croce, Adolfo Omodeo, Roberto Bracco, Arturo Labriola, Renato Caccioppoli e tanti altri. Basti ricordare i 65 condannati dal Tribunale Speciale, le centinaia di confinati politici, le migliaia di cittadini napoletani, comunisti, socialisti, azionisti, repubblicani, schedati come sovversivi nel Casellario Politico Centrale e che, anche nel periodo del massimo consenso al regime, quello dell’impero e delle conquiste coloniali, ebbero a resistere subendo angherie, perdite del lavoro, mortificazioni, miseria e vigilanza occhiuta dell’Ovra.
Resta indelebile nella storia della città l’eroico sacrificio dei giovanissimi scugnizzi Gennaro Capuozzo di 12 anni, Filippo Illuminato di 13 anni, Mario Menichini e Pasquale Formisano di 17 anni, decorati con medaglia d’oro alla memoria. Come anche la partecipazione delle donne: basti citare la medaglia di bronzo concessa a Maddalena Cerasuolo che difese il ponte della Sanità dalla furia distruttrice tedesca.
I caduti delle Giornate furono 152, i feriti 162 e tanti i caduti ignoti (soldati e marinai sbandati dopo l’armistizio). La insurrezione di Napoli fu accompagnata dalle rivolte della gente di Scafati, Nola, Bellona, Acerra, Mugnano, S. M. Capua Vetere, Mondragone, Grazzanise. Oltre alle numerose fucilazioni eseguite in città vi furono le stragi nazifasciste di Caiazzo, Conca della Campania, Bellona, e l’orribile fucilazione del carabiniere Salvo d’Acquisto in cambio della vita di 22 ostaggi e di altri carabinieri resistenti.
Il 1° ottobre gli alleati trovarono Napoli già libera dall’occupazione. Napoli che, secondo Hitler doveva essere ridotta “in cenere e fango”, ebbe la medaglia d’oro al valor militare. Da questa città partì quindi “il primo segnale di riscatto nazionale”, ricorda Pajetta, e “L’Italia, impreparata, con l’unità di tutti i partiti antifascisti, si apprestava a partecipare da protagonista, tra coloro che avrebbero vinto la guerra antinazista. Così fu che Firenze, Genova, Bologna, Milano e Torino furono liberate dagli italiani della Resistenza”.
Pubblicato giovedì 1 Ottobre 2015
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