Cosa curiosa l’oblio, quando alcune cose che non devono essere dimenticate rischiano di essere perdute. Unico rimedio è il fare memoria, lo sforzo di un popolo, di una comunità, di chi ha responsabilità civili, politiche, educative ed anche religiose a far sì che sia mantenuta viva nella tradizione (dal latino tràdere, cioè nella consegna intergenerazionale) almeno orale.
Ma se si perde la memoria, che fare? Si può ricostruire? È il caso, questo, del Porrajmos, parola romanés, la lingua rom, che significa letteralmente “grande divoramento” e allude alla persecuzione razziale di rom e sinti durante la dittatura nazifascista a causa del gene Wandergen, ritenuto dai nazisti il gene inguaribile del nomadismo. Questo, nonostante il popolo nomade più famoso in Europa fosse ritenuto quello più prossimo all’arianesimo puro. Si stima che morirono nei campi di concentramento circa 500.000 zingari, ma è una stima in difetto. Ad Auschwitz-Birkenau il 2 agosto 1944, 4.000 rom e sinti del “zigeuner lager” vengono uccisi e bruciati nei forni durante la “zigeunernacht” (notte degli zingari). Una persecuzione finalizzata allo sterminio esattamente come per gli ebrei, ma molto meno conosciuta, ancora oggi. Solamente dagli anni 80 si è cominciato a parlarne in maniera testimoniale e divulgativa di questa triste pagina di storia, nonostante già a Norimberga venne mossa quest’accusa.
L’importanza della tradizione della memoria, in questo caso, è venuta meno, per una serie di concause che si intrecciano. Innanzitutto la cultura rom è prettamente orale e oralmente si trasmette anche ogni ricordo ed ogni memoria della comunità. In secondo luogo, la ghettizzazione cui erano segregati prima e dopo la persecuzione, non aiutò che quelle pene venissero conosciute al di fuori dei confini dei campi. Infine, esattamente come accadde per molti deportati etnici, politici o militari o come capitò per molti resistenti, chi subì la persecuzione non sempre o non subito ne parlò. Se oggi si sa qualcosa in più su questa triste pagina, è naturale chiedersi che fine fecero i sopravvissuti, quelli che tornarono: dove andarono a vivere? Ma soprattutto, ce ne saranno ancora in vita? Ad oggi risulta che vivano in Italia una decina di persone sinte sopravvissute alla persecuzione nazifascista. Chi scrive ha avuto la possibilità di poter intervistare due di questi: Goffredo Bezzecchi detto Mirco e consorte.
Rogoredo, periferia sud est di Milano, borgo operaio sorto intorno alle acciaierie ed alle industrie novecentesche. Lungo l’ultimo lembo di terra che fa da confine col comune di S. Donato Milanese, tra la tangenziale e la via Emilia, sorge un campo rom. Il capofamiglia è Mirco Bezzecchi, nato a Postumia, in Slovenia, nel 1939. Intorno all’età di tre anni conosce la persecuzione razziale fascista, quando un giorno suo nonno viene avvertito al bar del paese che sarebbero venuti i fascisti a bruciarli vivi dentro casa. Fuggiti in fretta, la notizia si rivela vera e tutta la famiglia si ritrova a vagare per la campagna finché non incontra dei militari che li caricano su treni insieme ad altre famiglie per l’Italia. In questo caso, racconta il figlio di Mirco, Giorgio Bezzecchi: «Sono stati sostenuti dai militari italiani nella deportazione, per sfuggire alla persecuzione dei fascisti di Ante Pavelic, gli ustascia croati, che altrimenti li avrebbero uccisi sul posto». Il treno li porta a Tossicia, in provincia di Teramo, uno dei 50 campi di internamento prima per soli rom e poi anche per sinti, censiti in Italia.
Se la realtà era lontana da quella dei campi di sterminio, la vita a Tossicia Mirco la ricorda ancora in tutta la sua durezza: «Ci tenevano in delle baracche, sentivi le donne che piangevano. Fame, pidocchi e miseria, peggio delle bestie. Più di quello c’era la morte e basta». Il caldo prima, il freddo poi, e la povertà quasi assoluta in cui vivevano quelle famiglie senza vestiti, senza letti, senza nulla da mangiare perché i pochi soldi che ricevevano come sussidio non erano sufficienti.
«A Tossicia dormivi per terra, dormivamo fuori. C’erano gli aerei che bombardavano, vedevi le donne piangere e urlare, c’era la paura di morire. Si scappava con la gente del paese nelle trincee, nei rifugi. C’era la paura dall’aria e dal basso, paura dei tedeschi. Ancora dopo la guerra la mamma, quando sentiva le sirene, si metteva a piangere, perché le venivano in mente i bombardamenti». Scene che un bambino non dimentica, nemmeno 80 anni dopo. Una situazione drammatica attenuata soltanto dai contadini della zona che aiutavano come potevano, rappresentazione di un’Italia in cui chi aveva poco era disposto ad aiutare chi non aveva niente, a differenza di oggi che quest’ultimi sono visti solo come minaccia.
Per questa ragione in un secondo tempo alle donne venne concesso di uscire dal campo per elemosinare: «I contadini ci davano la paglia. A domandare ci davano un pezzo di pane o polenta. Quello bianco te lo sognavi. Il primo pane bianco che abbiamo visto, io e mio cognato, me lo ricordo ancora, dopo la guerra…».
La vita nel campo si svolgeva lenta e misera, tanto da vedere anche la nascita di un cugino di Mirco che, per una scelta che sa di umido, verrà chiamato Benito. Il campo, piccolo e squallido, è posto sotto la sorveglianza di una caserma di carabinieri, ricordati da Mirco come persone buone, come quando, con l’invasione della Wermacht della penisola, mettono in guardia gli internati sul rischio deportazione e li fanno scappare.
La famiglia Bezzecchi fugge in montagna dove, aiutati da alcuni partigiani locali, riescono a raggiungere l’Emilia e poi la Liguria, nel genovese. Qui i fratelli di Mirco, Mario e Joi Hudorovich, partecipano attivamente alla Resistenza. Mentre si trovano nell’entroterra, un giorno a Mario succede una cosa che ricorda ancora oggi: «Da una casa è caduto un fazzoletto giù da un balcone. Mia cugina l’ha preso da terra e per quel fazzoletto lì i partigiani ci stavano uccidendo. Per fortuna che uno di loro ha chiamato Mario che è intervenuto prendendoli a calci».
Dalla Liguria, una parte della famiglia si sposta in Triveneto, dove c’erano dei parenti: «In Friuli avevo degli zii partigiani». Ma Mirco non è stato l’unico della sua famiglia ad aver subito la persecuzione e l’internamento. Il padre è stato deportato in Germania e poi ad Auschwitz dove ha trovato la morte e il forno crematorio. La zia di Mirco, Wilma, è stata vittima delle torture pseudoscientifiche nello stesso campo, sopravvivendone, ma con disturbi psichici perenni, mentre suo marito, che, come la maggior parte degli italiani era tesserato fascista, dopo la fuga dall’internamento è andato coi partigiani.
Non si tratta degli unici casi di combattenti rom o sinti documentati. Tra le figure più significative abbiamo Mirko Levak, rom “calderascia” anche lui di Postumia, entrato nella Resistenza dopo essere fuggito da Birkenau; il poeta Vittorio “Spatzo” Mayer, partigiano in Val di Non. In Friuli, Giuseppe “Tzigari” Levakovich, della Brigata “Osoppo” e Rubino Bonora, della divisione “Nannetti. In Liguria, oltre ai due sopra citati, abbiamo Giacomo Sacco che partecipa alla liberazione di Genova e il martire Giuseppe “Tarzan” Catter, ucciso dai fascisti nella zona di Imperia e per questo decorato al valore militare, il suo distaccamento ne prese il nome. In Piemonte Amilcare “Corsaro” Debar, staffetta e poi partigiano combattente nella 48° Brigata Garibaldi “Dante Di Nanni”, operante nel cuneense. In Emilia Fioravante Lucchesi, combattente nella Divisione Modena Armando anche se il caso più interessante è certamente quello della formazione detta “Leoni di Breda Solini”, nel mantovano, formata unicamente da sinti, fuggiti dopo tre anni di detenzione dal campo di Prignano sulla Secchia (MO).
Nonostante queste testimonianze di persecuzione e liberazione, la memoria è spesso stata forse volutamente tenuta nascosta da parte dei sopravvissuti che «era una cosa tanto brutta che si voleva dimenticare». Alcune famiglie, come quella intervistata, hanno aspettato fino agli anni 70 il ritorno di parenti dai campi, quando si susseguivano voci di avvistamenti da un campo all’altro, ma è una situazione molto diffusa per tante famiglie che hanno avuto parenti deportati e di cui non si è più saputo niente. Proprio perché di questi parenti ed amici non se ne sapeva nulla, per la mentalità romanì significa che questi non erano morti e quindi erano ancora vivi. Nel popolo rom è importante il culto dei morti, per cui di questi non si parla, ma se si parla di qualcuno che è scomparso, vuol dire che è vivo. Tutto questo parlare, ha piano piano fatto emergere le storie di persecuzione e paura che erano rimaste sepolte. Una dinamica, peraltro, non lontana da quella di molti ex militari internati, deportati politici o razziali che hanno impiegato anni a parlare in pubblico di quelle cose.
Ma l’oblio è stato in parte anche dello Stato. Soltanto nel 2013 il Comune di Tossicia ha esposto una targa a perenne memoria di quella ingombrante presenza, marmo scoperto dal figlio di Mirco, Giorgio Bezzecchi. A confermare e completare la memoria di quel luogo di internamento, oggi conosciamo anche i nomi delle famiglie che lì furono rinchiuse: Brajdic, Hudorovic, Levakovic, Rajhard e Malovac, tutti slavi con cognomi, è il caso dei Bezzecchi, italianizzati con la forza della legge fascista. In totale furono 108 le persone rom e sinti lì rinchiuse a partire dal 1942. L’elenco completo è stato pubblicato nel 1985 da Italia Iacoponi in un saggio inserito dentro la “Rivista Abruzzese di Studi Storici dal Fascismo alla Resistenza”. Un piccolo gesto, per restituire un nome a quanti furono perseguitati da una legge ed uno stato ingiusto e che caddero nel dimenticatoio della memoria privata e soprattutto collettiva per troppo tempo. Cerchiamo almeno oggi di recuperare facendone memoria.
Giacomo Perego
Pubblicato martedì 28 Gennaio 2020
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