La vicenda di Stefano Cucchi ha insegnato e insegna molte cose. Innanzitutto ci ha aiutato a capire, e ha reso evidenti, quali meccanismi vengano messi in atto ogni volta che un cittadino muore, o viene gravemente ferito, mentre si trova sotto la custodia dello Stato. Come il caso di Federico Aldrovandi, il diciottenne ferrarese ucciso durante un fermo di polizia da quattro agenti nel settembre 2005, che ha rappresentato una sorta di spartiacque, il primo decesso di questo tipo approdato in un’aula di tribunale con un processo lungo, difficile, ma che alla fine ha visto condannati in maniera definitiva i quattro poliziotti responsabili per eccesso colposo in omicidio colposo. Da quel momento, molte altre sono state le morti causate da abusi di polizia e, tra queste, la vicenda di Stefano Cucchi ha permesso di affrontare tali questioni a livello nazionale.
Gli elementi comuni a queste e altre storie (Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Dino Budroni, Riccardo Magherini) possono essere così riassunte: un fermo di polizia violento, non rispondente a reali esigenze di tutela della sicurezza pubblica; la conduzione delle prime indagini spesso ad opera degli stessi agenti operanti; il tentativo, da parte dei colleghi, di tutelare e coprire gli agenti coinvolti. Oltre a questo, la vicenda di Stefano Cucchi aggiunge un tassello successivo. In quel caso non si è trattato di un “semplice” abuso da parte di un corpo dello Stato, ma si è invece assistito a una molteplicità di istituzioni coinvolte e, pur in assenza di condotte penalmente rilevanti, il racconto dei fatti accaduti disvela comportamenti e atteggiamenti estremamente pericolosi.
Stefano Cucchi viene arrestato, passa la notte tra due caserme sotto la custodia di numerosi carabinieri, arriva in tribunale la mattina e viene affidato alla polizia penitenziaria, portato in carcere nel primo pomeriggio e in pronto soccorso la sera, viene infine ricoverato nel reparto protetto dell’Ospedale Sandro Pertini, dove morirà dopo sei giorni di detenzione. Una lunga serie di luoghi e persone, in divisa o con indosso un camice, e nessuno tra loro che sia riuscito a interrompere la catena di eventi tragici che hanno portato al decesso del trentenne romano.
(Sull’argomento vedi anche: http://www.patriaindipendente.it/idee/copertine/qualcosa-di-anomalo-nei-referti-stefano-e-morto-nelle-mani-dello-stato/ )
L’impressione è che Stefano Cucchi sia stato risucchiato da un sistema cieco e sordo, trattato con indifferenza, come una scocciatura di cui nessuno si è voluto occupare. Ecco perché la morte di Stefano Cucchi è molto più di una vicenda privata, ma diventa un fatto d’interesse collettivo, da affrontare come si affrontano tutti gli episodi analoghi, che non sono sporadici ma sistemici. Perché la fine di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi ci racconta di come le forze di polizia, a volte, si rapportano con i soggetti deboli, con chi viene considerato marginale: stranieri, tossicomani, persone con disagio psichico. Ci fa capire che, spesso, i soggetti più meritevoli di tutela sono quelli verso cui viene esercitata maggiore violenza e repressione, verso cui si sfoga la frustrazione e si esercita una sostanziale impreparazione. Buona parte di questi episodi avviene anche perché la formazione delle forze di polizia è estremamente carente, come se non venisse loro insegnato in che modo trattare con persone in stato di agitazione, magari dopo aver assunto sostanze o in seguito a momenti di crisi. L’idea che si possa disciplinare, attraverso l’utilizzo della forza, quanti si discostano da un comportamento “ordinato”, fa comprendere come si presti scarsa o nulla attenzione a degli approcci alternativi, fatti di dialogo e di profonda conoscenza delle varie situazioni in cui ci si trova a operare.
Due recenti fatti di cronaca hanno evidenziato con estrema forza questo meccanismo. A distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, Mauro Guerra e Andrea Soldi sono morti in seguito all’esecuzione di un trattamento sanitario obbligatorio (nel primo caso, il Tso pare non fosse stato neanche disposto): Guerra è stato raggiunto da un colpo di pistola sparato da un carabiniere, Soldi è stato compresso a terra e ammanettato con i polsi dietro la schiena da alcuni agenti di polizia municipale, morendo soffocato. La vita di queste persone, la loro particolarità e diversità, viene “trattata” senza alcun rispetto, mettendo al primo posto una presunta esigenza di sicurezza che, francamente, pare essere evidente solo agli occhi di chi esegue questi interventi. Ma la situazione è così grave e diffusa che non possiamo pensare di trovarci semplicemente di fronte a difetti di formazione delle forze di polizia.
L’aspetto cruciale, più grave e preoccupante, è l’evidenza del vuoto culturale e la sensazione – più di una sensazione – che esista uno scellerato patto politico tendente a mantenere le cose così come stanno. Ne è un ottimo esempio il disastroso iter che ha avuto il disegno di legge sul reato di tortura in questa legislatura: i passaggi tra le due camere del Parlamento ci hanno consegnato una bozza praticamente inutile, che se diventasse legge non riuscirebbe in alcun modo a diventare strumento per perseguire casi di tortura. Il cammino da compiere è ancora lungo, serve la massima attenzione, un costante monitoraggio e la tenacia dimostrata in questi anni dai familiari delle vittime che, con profondo e sincero rispetto delle istituzioni, hanno continuato a fare domande e a chiedere – pretendere – verità e giustizia.
* Luigi Manconi, Senatore della Repubblica, un sociologo e un critico musicale, da tempo impegnato a difesa dei diritti umani; Valentina Calderone, direttrice dell’Associazione A buon diritto
Pubblicato venerdì 16 Ottobre 2015
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