Da tredici anni, il 10 febbraio, anniversario della stipula del Trattato di pace tra l’Italia e le potenze alleate (1947), viene celebrato come Giornata del ricordo, “al fine – come recita l’art. 1 della legge istitutiva 30 marzo 2004, n. 92 – di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. La stessa legge dispone la consegna di una insegna metallica con la scritta “La Repubblica italiana ricorda” “al coniuge superstite, ai figli, nipoti e congiunti fino al sesto grado di coloro che, dall’8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947 in Istria, in Dalmazia o nelle province dell’attuale confine orientale, sono stati soppressi e infoibati”; agli scomparsi e quanti, nello stesso periodo e nelle stesse zone, sono stati soppressi con la violenza, e ai congiunti dei cittadini italiani che persero la vita dopo il 10 febbraio 1947 ed entro l’anno 1950, qualora la morte sia sopravvenuta in conseguenza di torture, deportazione e prigionia, con l’esclusione dal riconoscimento di coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle zone sopra indicate “mentre facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell’Italia”. Il riconoscimento era subordinato alla valutazione delle domande presentate dagli interessati entro dieci anni dall’entrata in vigore della legge, effettuata da una Commissione istituita presso la Presidenza del Consiglio; esaurite le procedure, il materiale raccolto avrebbe dovuto essere versato all’Archivio centrale dello Stato. Inoltre, l’articolo 2 della medesima legge n. 94 ha stabilito che “sono riconosciuti il Museo della civiltà istriano-fiumano-dalmata, con sede a Trieste, e l’Archivio museo storico di Fiume, con sede a Roma” attribuendo un finanziamento annuo di 100mila euro rispettivamente all’Istituto per la cultura istriano-fiumano-dalmata (IRCI), che gestisce il Museo triestino e alla Società di studi fiumani, che gestisce l’Archivio storico museo di Fiume.
Paragonata con la legge n. 211 del 2000, istitutiva della Giornata della memoria, la legge n. 94 si presenta molto più articolata e “assertiva”: la legge del 2000 infatti, si limita a invitare i cittadini, le associazioni e le istituzioni a mantenere vivo il ricordo della Shoah, adottando le iniziative più idonee al perseguimento dello scopo; la legge n. 94, invece, disciplina il procedimento amministrativo per il riconoscimento delle vittime delle foibe e dispone un finanziamento in favore di due istituzioni museali. Da questa maggiore articolazione traspare l’intento del legislatore di allora, di non limitarsi all’invito a ricordare ma anche di prescrivere in modo piuttosto stringente chi, che cosa e come ricordare: si profilava così l’idea che una certa lettura di vicende complesse e controverse potesse essere accreditata per legge come “verità di Stato”; un’idea palesemente in contrasto con i principi costituzionali di libertà della ricerca e di autonomia delle comunità scientifiche.
Questo eccesso di prescrittività, proprio della legge n. 94, si è tradotto nell’affermazione di un punto di vista nazionalista, evidenziato anche dalla delimitazione temporale degli eventi considerati, che esclude ogni riferimento alle politiche di italianizzazione forzata condotta per vent’anni dal regime fascista nei confronti della comunità slovena e croata e ai crimini perpetrati dalle forze di occupazione italiane in Slovenia nel periodo 1941-’43. Queste rimozioni vincolano la narrazione memoriale a un principio identitario destinato inevitabilmente a entrare in rotta di collisione con le narrazioni specularmente contrapposte delle altre nazionalità, e conseguentemente a perpetrare incomprensioni e risentimenti ormai secolari. Un lavoro di ricerca, liberato da impropri condizionamenti, può invece concorrere a superare le prospettive angustamente nazionali, che hanno alimentato le divisioni del passato e che non sono più compatibili con la prospettiva dell’unità europea. In questo senso, il proficuo lavoro della Commissione storica italo slovena ha costituito un evento certamente positivo, purtroppo rimasto isolato (vedi: http://anpi.it/media/uploads/patria/2008/1/00_SPECIALE_FOIBE.pdf).
La ricostruzione dei dibattiti parlamentari che hanno portato al varo della legge n. 94 può dunque contribuire a una rilettura critica di tale normativa, necessaria per fare sì che la Giornata del ricordo possa rappresentare effettivamente una ricorrenza nella quale dialogo, ricerca e volontà di riconciliazione prevalgano su un uso fazioso e strumentale della memoria. Tradotto in specifiche iniziative legislative, quest’ultimo approccio spinse infatti le formazioni di centro destra, più di vent’anni fa, a cercare di trasformare la dovuta celebrazione di un dramma di grandi proporzioni in una rissa memoriale, nella quale il ricordo delle vittime servì di pretesto per un’operazione di appropriazione finalizzata alla legittimazione di una parte politica e alla delegittimazione degli avversari.
La prima proposta di legge relativa alla “Concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati” fu infatti presentata nella XII Legislatura (1994-1996) dai deputati di Alleanza Nazionale Menia, Fini, Tremaglia, Tatarella e Gasparri. Il testo disponeva l’attribuzione di una “insegna metallica” recante la scritta “Per l’Italia” al coniuge, ai figli, ai nipoti e in ogni caso ai parenti più prossimi delle persone soppresse per infoibamento, annegamento, fucilazione, massacro, attentato o scomparse dall’8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947 in Istria o Dalmazia, con l’eccezione di coloro che erano stati soppressi nello stesso periodo e nelle medesime zone, “mentre facevano volontariamente parte di formazioni non al servizio dell’Italia”. La relazione introduttiva all’articolato si caratterizzava, tra l’altro, per una ricostruzione storica degli eventi considerati improntata al più esasperato nazionalismo. “I partigiani titini – vi si legge –, a seguito dell’8 settembre 1943, per circa sessanta giorni infierirono su quanto d’italiano vi era in quella terra della frontiera orientale. Ributtati nelle loro zone di origine dalle armi tedesche e da quelle della RSI, tornarono alla fine della guerra e, dal maggio 1945 – padroni incontrastati della situazione – completarono le loro vendette con altri massacri, con altre stragi”. In questa vulgata revisionista, il contesto del conflitto tra nazifascismo e antifascismo veniva disinvoltamente liquidato in favore di una narrazione degli eventi della frontiera italo-slovena in chiave di un conflitto tra nazionalità; addirittura, i proponenti giungevano a sostenere che quegli eventi avevano “ancora una volta cementato la storia dell’Istria e della Dalmazia a quella dell’Italia”, omettendo però di ricordare che dal settembre 1943 i territori in questione erano stati incorporati nella Adriatisches Küstenland, annessa al Terzo Reich e sottratta a qualsiasi forma di sovranità italiana.
Sciolte anticipatamente le Camere nel 1996, all’inizio della XIII Legislatura, il deputato Menia ripresentò il testo presentato nella legislatura precedente; ad esso si aggiunse, il 1° febbraio 2000, la proposta di legge del DS Antonio Di Bisceglie, che prevedeva la concessione di una insegna metallica recante la scritta “La Repubblica ricorda” al “coniuge superstite, ai figli, ai nipoti ed in loro mancanza al congiunto più prossimo di coloro che, dell’8 settembre 1943 al 10 ottobre 1943 nel territorio dell’ex provincia di Pola, dal 31 ottobre 1944 all’11 giugno 1945 a Zara e dal 1° maggio all’11 giugno 1945 nel territorio delle ex province di Trieste, Gorizia, Pola e Fiume, [erano] stati infoibati”, nonché di coloro che erano “stati soppressi da parte di elementi, formazioni ed organi jugoslavi” oltre agli scomparsi nei medesimi periodi. Venivano esclusi dal riconoscimento i caduti in combattimento e coloro che erano stati soppressi nei modi e nelle zone indicate, “mentre facevano parte di formazioni indossanti divisa o insegne tedesche e comunque gli appartenenti ed i collaboratori di organi e formazioni che tennero un comportamento efferato contro gli antifascisti e la popolazione civile e/o praticarono la delazione ai danni di resistenti e dei cittadini di origine ebraica”.
L’iter parlamentare della proposta di legge Meina ebbe inizio il 17 settembre 1998. Introducendo il dibattito in Commissione affari costituzionali, il relatore Paolo Corsini (Democratici di Sinistra) confutò l’impostazione di quel testo e prospettò un’analisi più articolata degli eventi verificatisi nell’area giuliano-dalmata nel periodo considerato, sottolineando come, accanto agli squadristi e ai gerarchi locali, fossero stati colpiti dalle forze di liberazione jugoslave anche i rappresentanti delle istituzioni e della comunità italiana, con l’intento di cancellare il ricordo della passata amministrazione, invisa dalla popolazione slovena e croata per il suo fiscalismo e per le prevaricazioni nazionali e poliziesche; inoltre, il relatore richiamava la sovrapposizione tra rivendicazioni di carattere nazionale e conflitto sociale, per cui le retate avevano colpito anche i possidenti italiani, vittime dell’antagonismo di classe che da decenni li opponeva ai coloni e mezzadri croati. In questo contesto, inoltre, erano stati colpiti anche antifascisti italiani, sloveni e croati in disaccordo con il progetto politico jugoslavo, nonché unità militari italiane e della Guardia di Finanza, che avevano collaborato con il CLN: tutti soggetti accomunati nell’equiparazione degli italiani al fascismo, con la conseguente indistinzione delle responsabilità.
L’esposizione del relatore, docente universitario di storia moderna, fu duramente confutata negli interventi dei deputati di centro destra: Garra (Forza Italia) accusò il relatore di avere svolto una “filippica” contro il fascismo; Menia gli imputò una ricostruzione storica di parte, salvo poi asserire che a Trieste si era consumato “uno scontro tra italiani e anti italiani”, esplicitando così l’idea che solo ai primi potesse essere attribuito un sentimento di appartenenza nazionale, mentre la qualificazione in negativo delle altre nazionalità come “non italiani” lasciava trasparire un’impostazione mutuata direttamente dalla contrapposizione operata dal fascismo tra “civiltà” romana e “barbarie” slava; in questo quadro, risultava altrettanto significativo, l’intervento dello storico Piero Melograni (Forza Italia), il quale, senza entrare nel merito delle obiezioni del relatore, sottolineò il “valore politico” della proposta in esame, ricondotto all’idea di una “insufficiente legittimazione” dei Democratici di Sinistra, derivante dal riesame storico del recente passato.
Rinviato in attesa della presentazione della proposta di legge sulla stessa materia da parte del gruppo dei Ds (sarebbe stata la proposta Di Bisceglie), la discussione in Commissione riprese il 16 settembre 1999, con un intervento fortemente contrario alla proposta Menia della deputata Moroni (Gruppo dei Comunisti Italiani), che stigmatizzò la rimozione della politica anti slava e di italianizzazione forzata condotta dal fascismo, nonché le violenze e le deportazioni compiute ai danni del popolo sloveno nel periodo dell’occupazione; dal canto loro, i deputati del centro destra Armaroli e Menia ribadirono le loro tesi sottolineando come fosse stata attuata “una vera e propria pulizia etnica posta in essere da Tito”.
La discussione nell’Aula di Montecitorio iniziò il 12 febbraio 2001 su un testo al quale la Commissione aveva apportato poche e limitate modifiche: il relatore Maselli (Democratici di Sinistra), in sostituzione di Corsini, eletto sindaco di Brescia, nell’illustrare il testo, adombrò, tra l’altro, una diversa finalizzazione delle norme in discussione, affermando: “La Repubblica italiana nata dalla Resistenza è abbastanza forte per ricordare i morti di una strage non ancora dimenticata, per riconoscere i diritti degli sloveni abitanti entro i propri confini, per risarcire almeno parzialmente gli esuli dall’Istria e dalla Dalmazia, per stendere una mano amichevole ai popoli sloveno e croato, aiutando implicitamente le minoranze italiane a rivendicare i loro diritti in quei Paesi”. Sul versante del centro-destra, i deputati Niccolini e Menia, di Alleanza Nazionale respinsero tale approccio, ribadendo, al contrario, l’intento di pervenire al riconoscimento di quanti erano rimasti vittime della scelta di battersi in favore dell’italianità di Trieste, sia che militassero nelle file della Resistenza sia che fossero inquadrati nell’esercito fascista. Questa inaccettabile equiparazione non mancò di suscitare la reazione dei parlamentari del centro sinistra. La deputata Moroni (più volte interrotta da insulti del deputato Menia, riportati nel resoconto stenografico della seduta) intervenne per ricordare gli effetti delle politiche anti slave poste in essere dal fascismo prima e durante la Seconda guerra mondiale, e distinse tra il dovuto riconoscimento di episodi di giustizia sommaria intervenuti dopo l’8 settembre 1943 e le effettive finalità della proposta di legge in discussione, di cui metteva in luce la voluta assenza di un’analisi del contesto storico che aveva generato le foibe, e da una inaccettabile rivalutazione dell’operato delle truppe tedesche e della RSI. Anche il deputato Di Bisceglie (Ds) nel suo intervento, ricordò che tra le persone scomparse e tra gli infoibati vi erano “squadristi responsabili dell’ondata di terrore che segnarono l’affermazione del cosiddetto fascismo di frontiera”, nonché gli appartenenti ai più odiosi strumenti di repressione fascista, come l’Ispettorato speciale per la Venezia Giulia, l’ufficio politico investigativo della Milizia di Trieste e il Centro per lo studio del problema ebraico.
Malgrado tali rilievi, il provvedimento fu varato della Camera con i voti pressoché unanimi del centro-destra e della maggior parte dei gruppi del centro-sinistra (316 voti a favore e 14 contrari), con l’eccezione dei deputati dei Gruppi Comunisti italiani e Rifondazione comunista che abbandonarono l’Aula al momento del voto. Trasmesso al Senato, il disegno di legge fu discusso presso la Commissione affari costituzionali, riunita in sede deliberante, e si concluse l’8 marzo 2001, con la bocciatura del testo, non essendo stata raggiunta la maggioranza a seguito dell’astensione dei Democratici di Sinistra e del Partito Popolare, nonché del voto contrario dei senatori appartenenti a Rifondazione comunista e ai Comunisti italiani.
Poco dopo l’inizio della XIV Legislatura, il 26 ottobre 2001, il deputato Menia ripresentò alla Camera dei deputati la proposta di legge sul riconoscimento ai congiunti degli infoibati nel testo bocciato nella legislatura precedente, accompagnandolo con una relazione nella quale, tra l’altro, si esaltava il ruolo svolto dalla X Mas e dal Battaglione Carabinieri “Mussolini” nella “difesa dei confini orientali”. La proposta di legge fu deferita alla Commissioni affari costituzionali, che ne concluse l’esame il 17 giugno 2003, varando un testo solo lievemente modificato rispetto a quello originario, con il voto favorevole dei Gruppi della maggioranza di centro-destra, mentre il Gruppo dei Democratici di Sinistra si astenne.
La discussione in Assemblea si aprì il 4 febbraio 2004, e nel corso dell’esame fu approvato un emendamento che istituiva il “Giorno del ricordo”, nel testo che sarebbe poi diventato definitivo. Si registrò in tale occasione un’ampia maggioranza: votarono infatti a favore tutti i Gruppi di centro-destra, ma anche i Democratici di Sinistra e la Margherita; votarono contro i Gruppi di Rifondazione comunista e la componente dei Comunisti italiani in seno al Gruppo misto. Nel complesso, l’emendamento fu approvato con 388 voti favorevoli, 13 contrari e 4 astenuti.
Peraltro, prima dello svolgimento della discussione in Assemblea, era stata presentata da un nutrito gruppo di parlamentari di centro destra una proposta di legge recante «Istituzione del “Giorno della memoria e della testimonianza” in ricordo delle terre d’Istria, di Fiume e della Dalmazia, nonché degli esuli giuliano-dalmati»: il testo chiariva che la Giornata era istituita “al fine di ricordare, fare conoscere e perpetuare la millenaria storia e presenza italica nelle stesse terre, nonché la tragedia delle migliaia di italiani nelle foibe istriane e dell’esodo di 350 mila istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra”.
Il mutato contesto politico, con l’avvento di una maggioranza politica di centro-destra, favoriva manifestazioni esplicite di revisionismo storico e di revanscismo nazionalista: con il riconoscimento legislativo della Giornata del ricordo, i proponenti auspicavano la ricostruzione, sulla base di un esasperato nazionalismo (la asserita “millenaria storia romana, veneta e italica” delle regioni in questione), di “una memoria nazionale e collettiva fuori dalle vecchie divisioni, dalle passioni e dai rancori, condivisa da tutti gli italiani”. Questa aggressiva impostazione, che tornava ad evocare il fantasma di passate contrapposizioni nazionali, spinse le principali componenti del centro sinistra ad attestarsi su una posizione difensiva, per cui, al termine della discussione alla Camera, tutti i gruppi politici si dichiararono in favore del provvedimento, salvo i parlamentari di Rifondazione comunista e dei Comunisti italiani e il testo fu approvato con 502 voti a favore, 15 contrari e 4 astenuti.
Analogo svolgimento ebbe la discussione al Senato, iniziata il 25 febbraio 2004. È comunque degno di nota il fatto che nel corso dell’esame del testo trasmesso dalla Camera fu respinto un emendamento recante l’integrazione della Commissione istituita per l’esame delle domande di riconoscimento con un rappresentante dell’Istituto regionale per la Storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, con la risibile motivazione che in tal modo sarebbero stati introdotti elementi di polemica politica. Rimosso quest’ultimo ostacolo, l’Assemblea di Palazzo Madama procedette nell’esame speditamente, varando definitivamente l’articolato il 1° marzo 2004, con il voto favorevole di tutti i gruppi, salvo il voto contrario dei senatori facenti capo a Rifondazione comunista e ai Comunisti italiani.
Pubblicato giovedì 2 Febbraio 2017
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