“Mi era stato proibito di lavarmi. Dopo qualche tempo acquistai una certa abilità nello scalare canne fumarie, ma ginocchia e gomiti sanguinavano senza che qualcuno provvedesse al minimo medicamento. I vestitini sporchi di fuliggine si appiccicavano alla pelle e ogni movimento mi provocava forti dolori fino a farmi zoppicare. Andavo su a tentoni, con movimenti alterni, a forza di gomiti e ginocchia, puntellandomi alla canna del camino. Nessuno può immaginare cosa si prova a stare racchiusi in un buco buio, con la testa in un sacco, più il camino è stretto, più ti senti soffocare” (Da Fam, fum, frecc, il grande romanzo degli spazzacamini di B. Mazzi). Tra figurinai, musicanti, vetrai, ramai, spazzacamini e venditori ambulanti, tutti emigranti italiani, figuravano anche i bambini. Erano sempre presenti tra gli artigiani che si riversavano fin dall’età moderna nelle città al di là delle Alpi. Nelle zone appenniniche e nelle vallate alpine molti bambini, a partire dai 10 anni, venivano consegnati a suonatori ambulanti che ne facevano largo uso per intenerire il pubblico e raccogliere denaro.
Una circolare del 14 aprile 1834 aveva cercato di imporre regole «onde reprimere il barbaro uso antico de’ montagnari, precipuamente del Valtarese, del Bardigiano e del Compianese, di noleggiare i propri figli maschi ad altri loro compaesani, i quali seco loro li traggono come famigli in lontane regioni (più spesso in Francia ed in Inghilterra)». Eppure, nei decenni successivi all’Unificazione dell’Italia, l’impoverimento di larghe zone della penisola aprì la strada ad un maggiore sfruttamento minorile.
L’attività che più di ogni altra continuava a suscitare sdegno nell’opinione pubblica era quella dei piccoli suonatori girovaghi, descritti come piccoli schiavi. Se fino alla metà dell’800 le compagnie di suonatori erano composte soprattutto da uomini e la presenza dei ragazzi si limitava a uno o due, la crisi economica e sociale che investì il Sud dopo l’Unità invertì questo rapporto: erano numerosi i piccoli suonatori che emigravano sotto la guida di un solo adulto. Le loro drammatiche condizioni di vita costituivano solo un aspetto del vasto fenomeno dello sfruttamento del lavoro minorile emigrante, delle condizioni di estrema povertà in cui versavano le regioni meridionali e le zone montane del paese. Alcuni bambini e ragazzi affrontavano la vita del suonatore o del venditore ambulante, alle dipendenze di un padrone, per sottrarsi alla durezza del lavoro dei campi. Raccontò un giovane parmense emigrato a 9 anni: “Al villaggio mendicavo e mio zio mi disse che avrei dovuto andare a Parigi a guadagnarmi da vivere. Ero così povero che avevo pauro di morire perché non avevo niente da mangiare. Mia madre pianse quando me ne andai” (Mayhew, H. The London Street Folk, 1968). A 13 anni il ragazzo seguì il padrone a Londra dove suonava l’organetto ed esibiva alcuni topolini e una scimmia. A 16 anni riuscì, viaggiando a piedi, a ritornare in Italia. Dal paese ripartì con un altro padrone. I piccoli risparmi accumulati negli anni gli consentirono di acquistare un organo, mettersi in proprio e aiutare la famiglia in Italia. L’organetto a manovella sostituì l’arpa e la zampogna, incoraggiò ancor più lo sfruttamento dei bambini e l’età dei ragazzi adibiti alla questua si abbassò ulteriormente. Ai maltrattamenti e alle percosse si aggiungevano per le bambine le violenze sessuali e, in molti casi, l’avvio alla prostituzione.
Il problema dei piccoli suonatori era stato posto all’attenzione del Parlamento fin dal gennaio 1868 dai deputati Giuseppe Guerzoni e Antonio Oliva, in seguito alla pubblicazione di un rapporto della Società italiana di beneficenza di Parigi, che descriveva le tragiche condizioni di vita dei piccoli suonatori italiani. La Commissione di indagine terminò i lavori nel marzo del 1873. Il tema della dignità nazionale fu ricorrente nel dibattito nella relazione conclusiva. L’articolo 1 della legge, approvata il 21 dicembre 1873, puniva chiunque occupasse minori di 18 anni in professioni girovaghe, ma non prevedeva punizioni per chi li utilizzasse come spazzacamini e figurinai, che vennero considerati lavori onesti.
Il figurinaio fu il primo dei mestieri specializzati e, a partire dalla Lucchesia, si diffuse nel mondo. I bambini ceduti ai gessai della provincia di Lucca, per la vendita delle statuette all’estero, erano sottoposti a un duro sfruttamento, costretti a girovagare per strada fino a tarda ora con il loro pesante cesto. Per molti anni i piccoli figurinai continuarono a non avere alcuna tutela, come i bambini italiani ceduti ai “ramoneurs”, gli spazzacamini, costretti a un lavoro molto rischioso. Già dalla fine del ‘700 l’opinione pubblica in Inghilterra si era indignata per il loro sfruttamento. Infatti, i padroni delle compagnie li portavano soprattutto in Francia e in Inghilterra. Li reclutavano fin dagli 8 anni principalmente in Piemonte e in Valle d’Aosta: la giovanissima età era un dato essenziale, solo corpi agili e snelli potevano infilarsi e arrampicarsi nelle canne fumarie. Le testimonianze raccolte negli anni, oltre al freddo, la fame, la fatica, la paura, si soffermano sui maltrattamenti subiti, alcuni dei quali assolutamente inauditi. Esistevano, poi, le condizioni dei piccoli “carusi” delle zolfare siciliane, anch’essi affittati, maltrattati, sottoposti ad un lavoro estenuante che ne storpiava il piccolo corpo e comprometteva la salute. Neppure loro nel 1873 furono oggetto di discussione nella Commissione di indagine.
A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo lo sviluppo industriale e il nuovo contesto dell’emigrazione limitarono la partenza di suonatori e girovaghi. In Inghilterra e Germania il venditore di gelati e castagne sostituì quello di suonatore, molti figurinai abbandonarono le vendite per strada, i lustrascarpe iniziarono a lavorare presso i barbieri. Molti ragazzi emigravano come arrotini, calzolai, ombrellai e seggiolai, ma il lavoro infantile tese a spostarsi sempre più verso l’industria, inserendosi in un mercato europeo del lavoro minorile che traeva alimento dall’arretratezza della legislazione italiana.
A causa delle resistenze degli industriali italiani, la prima proposta di tutela dell’infanzia lavoratrice, presentata al Senato nel 1873, si tradusse in legge solo nel 1886, quando entrò in vigore il divieto di far lavorare nelle fabbriche i bambini al di sotto dei nove anni. Dovettero passare altri sedici anni prima che fosse approvata una seconda legge che elevava il limite di età a 12 anni.
Contribuiva alla gravità anche l’arretratezza della legislazione italiana in tema di obbligo scolastico. Fino ai primi anni del secolo esso terminava a 10 anni con il compimento della terza elementare. Nel 1904 l’obbligo fu esteso alla sesta elementare. Nei Paesi europei industrializzati, già a partire dagli anni 80 dell’800, l’obbligo scolastico terminava a 13 o 14 anni e il controllo della sua osservanza era molto rigoroso. I ragazzi potevano essere avviati al lavoro solo dopo aver concluso il ciclo di studi obbligatorio. Così in Francia, Svizzera e Germania, i bambini allontanati o non più accolti dalle fabbriche, furono sostituiti dai ragazzi immigrati: spagnoli, polacchi, italiani. Il mercato internazionale del lavoro minorile offriva mansioni faticose e dannose per la salute, ma gli industriali dei Paesi di immigrazione non si facevano scrupolo nell’occupare minorenni italiani al di sotto dei limiti di età. Neppure gli ispettori del lavoro si dimostravano solerti nel pretendere il rispetto della legislazione per tutelare i bambini immigrati. D’altra parte, nel 1890 il governo italiano si era rifiutato di adeguare la propria legislazione a quella degli altri Paesi, avanzando come motivazione l’arretratezza dell’industria nazionale. Perciò non riusciva a difendere la propria mano d’opera minorile all’estero.
Le fabbriche del vetro, delle costruzioni e le fornaci utilizzarono un gran numero di minorenni italiani in sostituzione di strumenti di sollevamento e di trasporto. L’affitto e l’incetta di ragazzi italiani, soprattutto meridionali, continuarono per lungo tempo a fornire mano d’opera indispensabile alle vetrerie francesi della valle del Rodano, della Loira e del Puy de Dome. I piccoli vetrai provenivano principalmente dalle province di Caserta, Isernia e Campobasso che erano tra le zone più povere della penisola. Venivano sottoposti ad uno sfruttamento brutale. Il lavoro più penoso era quello del gamin, il bambino addetto a cogliere dal forno con una canna di ferro il vetro liquefatto e a porgerlo all’ouvrier. Il lavoro si svolgeva anche di notte e spesso i piccoli venivano costretti ai doppi turni. Paura, minacce, percosse, cattiva comprensione della lingua francese, toglievano loro qualsiasi speranza di sfuggire ad un destino che li condannava alla tubercolosi, all’enfisema polmonare o alla pleurite.
Gli orrori delle vetrerie vennero alla luce solo nel 1900 in seguito ad un rapporto del console di Lione, Lionello Scelsi, e da allora il problema non potè più essere ignorato. Fu l’inchiesta condotta da Ugo Cafiero, l’anno successivo, per conto dell’Opera di assistenza degli operai italiani in Europa e nel Levante, ad individuare le responsabilità politiche e le ragioni sociali della tratta dei minorenni. Cafiero si cimentò anche con un inchiesta sul campo, indagando su un traffico di minorenni italiani, ragazzi condotti dai circondari di Sora (Lazio) e di Isernia (Molise) nelle vetrerie francesi. Raccolse documenti e testimonianze della tratta, dell’arrivo, della permanenza e spesso del mancato ritorno dei piccoli italiani obbligati a lavorare in stato di semi schiavitù in questi opifici d’oltralpe (I fanciulli italiani nelle vetrerie francesi, Ugo Cafiero, pag. 569-591, in Rivista Sociale, n. 6, 1901). La miseria, la disperazione, l’ignoranza inducevano le famiglie italiane povere ad affidare i figli agli incettatori che illudevano i poveri genitori prospettando una vita migliore per i bambini. La speranza di possedere un paio di scarpe accompagnava i piccoli, a volte, per tutto il viaggio. Le connivenze che gli incettatori riuscivano ad ottenere con queste famiglie non avrebbe avuto efficacia se l’espatrio dei bambini non fosse stato tollerato e quasi favorito da funzionari italiani, autorità di frontiera e impiegati ferroviari.
Né la legge sull’emigrazione del 1901, né le successive convenzioni tra Francia e Italia del 1910 per la protezione del lavoro dei minorenni immigrati riuscirono ad eliminare la tratta dei ragazzini italiani. Ricordiamo, tra le altre, la testimonianza di Beatrice Berio, consigliera del Segretariato femminile per la tutela delle donne e fanciulli emigranti, che nel 1912 vide bambini al di sotto dei limiti d’età consumati dalla tisi nelle vetrerie lionesi. E un dato per tutti: se alla fine dell’800 i piccoli vetrai italiani erano valutati in 1600-1700 unità, 12 anni dopo erano più che raddoppiati. In una vetreria furono ritrovati circa 300 ragazzi italiani al lavoro. Negli stabilimenti tessili svizzeri francesi e tedeschi le minorenni italiane presero il posto delle ragazze del luogo, allontanate dalle fabbriche da norme sempre più severe sull’obbligo scolastico. Provenivano prevalentemente dal Piemonte, Veneto, Toscana, Calabria e Sicilia, mentre i ragazzini che lavoravano nelle fornaci erano quasi tutti veneti e friulani.
All’inizio del secolo XX i minorenni inseriti nelle correnti migratorie per le fornaci, provenienti dalla sola provincia di Udine, si aggiravano annualmente intorno alle 5.000 unità. In maggioranza venivano affidati ad un accordante che li conduceva in Baviera, Austria, Ungheria e Croazia. Spesso i minorenni erano privi di passaporto e avevano documenti falsificati, irregolarità alle quali le autorità di frontiera parevano non badare troppo. Ai ragazzi erano affidate tutte le mansioni di facchinaggio, trasporto di carbone e mattoni, carico e scarico di forni e carretti. Il minimo rallentamento era punito con percosse e improperi. Dovevano adattarsi al ritmo di adulti che lavoravano a cottimo. Le autorità italiane riconoscevano ai reclutatori una importante funzione economica e li tenevano in considerazione perché essi assumevano per un anno l’esercizio di una fornace, conoscevano il mestiere e avevano nozioni di amministrazione, pertanto non venivano considerati dei puri “venditori di carne umana” come gli incettatori casertani.
Gli imponenti lavori di traforo ai valichi alpini e lo sviluppo delle comunicazioni stradali e ferroviarie richiamarono dall’Italia emigranti manovali e muratori. Perciò alla vigilia della Prima guerra mondiale in Svizzera c’erano circa 250.000 italiani e in Germania 200.000, in maggior parte lavoratori stagionali. Per la costruzione del traforo del Sempione, che doveva collegare l’Italia con la Svizzera, molti ragazzi italiani, tra i quali numerosi “carusi”, furono affidati dai padri alle squadre di manovali che partivano dai paesi della Sicilia.
In Svizzera il ricorso alla forza lavoro minorile era estesissima anche nel settore dell’edilizia. Gli impresari erano per lo più italiani, i cosiddetti “tacherons” e per pochi franchi a stagione affittavano ragazzi appartenenti a famiglie poverissime. In Germania bambini e adolescenti si mescolavano agli adulti nei lavori di pavimentazione delle strade, nella posa delle rotaie. In Austria i ragazzi italiani venivano impiegati anche nelle miniere di sale dove gli adulti avrebbero dovuto camminare curvi. Dal biellese, dal comasco e dal bellunese, fin dall’adolescenza, i ragazzi seguivano padri, fratelli maggiori e zii. Alla fine del secolo XIX il 35% di coloro che emigravano annualmente dal biellese, erano minorenni. Si confondevano nella massa degli emigranti, la loro presenza non è quantificata. ma nelle foto di gruppo sono sempre presenti in primo piano. Alcuni sopportavano le fatiche nella prospettiva di acquisire un’abilità professionale, altri tendevano a cercare compensazioni nel fumo e nel vino. Non di rado vediamo foto di ragazzi emigranti in pose spavalde, fra le mani sigaretta e bicchiere di vino.
Con il miglioramento dei trasporti e l’inizio della grande emigrazione italiana, anche i percorsi dei ragazzini seguirono quelli degli adulti, e, dopo i Paesi europei, raggiunsero le Americhe. Questa parte sarà oggetto di ricostruzione e approfondimento di un altro articolo. Nella storia dell’emigrazione dei bambini e dei minori italiani, si dovrà giungere al 1924 affinché il bambino sia riconosciuto in quanto tale, con la Dichiarazione dei diritti del fanciullo, nota anche come Dichiarazione di Ginevra.
Antonella Rita Roscilli, giornalista brasilianista, scrittrice e traduttrice
Pubblicato mercoledì 20 Febbraio 2019
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