“Ti mando a Gaeta” è stata una delle minacce di reclusione più potenti nell’immaginario collettivo che ha intimorito militari di ogni rango fino al 1990, quando il carcere del castello angioino del basso Lazio venne dismesso. Riadattato da un ex bagno penale del 1800 e costruito sotto la giurisprudenza penale del XIX secolo, è stata una delle prigioni più dure. Tra le sue mura vi furono detenuti per obiezione, partigiani e nazisti. Ma il trattamento non fu uguale per tutti. Tra gli oppositori politici imprigionati nella fortezza che affaccia sul mar Tirreno ci fu Mario Carrozzini, comandante del gruppo Dambel del battaglione garibaldino Monteforte che originario di Gioia del Colle (BA) lottò contro il nazifascismo in Trentino, nell’alta Val di Non.
Quella di Carrozzini è una storia rocambolesca: ricercato ovunque dai nazisti, sfugge alla cattura due volte, viene in seguito incarcerato, riuscendo comunque a evadere dal luogo di detenzione. Sua moglie Livia è catturata al suo posto e picchiata per giorni nel tentativo di farlo uscire allo scoperto. Ma la situazione non cambia. Carrozzini si muove sul territorio nazionale con due carte d’identità: una, quella vera, rilasciata dal Comune di Bolzano a Mario Carrozzini, l’altra, quella falsa, rilasciata dalle autorità di Roma a Mario Pomarici. “Sono il figlio del soprano Maria Caniglia”, star dell’epoca, afferma quando lo fermano per controlli. Arriva addirittura a esibirsi come tenore per intrattenere i nazisti.
Sul campo di battaglia sceglie di farsi chiamare “comandante Luca”, in onore di uno dei suoi figli che in quegli anni non può veder crescere, mentre con il suo battaglione fa saltare ponti, taglia i cavi del telegrafo, attacca pattuglie isolate, operazioni che gli varranno poi una Medaglia d’Argento al Valore Militare. Nel dopoguerra, tra il 1951 e il 1954, è detenuto prima a San Vittore, poi a Regina Coeli e Forte Bravetta per arrivare nel carcere di Gaeta, dove conosce altri partigiani. Pochi giorni prima del suo arresto, sua moglie Livia viene ferita da una pallottola al suo posto.
“È stato ingiustamente incriminato – spiega Nicola Ancora, storico e responsabile dei servizi educativi del carcere oggi divenuto museo –. Dopo l’amnistia Togliatti si mette in moto una vera e propria caccia al comunista e Carrozzini viene arrestato e accusato di essere una spia a favore degli Stati satellite dell’ex Urss. Un capo di imputazione che si dimostra falso. In quegli anni imperversa la dottrina Truman”.
Il Presidente statunitense diventa infatti fautore del “contenimento” del comunismo, garantendo il sostegno Usa ai Paesi “minacciati” e promuovendo il piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa postbellica. Aspetto interessante perché il comandante Carrozzini gestisce, per conto della Provincia di Trento, i fondi legati al piano economico in questione. “Mario Carrozzini viene spesso punito e mandato nella cella di isolamento – aggiunge lo storico Ancora –, nel suo diario racconta anche di un caporale che passava un bastone lungo le grate metalliche per verificare di tanto in tanto se fossero segate o meno”.
Per il partigiano si mobilitano l’Anpi di Trento, di cui era componente sin dalla sua costituzione, il cappellano del carcere e molti altri detenuti. A ridare dignità a questa vicenda è Domani? Forse!, libro scritto dal figlio di Carrozzini, Renzo Luca, e che prende il titolo da una delle frasi tipiche del partigiano. Tra i detenuti nella fortezza della piccola ex repubblica marinara c’erano anche i Testimoni di Geova, ritenuti dal regime fascista “i fanatici più pericolosi” e duramente perseguitati benché, secondo le stime della congregazione religiosa, negli anni Trenta il loro numero fosse inferiore a duecento credenti su tutto il territorio nazionale. Negli anni successivi, nella follia dello sterminio voluto da Hitler e sostenuto da Mussolini, in Europa sono oltre duemila i Testimoni di Geova vittime dei campi di concentramento che preferiscono morire per il loro credo religioso invece di abiurarlo. Per di più erano stati i Testimoni i primi a denunciare le nefandezze e i pericoli del nazifascismo.
Ma, mentre nelle camerate del carcere di Gaeta i prigionieri conducono una vita di stenti, nel versante sud-orientale della stessa prigione i trattamenti sono ben diversi: celle con vista mare, bagno in camera, una terrazza per l’ora d’aria, strumenti musicali, cibo prelibato. Si tratta del braccio “ex ufficiali”, destinato a ospitare graduati italiani e gerarchi nazisti del calibro di Walter Reder, boia delle stragi di Marzabotto e Vinca, e Herbert Kappler, al comando della Gestapo a Roma e mandante dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Il primo resta a Gaeta dal 1951 al 1985 (rimpatriato in Austria su un aereo messo a disposizione dal governo italiano con sei mesi di anticipo sulla data prevista per la fine dell’internamento,), il secondo vi arriva nel 1948 e ne esce nel 1976 per motivi di salute: ricoverato all’ospedale militare Celio fuggirà il Ferragosto del 1977 con l’aiuto della sua seconda moglie, sposata proprio tra le mura della prigione. “Stando alle cronache dei giornali del tempo – spiega Nicola Ancora – Kappler poteva addirittura vendere i pesci tropicali che allevava nell’acquario della sua stanza. E poi possibilità di fare bagni al mare (seppur scortati) e frequentazioni politiche e sentimentali”.
Un trattamento giustificato dalla Convenzione di Ginevra che tutelava i diritti dei prigionieri di guerra, benché il ritrovamento di alcune rune (i caratteri dell’antico alfabeto germanico) incise negli ambienti frequentati dagli ex ufficiali nazisti attestino “che fu concessa loro la libertà di eludere i controlli interni”, chiosa lo studioso Ancora, che ha effettuato la scoperta. Le rune sono state molto utilizzate dall’ideologia nazista per i propri simboli. Si pensi allo stemma delle SS, dato dall’unione delle due rune a forma di fulmine che simboleggiano la vittoria, ideato da Heinrich Himmler, capo delle SS e appassionato di occultismo. O la svastica, simbolo per eccellenza del partito nazista, che raffigura una runa ripetuta e unita all’altra.
Secondo Nicola Ancora la triade runica ritrovata fa riferimento alle vicissitudini personali di Herbert Kappler: arresto e permanenza nel carcere rappresentati dal simbolo Isa, eredità e patria degli antenati racchiusi in Othila, mentre la runa Kenaz simboleggia la Kappa, quindi una delle sue iniziali, nonché il suo periodo nazista in Italia. “Questo ritrovamento aggiunge un altro elemento a un grande paradosso – conclude lo studioso –: a chi liberò l’Italia dal nazifascismo fu riservato un trattamento molto duro, mentre chi commise atroci crimini nello stesso periodo ebbe una camera con vista mare e il privilegio della libertà”.
Le porte del carcere per il comandante partigiano Carrozzini si apriranno solo dopo un decreto presidenziale di condono nel novembre 1954, L’odissea subita? “Un errore giudiziario”. Mario potrà sempre contare sul sostegno dell’Anpi e degli amici più cari. Morirà nel 1972 colpito da infarto. Aveva 56 anni.
Mariangela Di Marco
Pubblicato venerdì 3 Settembre 2021
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