Quelle che seguono sono vicende di uomini e donne approdati nel nostro Paese e dove non hanno trovato l’accoglienza che speravano, ma hanno subito il carcere e il processo penale.
Una cittadina di origine congolese si presenta alla frontiera aeroportuale di Bologna, proveniente da Casablanca (Marocco), accompagnata da due bambine, una delle quali è sua figlia, l’altra figlia della sorella deceduta e a lei affidata. I passaporti delle minori risultano falsi, e la signora che le accompagna viene tratta in arresto, imputata dei reati di possesso di documenti di identificazione falsi e del reato previsto dall’articolo 12, c. 1°, d.lgs. 286/98, che punisce chi “promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente” (la pena prevista è quella della reclusione da due a sei anni e della multa di 15.000 euro per ogni persona).
Viene accertato, mediante l’esame del dna, che una delle bambine è effettivamente sua figlia. L’altra sparisce e nulla si sa più di lei. A quel punto la donna presenta domanda di protezione internazionale. Il Tribunale di Bologna rileva un possibile contrasto tra la disposizione incriminatrice nazionale sopra citata e altresì la disposizione della direttiva dell’Unione, di cui la prima costituisce filiazione (art. 1 dir. 2002/90/CE), con l’articolo 52, par. 1, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. La ragione del contrasto si rinviene in quello che tali disposizioni non richiedono: che il fatto, per essere punibile, sia compiuto a scopo di lucro, sanzionando anche condotte giustificate da ragioni umanitarie. Sottopone quindi la questione alla Corte di Giustizia della UE. Se la Corte rileverà la violazione della Carta, si creeranno le premesse per la disapplicazione della norma penale nazionale.
Per chiarezza è opportuno riportare quanto prevedono queste disposizioni.
L’articolo 1 della direttiva 2002/90/CE stabilisce che ciascuno Stato membro adotta sanzioni appropriate: 1. a) nei confronti di chiunque intenzionalmente aiuti una persona che non sia cittadino di uno Stato membro ad entrare o a transitare nel territorio di uno Stato membro in violazione della legislazione di detto Stato relativa all’ingresso o al transito degli stranieri; 2.b) nei confronti di chiunque intenzionalmente aiuti, a scopo di lucro, una persona che non sia cittadino di uno Stato membro a soggiornare nel territorio di uno Stato membro in violazione della legislazione di detto Stato relativa al soggiorno degli stranieri; 3. c.) Ciascuno Stato membro può decidere di non adottare sanzioni riguardo ai comportamenti di cui al paragrafo 1, lettera a), applicando la legislazione e la prassi nazionali nei casi in cui essi abbiano lo scopo di prestare assistenza umanitaria alla persona interessata.
Come si vede lo scopo di lucro è richiesto, perché il fatto sia punibile, solo quando la condotta è diretta ad aiutare una persona, già presente illegalmente sul territorio dello Stato, a soggiornarvi (lett. b); non è richiesto invece quando si aiuti il suo ingresso o il suo transito (lett. a). In questo caso è data facoltà agli Stati di escludere la rilevanza penale di quelle condotte che abbiano carattere di assistenza umanitaria. Si tratta, appunto, di una facoltà, non di un obbligo.
L’articolo 12 T.u.i. (Testo unico immigrazione) non prevede questa causa di esclusione del reato. Il nostro Paese non si è avvalso di tale facoltà. La prevede al secondo comma per “le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato”, ma non per il favoreggiamento all’ingresso. C’è quindi sostanziale coerenza tra la disposizione nazionale e quella della direttiva europea. L’articolo 52 par. 1 della Carta stabilisce che “eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.
Quindi la limitazione della libertà personale, che discende dall’applicazione di una sanzione penale, deve, oltre che essere prevista dalla legge, anche essere giustificata da un interesse generale, essere necessaria a realizzare tale fine, essere proporzionata quanto al rapporto tra sacrificio della libertà e risultato conseguito. Qui l’interesse generale perseguito è quello della programmazione dei flussi migratori e della salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Però, quando si discute di proporzionalità, non può essere trascurato il fatto che i diritti fondamentali che vengono pregiudicati non sono solo quelli della persona imputata, cioè del favoreggiatore (che può anche, come si vedrà, coincidere con il migrante), ma anche quella dei migranti: il loro diritto alla vita, alla libertà, alla famiglia; il diritto di asilo. Rileva il giudice remittente che, se il legislatore europeo ha ammesso la possibilità che gli Stati membri prevedano la non punibilità di condotte sorrette da fini umanitari, potendo per ipotesi, e senza violare la direttiva, tale esenzione essere introdotta da tutti gli Stati, ciò significa per ciò stesso che la penalizzazione di tali comportamenti non è indispensabile a garantire il fine perseguito; e quindi l’esclusione della causa di non punibilità si rivela non proporzionata alla luce dell’articolo 52, c.1, Tui. Questo rilievo, difficilmente contestabile in linea logica, attesta da solo quanto siano lontane le concrete policies dell’Unione Europea dai principi enunciati dai Trattati che l’hanno fatta sorgere, che a parole vengono sempre evocati come fari di civiltà.
E vien da dire anche che qualche problema di legittimità costituzionale c’è, in relazione al principio di uguaglianza e ragionevolezza (l’articolo 3 Cost.), in relazione al modo difforme con cui la legge nazionale tratta il favoreggiamento al migrante già presente sul territorio e quello al migrante che prova ad entrare.
Cambiando scenario, lo stesso reato viene contestato a Maysoon Majidi, donna iraniana di nazionalità curda, già perseguitata nel suo Paese, impegnata nella difesa dei diritti umani, giunta in Italia per mare e qui richiedente asilo. La sua odissea è narrata dal padre (Il manifesto, 13 settembre 2024) e da lei stessa (Lettera dal carcere, Il manifesto, 5 settembre 2024). Secondo le testimonianze di due dei migranti trasportati, raccolte nell’immediatezza dello sbarco, Maysoon avrebbe svolto il compito di assistente del capitano, cooperando alla guida della barca, occupandosi di mantenere l’ordine e di distribuire i pasti. La circostanza è negata dal fratello, che come lei viaggiava sull’imbarcazione, che si trova in Germania, da cui ora è stato espulso, perché il Paese di primo approdo è l’Italia. Oggi è negata anche dai due originari testimoni, che, intervistati dalla trasmissione televisiva “Le Iene” negano di averla mai accusata. Maysoon è in carcere dall’inizio dell’anno. Le sue istanze di essere messa agli arresti domiciliari sono sempre state respinte, con l’argomento che permane il pericolo di fuga, avendo tentato di sottrarsi all’identificazione nell’immediatezza dello sbarco. Se ci fu tentativo di fuga allora, è ragionevole collegarlo alla volontà di raggiungere la Germania assieme al fratello; è improbabile che un tale obiettivo permanga oggi. Ad oggi pende un ricorso avanti il Tribunale del riesame (vi aggiorniamo che da poco, finalmente, Maysoon è tornata libera ma bisognerà aspettare il 27 novembre prossimo per la sentenza di primo grado).
Maysoon dichiara di fare parte dell’associazione per i diritti umani Hana, che risulta firmataria di un appello contro la pena di morte in Iran, rilanciato sul web da Nessuno tocchi Caino. Sulla rete si può vedere gratuitamente il suo corto (Thirsty Flight); il narratore e protagonista è uno smuggler (proprio l’accusa che oggi le è mossa) che opera tra il Kurdistan iracheno e quello iraniano; vi si parla di violenze ancestrali sulle donne, in ambito familiare, o praticate e giustificate dal potere. La presa di coscienza e la ricerca di una vita diversa è mediata da Maysoon/Yalda, che compare indossando una maglietta dell’Unhcr. Una simile vicenda coinvolge un’altra donna iraniana, Marjan Jamali, fuggita dall’Iran, perché minacciata di morte dal marito; anche lei accusata di avere svolto il ruolo di “scafista”, sulla base ancora una volta di due dichiarazioni di persone oggi non reperibili.
Simile anche la vicenda di un magistrato afghano, Ahmad Jawid Mosa Zada, giunto sulle coste di Roccella Jonica il 31 maggio 2021 con altri 232 migranti, vittima in patria di un attentato a seguito della sua partecipazione ad un seminario sui diritti delle donne organizzato dall’Asian Foundiation (Repubblica, 16.01.22). Contro la sentenza della Corte di Appello di Reggio Calabria, che, pur escludendo l’aggravante del fine di profitto, lo condannava a cinque anni e un mese di reclusione e a 345.000 euro di multa, pende ora ricorso in Cassazione.
Non si tratta di episodi isolati. L’associazione Arci Porco Rosso fornisce dati propri o tratti dalla rivista Polizia Moderna, non coincidenti, ma in ogni caso dell’ordine di centinaia di persone fermate dal 2022 al 2024.
I casi portati all’attenzione della cronaca presentano tratti comuni: 1) tra gli elementi di prova a carico assumono un rilievo decisivo le dichiarazioni di alcune delle persone che si trovavano sulle imbarcazioni; si tratta di dichiarazioni rese nell’immediatezza dello sbarco, da persone che non si esprimono in italiano, raccolte da chi (sperabilmente con l’ausilio di un interprete adeguato) in ogni caso non conosce la loro lingua. Essi spesso si rendono irreperibili e ciò impedisce che siano nuovamente ascoltati nel contraddittorio della difesa; 2) la legge poi punisce ogni atto diretto a procurare l’ingresso illegale.
È una formula che estende a dismisura l’area delle condotte punibili. L’atto del favoreggiamento inevitabilmente si confonde con quello che serve a garantire a tutti, quindi anche a sé stessi, la salvezza della vita. Ricevere sul cellulare uno screenshot della rotta da seguire favorisce certamente l’approdo, ma serve anche ad evitare il peggio; 3) le persone che hanno un livello culturale più elevato di quello della maggioranza dei migranti sono sottoposte ad un rischio addizionale di criminalizzazione, perché possono essere prescelte dai veri trafficanti come quelle che meglio possono svolgere un ruolo mediatorio tra i diversi gruppi etnici presenti sulla barca; 4) le aggravanti che vengono contestate (ad esempio, il numero di persone trasportate, l’esposizione di tali persone al pericolo di vita) sono normalmente fuori dalla sfera di dominio della persona cui sono imputate. I processi diranno se le condotte contestate furono effettivamente tenute. Ma ci dobbiamo domandare: se anche fosse, c’era una alternativa ragionevolmente praticabile? La risposta a questa domanda mostra come ad essere criminalizzato non sia lo scafista, il trafficante o il favoreggiatore, ma il migrante.
In tempi ormai lontani, Bettino Craxi, tornato dall’America di Reagan, lanciò la parola d’ordine della lotta allo spaccio di droga; ne nacque la legge passata sotto il nome di Iervolino Vassalli che, nel nome della lotta allo spaccio delle sostanze stupefacenti, inaspriva gravemente le pene previste per ogni atto di cessione di quelle sostanze, esentando dalla sanzione penale solo il possesso di una dose media giornaliera. Nelle udienze trascorrevano le vite delle persone. Non era possibile distinguere la figura dello spacciatore al dettaglio da quella del consumatore, perché colui che oggi acquistava una dose era spesso la stessa persona che il giorno seguente l’avrebbe venduta. Cambiati i contesti, scafista e migrante spesso sono indistinguibili: le stesse motivazioni di fuga, gli stessi pericoli in mare. Comune lo stesso circolo vizioso tra proibizionismo, alimentazione di un mercato illegale, repressione penale.
Povera patria, dice la canzone. Queste sono dunque le nuove frontiere del diritto penale: la criminalizzazione degli ultimi della terra, di chi fugge dalle persecuzioni, dalle guerre, dalle violenze, dalle carestie. Potrebbero riproporsi le parole di un lontano scritto di Francesco Antolisei (non proprio un partigiano dell’uso alternativo del diritto, lo scritto porta la data del 1937, chi scriveva forse si illudeva di porre un limite alle torsioni autoritarie del nostro diritto penale), che richiamava il giurista a considerare “il fatto sociale regolato dalla norma”, “l’ambiente sociale in cui il reato viene commesso”, ad evitare un divorzio dalla pratica.
Si può sperare che dalla Corte di Giustizia dell’Unione giunga un impulso a limitare la criminalizzazione alle sole condotte sorrette da un fine di lucro; si può sperare che il nostro legislatore tratteggi meglio in cosa devono consistere quegli “atti diretti a”, dal punto di vista della loro idoneità a procurare l’esito dell’immigrazione illegale; si può sperare in un uso non asfittico delle cause di giustificazione, segnatamente quelle dello stato di necessità e dell’esercizio del diritto. Povera patria… Me ne vergogno un poco e mi fa male vedere un uomo come un animale. Non cambierà, sì che cambierà, vedrai che cambierà… (Franco Battiato).
Mauro Dallacasa, magistrato
Pubblicato lunedì 21 Ottobre 2024
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/povera-patria-cari-migranti-benvenuti-nel-paese-della-liberta/