Un’arte pasticcera, appresa nei campi di prigionia, che con il ricambio generazionale scala le vette nazionali e internazionali fino al riconoscimento del titolo di miglior pasticciere al mondo dalle mani del maestro Iginio Massari. Il prigioniero e il primatista si chiamano entrambi Macellaro Pietro e sono nonno e nipote. Una storia affascinante ed esemplare di quanta strada possano fare i soggetti dotati di tenacia, intelligenza e creatività, applicati alla capacità di lavorare tanto e con continuità. Procediamo con ordine.
Ci troviamo a Piaggine in provincia di Salerno, nel Cilento interno, ai piedi del monte Cervati che con i suoi 1899 metri è la vetta più alta della Campania. Il nonno, classe 1911, era nato in Brasile a Corumbá nello Stato del Mato Grosso do Sul. I genitori, Giuseppe che gestiva una ditta edile e Mariantonia Di Renna, casalinga, erano emigrati in cerca di fortuna sfruttando le incentivazioni previste per la partenza. Il mondo contadino dal quale provenivano era oppresso dalla mancanza di denaro contante, che comportava il mancato pagamento delle tasse e la confisca delle proprietà. Al rientro in Italia Pietro lavora come muratore fino alla chiamata alle armi come soldato di artiglieria nella fallimentare campagna fascista dell’Africa Orientale. Sarà catturato dalle forze armate britanniche.
La prigionia di nonno Pietro
I familiari non dispongono di documentazione puntuale sul suo percorso militare. Ricordano solo gli accenni sbrigativi del padre, ed alcune foto in soffitta che documentano la sua presenza ad Addis Abeba occupata dalle forze britanniche nell’aprile 1941.
L’unica certezza è la destinazione come prigioniero nella colonia britannica della Rhodesia meridionale, l’odierno Zimbabwe, probabilmente nel 1942. Era stato il suo primo colpo di fortuna, in ragione delle tristi sorti patite dai prigionieri italiani nei Balcani, in Germania e in Russia, nell’assoluto dispregio della convenzione di Ginevra. Era stato assegnato al campo n° 3 di Gatooma (oggi Kadoma), uno dei cinque allestiti dagli inglesi. Era situato in una zona fertile e ricca di materie prime (platino, diamanti, oro, cromo, carbone e rame).
Nella città di Salisbury (oggi Harare, la capitale dello Zimbabwe) c’erano il campo n° 1 “Generale” e il n° 2 “Tanganica” che ospitavano in prevalenza tedeschi, in aggiunta a quelli di “Umvuma” (n° 4, oggi Mvuma) e “Fort Victoria” (n° 5, ora Masvingo), quest’ultimo sdoppiato con la sezione “Camp extension” destinata ad accogliere i soggetti non cooperanti e irriducibili, simpatizzanti del regime fascista, il cui numero si era incrementato dopo la caduta del fascismo e l’arresto di Mussolini (25 luglio 1943) e l’armistizio dell’otto settembre dello stesso anno. Tra i prigionieri alcuni avevano addirittura trovato un espediente per rinnovare il tesseramento al partito fascista, camuffandolo come iscrizione a un gruppo sportivo, e spesso erano in conflitto con i prigionieri badogliani e il personale di custodia. I numeri, rispetto ad altri campi (ad es. Zonderwater, vicino a Pretoria nell’odierno Sudafrica, che accoglieva circa 100.000 persone) erano alquanto esigui. “Il numero totale degli italiani rinchiusi nei campi della Rhodesia del Sud si aggirava intorno a 5.300 tra uomini, donne e bambini”, in larga parte provenienti dall’Eritrea nel periodo gennaio-aprile 1942.
Lo ha certificato Emilio Coccia, presidente dell’associazione “Zonderwater Block-Sud Africa” nel corso di un ciclo di conferenze organizzate nel maggio 2012 ad Harare. La traduzione dall’inglese è avvenuta a cura di Marzio Muraro, dirigente d’industria figlio di prigioniero di guerra, che mi consente di chiudere il cerchio delle scarne informazioni esistenti. Ha identificato, dopo un lungo silenzio, i nominativi dei prigionieri deceduti in Rhodesia, completi di dati anagrafici e campo di provenienza.
Le salme di 71 militari prigionieri, inizialmente seppellite all’interno dei campi, erano state traslate nei due transetti della chiesetta di San Francesco degli italiani, diventata monumento nazionale. La chiesa era stata costruita nell’ultimo periodo dai prigionieri nel “Camp extension” degli irriducibili, tra i quali c’erano Dante e Giovanni Muraro, papà e zio di Marzio, originari di Asiago in provincia di Vicenza.
Il primo faceva parte della milizia forestale ad Asmara, l’altro era impresario edile e realizzava lavori per il Genio civile e per la stessa milizia. Erano due soggetti di grande ingegno e inventiva, che avevano costruito persino una sorta di aliscafo, ed erano stati protagonisti di una fuga avventurosa a piedi dal campo di Gatooma, modello Alcatraz, fino a raggiungere il confinante Mozambico, ma erano stati ripresi e riportati in cattività al campo degli irriducibili. Probabilmente avevano conosciuto Pietro Macellaro nel campo di originaria assegnazione, che ospitava 1.600 persone. Marzio Muraro ha creato un blog molto interessante per i contenuti storici e culturali. Il colloquio con lui ci fa comprendere che Pietro Macellaro faceva parte di quanti cooperavano con le autorità britanniche, come dimostra il prosieguo della nostra storia.
“I prigionieri sbarcavano al porto di Durban, venivano caricati in treno e giunti al nodo ferroviario di Bulawayo venivano smistati nei campi. Erano ragazzi giovani e pieni di vita, che non resteranno inattivi e si dedicheranno ad una serie di attività, tra le quali quelle di muratore, scalpellino, sarto, calzolaio, fabbro, falegname. I miei familiari avevano costruito un tornio, con il quale realizzavano manufatti artistici”, spiega Marzio Muraro che ci descrive anche il viaggio di Pietro, facendo riferimento al diario del papà Dante che aveva curato e trascritto nel 2011 (di seguito ne riporto alcuni passi). I prigionieri venivano imbarcati sulle navi, tormentati dal caldo e dalla mancanza di cibo: “Dopo tanta tensione, sbarcammo a Durban, città portuale coloniale, circondata da una vegetazione rigogliosa e ben distribuita di piante tropicali, con giardini incantevoli, dimore signorili e palazzi stupendi”. Per raggiungere la destinazione finale, da Durban, occorrevano tre giorni in treno. “Eravamo in dieci nello scompartimento. Anche in treno il cibo scarseggiava. Una patata era un pasto; un altro pasto era un pezzo di pane grande come cinque dita. Ci dissero che c’era pure della marmellata. Si avvicinò uno con un barattolo e un cucchiaio da cucina. Versò il contenuto del cucchiaio su un piattino e aggiunse: ‘Questa è la razione per dieci’”.
L’incontro con Ferdinando Guariniello
Parlavamo in precedenza di fortuna, ma stavolta la dea bendata dà un bacio appassionato a Pietro. Succede quando nel campo di Gatooma incontra Ferdinando Guariniello, un rinomato pasticciere della altrettanto famosa pasticceria Caflisch di Napoli, attiva nella città partenopea dall’anno 1825. Era nata dal genio imprenditoriale e professionale dello svizzero Luigi Caflisch, che aveva dato vita a un’arte pasticcera raffinata e deliziosa, aprendo negozi in diverse città e riscuotendo un grande successo di pubblico e critica. I due, entrambi di origine salernitana, diventano amici e Ferdinando apre al compagno la strada della sua esistenza futura, insegnandogli i fondamentali della sua arte con generosità e senza ritrosie di sorta. “Con il beneplacito degli inglesi costruiscono un forno a legna, con il quale preparano i dolci, tra i quali morzellette, paste di mandorla. susamielli, sfogliate frolle e ricce, pan di spagna, choux alla crema, zucchero fondente.
I clienti sono i prigionieri, ma anche gli inglesi e i civili fuori dal campo” racconta Angelo, figlio di Pietro, che con pazienza ha aderito alle mie numerose sollecitazioni e fornito una imponente documentazione fotografica. La fama dei due pasticcieri amici si estende a macchia d’olio, superando di diversi chilometri il filo spinato del campo di prigionia, facendogli guadagnare stima e soldi a diversi chilometri di distanza.
Il rientro in patria
Nel 1947 Pietro e Ferdinando rientrano in patria. Partono per ultimi, per sfruttare al massimo le buone aderenze con gli ufficiali inglesi per i quali gestivano la mensa ufficiali, anche dopo che gli irriducibili del campo n° 5 “extension” furono portati in treno a Durban e imbarcati sul piroscafo “Asturias” approdato a Napoli il 21 gennaio 1947. I due amici si separano, anche se si incontreranno ogni tanto, e riabbracciano i propri cari rispettivamente a Piaggine e Mercato San Severino.
Ferdinando cambia la denominazione in Vittoria al bar pasticceria, in attività dal 1932, condotto dalla moglie Michelina Vietri con l’aiuto dei figli Roberto e Giuseppe, e continua a far parlare di sé per il talento e le sue creazioni. “Mio nonno aveva cambiato il nome in onore della Regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, e Imperatrice d’India, e della gratitudine che nutriva – dichiara il nipote, che manco a dirlo si chiama come lui –. Con i soldi e le laute mance guadagnate durante la prigionia aveva mantenuto tutta la famiglia durante il conflitto bellico”.
E poi mi rivela un particolare gustoso: “Quando gestiva la mensa del circolo ufficiali inglesi aveva avuto a che fare con il cantante Renato Carosone, che dopo la fine della guerra incontrerà a Napoli”. Carosone era andato in Africa nel 1937 (esibendosi a Massaua, Asmara e Addis Abeba) e, dopo la dichiarazione di guerra del duce a Francia e Inghilterra del 10 giugno 1940, fu arruolato nel terzo battaglione granatieri nella capitale etiopica.
Dal suo canto Pietro abbandona immediatamente l’idea di riprendere il lavoro di muratore. L’unica aspirazione oramai è valorizzare le conoscenze e i trucchi del mestiere appresi da Ferdinando. Non è un’operazione semplice in un paesino delle zone interne campane, distante dai grandi centri e dal capoluogo. Mancavano attrezzature e materie prime e persistevano forti dubbi su chi avrebbe acquistato i prodotti, in un dopoguerra dominato dalla precarietà economica e dalle incertezze nel futuro.
Pietro non si perde d’animo, si indebita e nel 1948 compra il primo forno elettrico, uno sbattiuova professionale e la raffinatrice di mandorle. I primi dolci sono in numero limitato, ma genuini e di grande qualità. Nel novembre 1948 si sposa con Filomena Conte e, durante il giro di nozze nel natìo Brasile, decide di fermarsi assalito dalla saudade e dalla necessità di far soldi per pagare i debiti contratti. In Brasile può contare sull’appoggio delle tre sorelle, che non erano rientrate in Italia: Rosina, morta prematuramente, Filomena ed Elide, quest’ultima scomparsa un mese fa alla veneranda età di 101 anni. Il marito di Elide, Amedeo Di Perna, gestiva quattro cinema nella stessa città.
Il pasticciere Macellaro si concentra sulla preparazione delle sfogliatelle, diventando uno dei pionieri nella diffusione di questo dolce nella città di San Paolo. Le sue sfogliatelle, distribuite dai collaboratori con le ceste nei bar e sui mezzi di trasporto della città, vanno a ruba. Un successo economico che gli consente di rientrare in Italia nel 1952 e pagare i debiti. Aveva comprato un terreno a Piaggine, rimesso temporaneamente gli abiti da muratore e costruito la sua abitazione e il laboratorio con punto vendita in corso Umberto I. La pasticceria Macellaro, la prima dell’alto Cilento, apre e il sogno prende forma. La gestirà per 46 anni fino al 1998, anno nel quale farà dono della ditta al nipote omonimo. I dolci di Pietro erano prodotti di qualità superiore, una miscela di materie prime selezionate, passione e creatività. Il campionario era pressoché infinito, dalla classica pasticceria napoletana ai dolci della tradizione cilentana.
I cilentani avevano un debole per la sua pasta di mandorle. La classica guantiera, ripiena di dolci, era un segno di gioia, che accompagnava i giorni festivi e le occasioni liete delle famiglie cilentane, a partire dai matrimoni. La pasta di mandorle ho continuato ad acquistarla, quando mi sono trasferito a Salerno per gli studi e al nord per lavoro, rimanendo puntualmente deluso nel confronto con quella di zì Pietro come rispettosamente lo chiamavamo. Sono ancora un acquirente seriale, presso lo storico locale del civico 10 di corso Umberto I, attualmente gestito da Rozilda Tavares, originaria di Belo Horizonte in Brasile, con la quale il figlio Angelo si è sposato dopo essere rimasto vedovo e dalla quale ha avuto la figlia Filomena Giada. Angelo ha esercitato, prima del pensionamento, l’attività di insegnante di educazione fisica nelle scuole del salernitano. È nato a Piaggine come il fratello Giuseppe.
Il sogno continua
Il 28 giugno 1966, con provvedimento del Comandante del distretto militare di Salerno, viene concessa la Croce al merito di guerra a Pietro Macellaro. Nel 1998 dona la ditta al nipote omonimo, nel dicembre 2006 passa a miglior vita.
Il nipote Pietro si è mosso nel segno della continuità e dell’innovazione. Ha capito che una pasticceria raffinata, partendo dalla qualità e dalle materie prime del territorio, deve prendere il largo per intercettare un mercato più ampio e una domanda disponibile ad apprezzare le innovazioni e le infinite creazioni che un buon artigiano può ricavare dal suo estro e dal percorso di ricerca. Il premio di miglior pasticciere del mondo, assegnato nel 2023 nel corso di Host Milano (la fiera internazionale dedicata alla ristorazione e all’accoglienza), è una tangibile conferma che c’è riuscito. “I miei dolci sono unici perché raccontano me, i profumi e i sapori della mia terra semplice e spoglia ma al tempo stesso anche ricca e variopinta. Gli ingredienti sono ricercati e inimitabili, espressione di una biodiversità composita e discreta” sostiene. I 4 principi ai quali si ispira nelle sue creazioni sono l’estetica, la qualità, la tecnica e l’emozione. I panettoni, il panbrigante, le infinite creazioni in cioccolato, la pralineria vincitrice ai mondiali dell’International Chocolate Awards, la pasticceria agricola cilentana sono i frutti maturi di un linguaggio e di un’identità nuovi nel mondo dell’arte pasticcera. Gli ordinativi di acquisto arrivano da mezzo mondo, probabilmente anche dallo Zimbabwe dove forse aleggia ancora l’anima di nonno Pietro.
Silvio Masullo
Pubblicato lunedì 4 Novembre 2024
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/pietro-macellaro-e-quellarte-pasticcera-da-un-campo-di-prigionia-alle-vette-mondiali/