La strage del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura di Milano fu uno degli eventi più drammatici ed inquietanti che si verificarono negli anni 60. Prima vi era stata la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947, che fu la prima tragedia dell’Italia repubblicana ad opera della banda criminale di Salvatore Giuliano e che aveva come motivazione una strategia della tensione sulla base di un disegno politico mafioso.
Dopo la strage di Piazza Fontana, ove aveva sede la Banca dell’Agricoltura, vi furono le stragi del 1974, al treno Italicus ed a Piazza della Loggia a Brescia. Nel 1980 vi fu la strage più sanguinosa allorquando il 2 agosto esplose una bomba alla stazione ferroviaria di Bologna, provocando 85 morti. Nel 1984 si verificò un’altra strage sulla linea ferroviaria Firenze-Bologna, sul treno “Rapido 904”, organizzata dalla mafia e che provocò 17 morti. Tutte le stragi hanno avuto o la matrice della criminalità mafiosa oppure la presenza tra gli imputati di esponenti della destra eversiva fascista e di ufficiali dei servizi segreti.
L’eccidio di Piazza Fontana fu un evento che sconvolse il Paese, perché non era semplice individuare i responsabili e soprattutto i mandanti. Le indagini condotte da magistrati di straordinario valore professionale ed etico condussero all’accertamento di gran parte della verità malgrado le resistenze ed i depistaggi operati da uomini non fedeli alle istituzioni. La storia del processo di Piazza Fontana è a dir poco stupefacente.
La prima competenza fu attribuita alla magistratura milanese, che aveva iniziato con solerzia ed intelligenza le prime indagini. Il processo fu trasferito a Roma, ove l’istruttoria si indirizzò esclusivamente sugli anarchici. Nella fase preliminare delle udienze avanti la Corte di Assise di Roma, il processo fu di nuovo trasferito a Milano, ma qui il procuratore della Repubblica ed il prefetto, sorprendentemente, asserirono che la città lombarda era una sede rischiosa per la celebrazione del processo, e la Corte di Cassazione trasferì il processo avanti la magistratura di Catanzaro.
Il processo ebbe inizio nel 1973 e quando ormai era al termine della istruttoria dibattimentale e si era prossimi alla discussione e quindi alla decisione, fu interrotto per intervento di un difensore di parte civile il quale sostenne che nuove indagini avevano individuato altri responsabili veneti e quindi il processo fu sospeso e dovette iniziare di nuovo da capo. Va ricordato, però, che altri magistrati, nei confronti dei quali occorre avere il più profondo rispetto e la più sentita gratitudine, avevano ampliato la ricerca della verità orientandosi verso organizzazioni di estrema destra. I primi furono il Pubblico Ministero Pietro Calogero ed il Giudice Istruttore Stiz, magistrati di Treviso, che individuarono nella cellula neonazista di quella città i responsabili della strage del 12 dicembre 1969. Il Dott. Calogero, allora PM di 28 anni, al suo primo incarico, e il Dott. Stiz scoprirono avvalendosi di un testimone inconfutabile le responsabilità di esponenti di Ordine Nuovo. Ma non solo questo.
Infatti anni dopo il Dott. Calogero ebbe a dichiarare: “manca un’assunzione di responsabilità della Repubblica, anzi di colpa, perché si deve riconoscere che organi dello Stato ostacolarono, depistarono, coprirono: una manovra orchestrata.”
Da Treviso le indagini ripresero a Milano, e anche qui due magistrati Emilio Alessandrini e Gerardo D’Ambrosio svolsero indagini sulle responsabilità di esponenti dei servizi deviati. I risultati furono straordinariamente rilevanti. Ma ancora una volta intervenne la Corte di Cassazione per sottrarre il processo a Milano e trasferire gli atti a Catanzaro. Non si può dimenticare che Emilio Alessandrini, pur di lasciare traccia del lavoro svolto, la notte prima dell’invio degli atti alla nuova sede scrisse a mano una requisitoria di oltre cinquanta pagine che fu di particolare utilità all’istruttoria calabrese. Va anche detto che malgrado depistaggi e ostacoli di ogni tipo frapposti da alcuni magistrati ed alcuni esponenti di forze dell’ordine, nulla impedì che altri magistrati ed altri agenti delle forze dell’ordine lavorassero per cercare la verità, da Treviso, a Milano, a Catanzaro.
La Corte di Assise di Catanzaro lavorò con un impegno ed un coraggio che, per chi non conosceva quella magistratura, apparve sorprendente. Anni di dibattimento portarono alla luce verità inquietanti. L’allora questore di Milano fu processato per reticenza in quanto non seppe o non volle spiegare le ragioni per le quali individuò in Valpreda il possibile imputato, mostrando al testimone Rolandi una foto assolutamente improbabile. Le cronache ricordano che quando il Presidente della Repubblica Pertini si recò in visita a Milano non volle salutare e stringere la mano a colui che durante il fascismo era stato il direttore del confino ove era trattenuto l’esponente socialista. Nel corso del dibattimento furono ascoltati i maggiori esponenti politici, i quali diedero di sé un’immagine a dir poco imbarazzante per inefficienza ed incapacità di governare un momento così drammatico. Sempre ammesso che abbiano detto tutta la verità. Fu disposto l’arresto, dopo la sua escussione, del Procuratore Generale militare. Insomma il dibattimento non lasciò nulla di intentato e giunse alla condanna all’ergastolo per gli imputati neofascisti e all’assoluzione per gli anarchici. Poi l’appello, la Cassazione ed il nuovo giudizio di rinvio modificarono quella sentenza, ma sostanzialmente rimase invariato il quadro delle responsabilità dirette o indirette che provocarono la strage alla Banca dell’Agricoltura.
Successivamente in un giudizio avanti la Corte di Cassazione, ulteriori margini di verità sono emersi a carico degli esponenti neofascisti, ma essendosi ormai determinato il cosiddetto principio del “ne bis in idem”, non fu possibile modificare una decisione che ormai era passata in giudicato. Alcune riflessioni vanno fatte ricordando questa lunga storia processuale. Innanzitutto l’inefficienza e la dipendenza dei vertici della magistratura e delle forze dell’ordine dalle indicazioni che venivano dalla politica. Ci sono voluti molti anni perché crescesse il rispetto del principio costituzionale di autonomia e di indipendenza della magistratura. Si poteva però prendere esempio da quei magistrati i quali seguirono con intelligenza i doveri derivanti dal rigore professionale insito nelle funzioni giurisdizionali esercitate. Tutta la verità certamente non è emersa, ma a questi dobbiamo quella parte di verità che abbiamo conosciuto malgrado i depistaggi e gli ostacoli che sono stati loro frapposti.
Guido Calvi, avvocato, politico, docente universitario, membro del Csm. Fu avvocato di parte civile nel processo per l’assassinio di Pier Paolo Pasolini. Difese fra l’altro il prigioniero politico cileno Luis Corvalan, il perseguitato politico greco Alexandros Panagulis. Difese Pietro Valpreda nel 1969 e le parti civili nei processi per le stragi di piazza della Loggia a Brescia, della stazione di Bologna e del rapido 904
Pubblicato venerdì 15 Gennaio 2016
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