A poche settimane dalla scomparsa di Claudio Pavone, abbiamo chiesto al professor Gabriele Ranzato un profilo del grande storico, ricordato nel precedente numero di Patria indipendente da Carlo Smuraglia (http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/servizi/la-dolorosa-scomparsa-di-uno-storico-di-razza/). Nello stesso numero abbiamo pubblicato un’intervista concessa da Claudio Pavone a Patria indipendente nel 2013 (http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/interviste/claudio-pavone-partigiano-docente-e-studioso-la-sua-voce/).
Benché giovane ufficiale, addestrato all’uso di pistola e moschetto, Claudio Pavone si può considerare un esempio di “Resistenza senz’armi”, poiché ha attraversato tutta la vicenda della nostra Guerra di Liberazione senza sparare un solo colpo. In licenza nella sua casa di Roma, dopo l’8 settembre si era sottratto alla chiamata di Graziani, e in clandestinità era entrato insieme all’amico Giuseppe Lopresti nel Partito Socialista, in un gruppo che faceva capo a Eugenio Colorni. Fu assegnato all’attività di propaganda, che prevedeva anche l’umile ma pericolosa opera di distribuzione dell’Avanti!, volantini e altra stampa del partito, in ogni angolo – panchine dei giardini, cinema, cassette delle lettere – della zona cui apparteneva. E fu così che un giorno dell’ottobre 1943, attardatosi nel compiere il suo incarico fin quasi all’ora del coprifuoco, ebbe la cattiva idea di liberarsi del materiale che gli era restato gettandolo all’interno di una macchina apparentemente incustodita, che invece si rivelò essere l’auto personale di un alto funzionario della polizia, le cui guardie, appartate in un portone, lo arrestarono immediatamente.
Forse quell’arresto impedì che egli seguisse la sorte sventurata di quei suoi compagni, i quali caddero nei mesi successivi, Lopresti assassinato alle Fosse Ardeatine, Colorni colpito a morte in strada da uomini della banda Koch. Perché, sebbene sottoposto a stringenti interrogatori senza che rivelasse nulla, non fu però mai consegnato ai tedeschi, e, recluso a Regina Coeli, alla fine di dicembre venne trasferito insieme a un altro gruppo di detenuti a nord, nel carcere di Castelfranco Emilia, dove rimase fino al mese di agosto, quando fu scarcerato con la condizione che si presentasse al distretto di Milano per prendere servizio nell’esercito della Repubblica Sociale. Nel capoluogo lombardo naturalmente si diede alla clandestinità grazie alla protezione di uno zio, ma non aveva nessuna relazione personale che gli permettesse di reinserirsi nel Partito Socialista. Così, rintracciato da un vecchio compagno di università che militava in una piccola formazione antifascista, il PIL (Partito Italiano del Lavoro) di area repubblicano-socialista, vi entrò a far parte e vi svolse fino alla Liberazione un’opera di elaborazione, propaganda e diffusione della stampa quel partito.
Si potrebbe ritenere che quella condotta gli fosse ispirata da un pacifismo assoluto. Ma non è così, perché Pavone capiva chiaramente che quella contro il nazi-fascismo era la più giusta della guerre in cui era in gioco il destino di tutti i popoli europei e in prospettiva dell’intera umanità. Tanto che negli ultimi anni della sua vita, riandando ai ricordi di quel periodo, non si è fatto scudo né della sua personale non violenza, né del coraggio che comunque allora ci voleva per affrontare anche i compiti meno guerrieri dell’attività resistenziale, ma ha scritto che la rivalutazione che la storiografia aveva fatto della Resistenza disarmata non gli sembrava «sufficiente a eliminare tutte le domande che mi pongo sul mio comportamento di astensione dalla lotta armata: e se ci fosse entrata anche la paura?» (La mia Resistenza, Donzelli 2015).
Un esempio di schiettezza ma anche espressione di un grumo di interrogativi, di riflessioni, a volte intimamente conflittuali, che sono alla base di un’attività di ricerca che lo ha portato ad essere uno degli storici di più alto valore, forse il maggiore, della Resistenza italiana. Perché Pavone fin dal dopoguerra ha intrapreso una vita di grande operosità e di impegno civile, prima come archivista, che lo ha portato a promuovere e realizzare la Guida generale degli archivi di Stato italiani, una raccolta preziosissima per tutti i ricercatori, poi come professore di storia contemporanea all’Università di Pisa, ma soprattutto come studioso di storia italiana, alla cui conoscenza ha dato importanti contributi su diversi temi, tra i quali emergono quelli relativi all’amministrazione del Regno d’Italia negli anni della sua costituzione e quelli riguardanti la continuità dello Stato tra Regime fascista e Repubblica democratica. Ma non c’è dubbio che la sua opera fondamentale, elaborata durante lunghi anni, è stata il libro Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri 1991) che ha conosciuto un’ampia diffusione molto oltre l’area degli appassionati e cultori di studi storici.
Oggetto al suo apparire di diverse controversie, soprattutto per quel titolo che sembrava riassumere in sé tutto il significato della Resistenza e convalidare gli intenti denigratori con cui i fascisti nel dopoguerra continuarono a chiamarla, il libro in realtà si articolava intorno alla tesi delle tre guerre – di liberazione, di classe e civile – per le quali, in diversa miscela e proporzione, si erano battuti coloro che ne erano stati protagonisti. Non è che Pavone intendesse togliere all’espressione “Guerra di Liberazione” la funzione di sinonimo di Resistenza che essa giustamente occupa, ma avversava l’uso riduttivo a cui non pochi la torcevano come esclusiva lotta contro l’occupazione tedesca, mentre essa era stata anche e soprattutto una lotta contro il fascismo e i fascisti italiani – molti per scelta ideologica e non divenuti “stranieri” per il solo fatto di essersi messi al servizio dei tedeschi – che si configurava allora come una guerra civile, non come la guerra civile dei neofascisti che in essa esaurivano tutto il senso della lotta partigiana.
Non si può condensare qui tutta la ricchezza di temi, di riflessioni e problemi che il libro contiene. Ma si può accennare – oggi che Claudio Pavone ha chiuso la sua lunga e intensa vita – ad un importante punto di raccordo tra essa e la sua principale opera di storico. In questo volume alla violenza della guerra civile, tanto quella fascista che quella partigiana, viene dedicato un capitolo molto ampio, ed è un tema che riaffiora spesso anche in altre sue parti. Quello che di personale sembra essere sotteso alla trattazione è soprattutto il dilemma del partigiano, che, al contrario di un soldato coscritto, decide di uccidere volontariamente, assumendosene l’intera responsabilità. Egli ricorda in quelle pagine che a tale proposito Lopresti gli aveva detto che, presa quella decisione, «la possibilità di essere uccisi appare soprattutto come un pegno dato alla propria coscienza di fronte al diritto che ci si riconosce di uccidere». Quella scelta probabilmente lui non ha avuto neppure l’opportunità di farla, ma la sua grande rettitudine gli impediva di eludere il problema. Così nella sua piccola autobiografia di resistente, vi tornava sopra scrivendo: «Ripensando ai discorsi fatti con Lopresti sull’uccidere e l’essere uccisi, io forse ero fra quelli di cui parla Roberto Battaglia in Un uomo, un partigiano, e di cui la storia fornisce tanti esempi, per i quali è più facile essere uccisi che uccidere». Non era una giustificazione, ma il riconoscimento di una dimensione personalmente antieroica della Resistenza che implicitamente valorizzava la scelta di coloro che invece avevano preso le armi, e che Pavone senza dubbio ammirava.
Gabriele Ranzato, già Ordinario di Storia contemporanea all’Università di Pisa
Pubblicato lunedì 19 Dicembre 2016
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