21 gennaio 1921, Livorno. La minoranza del Psi riunito in congresso al teatro Goldoni si scinde e spostandosi al vicino teatro San Marco dà vita al Partito comunista italiano. Sono cent’anni che è nato il Partito comunista italiano e quasi esattamente trenta che si è sciolto. Una distanza di tempo che dovrebbe permettere di valutare l’impronta che ha lasciato nella storia italiana con equanimità e senza il sovraccarico delle passioni ideologiche che spesso hanno inquinato lo stesso dibattito storiografico.
Il Pci nasce nel 1921 da una scissione, dolorosa e fondata su un’ipotesi rivelatasi sbagliata: è stato concepito per guidare una rivoluzione ritenuta alle porte, e invece nasce e cerca di consolidarsi in una situazione che non solo rivoluzionaria non lo è più, ma è caratterizzata dall’insorgere di una forma di reazione inedita: il fascismo.
Costretto così fin dalla sua nascita a fare i conti con il fascismo, il Pci riceve una specie di imprinting antifascista che lascia una traccia indelebile nella sua storia.
Anche se critico radicale della democrazia parlamentare borghese e fautore della dittatura del proletariato, ben presto è inevitabilmente costretto a considerare la lotta per la riconquista della democrazia in modo diverso dagli altri partiti comunisti, che hanno come obiettivo di abbatterla.
Dopo il 1926, quando il fascismo instaura una dittatura aperta, proprio la scomparsa di ogni spazio di democrazia gli fornisce, diremmo quasi suo malgrado, un atout che prima non aveva: ne fa cioè non il partito “antisistema” per eccellenza, ma una tra le altre forze d’opposizione a un regime liberticida, e anzi la più decisa e la più militante. E siccome la convinzione che solo una rivoluzione potrà rovesciare il fascismo diventa presto patrimonio comune delle componenti più vitali dello schieramento d’opposizione al regime, il Partito comunista italiano acquisisce una legittimazione democratica che altri partiti comunisti non hanno, o si conquisteranno solo più tardi.
Questo non vuol dire che non commetta inizialmente gravi errori nel giudizio sulla natura del fascismo; né gli impedisce di chiudersi a lungo settariamente alla collaborazione con gli altri partiti antifascisti, che per quasi un decennio considera più nemici da smascherare e da combattere che alleati con i quali confrontarsi. Il “legame di ferro” che stabilisce con l’Unione sovietica, e che è per un ventennio condizione della sua stessa sopravvivenza, lo rende prigioniero di scelte a volte aberranti. È sorprendente che malgrado tutto questo il Pci riesca a non smarrire del tutto i propri collegamenti con il Paese, a mantenere viva una trama di opposizione al regime. Lo dicono i numeri: tra il 1926 e il 1943 vengono processati dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato 5.620 imputati, di cui 4.596 sono condannati. Di questi, tre quarti sono comunisti.
Identificato dal fascismo come il principale nemico, quando Mussolini cade il Pci finisce per beneficiare del rancore contro il regime accumulato da un numero crescente di italiani specialmente negli anni della guerra.
Inoltre, quando gli ex-alleati tedeschi si insediano come occupanti in metà del Paese, sono i comunisti – combattivi, disciplinati e sperimentati dalla lotta clandestina e in molti casi dalla guerra di Spagna – a proporsi come i quadri più decisi ed efficienti nella lotta partigiana, a organizzare la sua iniziale spontaneità, a trovare nello scontro diretto con i tedeschi e i fascisti repubblichini il terreno più propizio per esaltare le loro qualità.
Tra l’autunno del 1943 e l’inverno del 1945 saranno oltre 50.000 i partigiani inquadrati, in montagna, nelle Brigate Garibaldi, e di militanti del Pci è costituita anche l’ossatura dei Gap e delle Sap operanti nelle città.
E i comunisti sono anche, non dimentichiamolo, la forza trainante nell’organizzazione della protesta economica e sociale, che si rinnova con gli scioperi operai del novembre-dicembre 1943 e del marzo 1944.
Questi risultati sono resi possibili da due scelte politiche alla fine lungimiranti. Una è quella che Togliatti impone al suo ritorno in Italia nel marzo del 1944, cioè quella di privilegiare, rispetto alla disputa sulla questione istituzionale, l’unità nazionale nella conduzione della guerra contro i tedeschi e la Repubblica sociale: una scelta che è certo in consonanza con le direttive della politica estera sovietica, ma ha l’effetto di legittimare il Pci come forza di governo ed elemento fondativo della democrazia rinascente.
L’altra è quella non meno importante di aprire il partito all’adesione più ampia possibile di militanti, basata solo sull’accettazione del programma politico, indipendentemente dalla fede religiosa professata e dalle “convinzioni filosofiche”.
Con queste credenziali il Pci si candida ad esercitare un ruolo insostituibile nella costruzione dell’Italia democratica. E vi riesce: grazie ancora una volta alla capacità di farsi interprete dell’antifascismo non solo come barriera contro ogni possibile ritorno reazionario, ma come un programma incentrato su riforme economiche e sociali ispirate a una concezione allargata della cittadinanza.
In questo senso, l’impegno profuso dai comunisti nei lavori dell’Assemblea costituente e lo sforzo tenace di definire un “progetto di Stato” elaborato unitariamente con le forze che hanno fatto parte dello schieramento antifascista si rivelano scelte di fondamentale importanza. Per molti anni il problema della difesa e dell’attuazione della Costituzione si pone al centro della lotta politica italiana, e anche le lotte sociali guidate dai comunisti hanno come principale punto di riferimento le norme programmatiche della Costituzione: si rovescia così la concezione tradizionale dello Stato italiano che voleva necessariamente collegate con la sovversione le aspirazioni dei ceti subalterni, e ne deriva per il Pci una legittimazione democratica più forte delle velleità di escluderlo dalla legalità.
In virtù di questo rovesciamento, il Pci svolge una funzione di educazione civile e di nazionalizzazione che riprende su scala molto più ampia quella che era stata propria del Partito socialista dalla fine del secolo alla prima guerra mondiale. Contribuisce di fatto in modo decisivo a difendere e assicurare lo sviluppo della democrazia parlamentare, che in Italia dal 1948 in poi è minacciata molto più “da destra” che da sinistra. In forza di questo i suoi militanti sono educati e a loro volta educano a un costume democratico che rappresenta un grande fenomeno di crescita civile, trasformando milioni di “sudditi” o di “ribelli” in cittadini. Sotto la guida di un leader che aveva vissuto i tempi di ferro e di fuoco e gli orrori dello stalinismo, il Pci di fatto si converte gradualmente a un modello di società che assume sempre più i connotati di quello di una avanzata democrazia parlamentare.
Questo percorso ha prodotto un paradosso, in virtù del quale proprio la capacità del Pci di rinnovare le proprie forme di organizzazione e di aprire la sua stessa ideologia al cambiamento da un lato lo ha preservato dal rischio della ghettizzazione cui non sono sfuggiti i «partiti fratelli», dall’altro lo ha reso troppo forte e temibile perché – finché durava la logica bipolare delle relazioni internazionali – gli fosse consentito l’accesso al governo del Paese.
È proprio quando la fine della guerra fredda sembrava aver svuotato questa logica, il Pci si è venuto a trovare sotto attacco per un altro motivo. Il trionfo del neoliberismo e l’esaurirsi – su scala internazionale – dell’energia positiva che i principi dell’antifascismo avevano sprigionato sul terreno economico e sociale hanno aperto in Italia la strada al tentativo di trasformare la motivazione antifascista e il legame con la Resistenza alla base della Costituzione in un’appendice secondaria, di cui possibilmente disfarsi o al massimo da richiamarsi ritualmente.
Il Pci, che ha voluto indissolubilmente legare la sua legittimazione alla difesa della Costituzione repubblicana, è diventato, con il pretesto del suo passato stalinista, il bersaglio più visibile del lavorìo che mirava ad erodere l’impianto costituzionale. Alla fine degli anni 80 l’implosione del sistema dei Paesi socialisti e la concorrente crisi della socialdemocrazia – della quale in qualche misura aveva svolto le funzioni in Italia – hanno eroso i fondamenti della sua cultura politica e ne hanno di fatto sancito l’esito, aprendo un vuoto nel quale è stato risucchiato l’intero sistema dei partiti che si era configurato in Italia dopo la Liberazione. Da questo vuoto la democrazia repubblicana stenta tuttora ad uscire.
Aldo Agosti, professore emerito di Storia contemporanea Università di Torino
Pubblicato giovedì 21 Gennaio 2021
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