Quanto è pericolosa e sovversiva la cultura? Quanto possono essere minacciosi per un regime una poesia, una canzone, un disegno? La paura che i cittadini comuni si informino o che i giornalisti esercitino il diritto di critica, che i ragazzi vadano a scuola o che facciano domande fa modificare le leggi, fa distorcere e azzerare i diritti, rende ciechi e vendicativi i potenti.
Il caso della Turchia, governata da quasi un ventennio da Erdoğan, fa scuola: è la più grande prigione al mondo per giornalisti.
In principio grande ammaliatore dell’Occidente e dell’Europa con la sua democrazia in salsa islamica, oggi Recep Tayyip Erdoğan è un despota illiberale che ricatta Bruxelles e continua a condurre due guerre al di fuori dei confini della Turchia, in Siria del Nord – con l’obiettivo dichiarato di sterminare i curdi – e in Libia per aumentare la sua influenza nel Mediterraneo.
Quando nel 2016 ci fu un tentato colpo di Stato nel Paese della Mezzaluna lo scaltro Erdoğan lo definì un vero e proprio “dono di dio” perché gli permise di dare avvio a un mastodontico repulisti dei suoi avversari politici, nemici, ex amici. Così le già sovraffollate carceri turche – prima di quella data erano già piene di curdi, di donne e di bambini, di rappresentanti delle minoranze e dissidenti – da quel momento hanno iniziato a popolarsi sempre più: sono stati reclusi oppositori politici anche turchi, scrittori noti al grande pubblico, persone che avevano semplicemente osato criticare l’uomo solo al comando e il suo ristretto gruppo di fedelissimi che crescevano a suon di appalti nell’edilizia e incarichi nella difesa o nel governo.
I processi farsa, le accuse palesemente incredibili o montate ad arte, i continui pretesti per arrestare chiunque e su tutti l’imputazione di “terrorista”, per lunghi anni riferito solo ai curdi, ora si allarga a macchia d’olio nella società. Oggi la maggior parte degli oppositori del Presidente sono in carcere, anche chi osa cantare in curdo – lingua della più consistente minoranza della Turchia e fino al 1991 ufficialmente bandita – proprio come accadeva ai vecchi tempi, cioè dalla fondazione della Repubblica nel 1923 e poi con il susseguirsi dei golpe militari.
Che storia è questa a due passi dall’Europa e da casa nostra? Perché non ci indigna più? “Quando ho la pancia piena mi preoccupo di mio fratello” scriveva Alda Merini e ora che la pandemia del Covid-19, e il periodo di crisi economica in cui siamo già immersi non ci permettono di volgere lo sguardo altrove, il presidente turco aumenta indisturbato la repressione. Coprifuoco e stato d’emergenza sono la regola. Per il rischio sanitario sono stati liberati 90mila detenuti, ma solo criminali comuni, accusati di reati gravi.
“Se non hai tenuto per il braccio / una persona che è stanca ed esausta / Se non consoli qualcuno / Se a quelli che dicono “acqua” non gliel’hai data /Non hai nessun senso / Sulle linee della fronte / Al bagliore nei tuoi occhi / Sei in debito con la vita”. Questo è un brano tratto dalla canzone “Sei in debito” della band Grup Yorum sotto processo per terrorismo. Durante questo periodo di pandemia si sono lasciati morire di fame tre esponenti di questo storico gruppo molto seguito e apprezzato, attivo dal 1985. Helin Bölek, Mustafa Koçak e da ultimo il bassista Ibrahim Gökçek sono morti da perseguitati. Anche Grup Yorum, nei partecipatissimi concerti intonavano Bella ciao, la canzone dei partigiani italiani divenuta in tutto il mondo simbolo di libertà.
Giovani che fanno musica, che cantavano le storie degli ultimi, degli operai, delle ingiustizie in una Turchia ferita e disperata nascosta dal luccichio dei nuovi grattacieli e dei centri commerciali. Sulla loro testa pendeva una taglia di 42mila dollari, due membri del gruppo esuli in Francia hanno ottenuto l’asilo politico. Sono questi ragazzi artisti i nemici di Erdoğan, i cosiddetti terroristi, coloro che mettono in pericolo la sicurezza nazionale. Al funerale di Gökçek la polizia ha sparato lacrimogeni e proiettili di gomma, il corpo del bassista è stato sequestrato (gruppi di fascisti hanno minacciato comunque di rubarne le spoglie e di bruciarle), ci sono stati molti arresti tra cui le due avvocate del musicista.
La persecuzione della band – che si è ispirata agli Inti-Illimani dei primi anni 80 – e del loro centro culturale Idil a Istanbul va avanti da tempo, con il divieto di tenere concerti da quasi cinque anni (permesso accordato poi dalla polizia per il prossimo 3 luglio). L’udienza del processo contro due membri del Grup Yorum, il percussionista Bergün Varan e la cantante Sultan Gökçek, vedova del bassista Ibrahim, si terrà a metà luglio.
In prigione si trova anche Nûdem Durak, artista e musicista curda che ha osato cantare nella sua lingua armata di una chitarra. Arrestata nel 2015, è stata accusata di propaganda terroristica e condannata a 19 anni di carcere. Anche questa storia è al centro di una campagna di solidarietà internazionale: pochi giorni fa dalle pagine di Le Monde la cineasta Carmen Castillo ha invitato alla mobilitazione per la liberazione di questa ragazza in cella di isolamento unicamente solo per aver cantato nella sua lingua madre. Lo scrittore algerino Yasmina Khadra, Angela Davis, Peter Gabriel, il regista britannico Ken Loach, Noam Chomsky e tanti altri in queste ore stanno sostenendo l’appello per la sua liberazione. L’Anpi per voce della presidente nazionale, Carla Nespolo, si è unita alla protesta: «Seguo con apprensione e sconcerto quello che sta avvenendo in Turchia – ha dichiarato la presidente dei partigiani – L’Italia e l’Europa hanno il dovere di intervenire. Faccio appello alle forze democratiche, al Ministro degli esteri, al governo: non è più tollerabile assistere a questo scempio dei diritti umani continuando a fare affari con la Turchia di Erdoğan. Mai più questa colpevole indifferenza!».
È impossibile elencare tutte le personalità del mondo dell’arte, della cultura, della politica e dell’impegno sociale che in questo momento sono in prigione in Turchia, senza un giusto processo e con accuse palesemente false. Ricordiamo la vicenda di Zehra Doğan, artista e giornalista curda che ha scontato quasi tre anni di carcere per aver postato sui social network un suo disegno che mostrava la guerra di Erdoğan contro i curdi. Lo scorso anno, Patria l’aveva intervistata. Anche allora molti artisti e intellettuali in giro per il mondo mostrarono il loro sostegno a questa giovane donna curda, l’ennesima persona incarcerata ingiustamente in Turchia.
E solo per citare alcuni, sono ancora in carcere lo scrittore turco di fama mondiale Ahmet Altan accusato di aver “collaborato volutamente e intenzionalmente con un’organizzazione terroristica” (le sue memorie difensive Tre manifesti per la libertà, oltre ad alcuni suoi romanzi, sono disponibili in italiano), il filantropo Osman Kavala e quasi tutti i dirigenti del partito di opposizione Hdp (Partito democratico dei popoli). Tra loro, detenuto in attesa di giudizio, c’è Selahattin Demirtaş che sfidò il sultano Erdoğan alle elezioni presidenziali del 2018.
Più di recente sono stati rimossi cinque sindaci eletti con l’Hdp e una ventina sono in carcere nonostante fossero stati regolarmente eletti; al loro posto ci sono dei commissari straordinari. Durante gli anni 80 e 90 del secolo scorso in Turchia le prigioni sono state anche una scuola perché proprio in carcere, malgrado la tortura e l’isolamento, molti curdi hanno studiato per la prima volta il curdo, si sono trovati insieme e si sono organizzati politicamente. In carcere sono nati molti intellettuali, artisti e scrittori. Anche oggi la migliore società civile turca è dietro le sbarre; non ci sono più i militari al potere ma non sembra cambiato molto dalle vecchie stagioni del terrore di qualche decennio fa.
Antonella De Biasi. Giornalista e saggista. È stata redattrice del settimanale La Rinascita della sinistra. È coautrice e curatrice di Curdi (Rosenberg & Sellier 2018)
Pubblicato venerdì 29 Maggio 2020
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