Nell’estate del primo governo gialloverde e delle polemiche legate all’attracco nei porti italiani di navi mercantili o di Ong che soccorrono uomini, donne e bambini in mare è necessario allargare il nostro sguardo e dare un’occhiata ai numeri e capire dove sono le persone che si spostano. Qui in Italia il movimento maggiore è quello di uscita e non di entrata, dei tanti cittadini che ogni anno decidono di andare via per cercare lavoro, per realizzarsi, per crescere, per farsi una nuova vita.
Le persone migrano dalla notte dei tempi, è un fatto storico. E in Italia si stanno spostando da qualche anno moltissimi italiani per emigrare all’estero, in numero maggiore rispetto ai rifugiati o migranti economici che arrivano nel nostro Paese. Dal 2010 non si è mai fermata la crescita degli espatri di connazionali. Non sono più soltanto giovani laureati che vanno via, ci sono interi nuclei familiari che decidono di cambiare vita per offrire un futuro più dignitoso ai loro figli o semplicemente più opportunità.
Di questo movimento di persone che si spostano verso le destinazioni più diverse fanno parte anche gli over 50 oppure i lavoratori meno qualificati e non ci sono più soltanto gli italiani del sud e delle isole – che storicamente sono stati quelli che hanno formato le comunità di emigrati più numerose nei vari Paesi di approdo – ma anche italiani delle regioni del nord e del centro.
Come si legge nell’ultimo Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes, dal 2016 al 2017 la mobilità italiana è aumentata del 60,1%, passando da poco più di 3 milioni a quasi con 5 milioni di iscritti nei registri dell’Aire (l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero). Al primo gennaio 2017, infatti, gli italiani residenti fuori dei confini nazionali e iscritti all’Aire sono 4.973.942, cioè l’8,2% degli oltre 60,5 milioni di residenti in Italia alla stessa data. Sono circa dieci anni che questi numeri aumentano a ritmo costante a causa della crisi economica, è una emigrazione silenziosa di cui la politica non si occupa. Questa è l’ultima ondata migratoria italiana partita appunto nel 2006-2007 che, come si spiega nel rapporto Migrantes, «diventa unidirezionale, dall’Italia verso l’estero, con partenze sempre più numerose e ritorni sempre più improbabili».
Tenendo presente sempre le iscrizioni all’Aire tra gennaio e dicembre 2016 citate nel rapporto, oltre il 39% di chi ha lasciato l’Italia per la volta dell’estero ha tra i 18 e i 34 anni (più 23% rispetto all’anno precedente, stiamo parlando di 9 mila persone), un quarto ha tra i 35 e i 49 anni (+12,5%).
Come racconta lo studio sugli italiani nel mondo: «le partenze non sono individuali ma “di famiglia” intendendo sia il nucleo familiare più ristretto, ovvero quello che comprende i minori sia la famiglia “allargata”, quella cioè in cui i genitori – ormai oltre la soglia dei 65 anni – diventano “accompagnatori e sostenitori” del progetto migratorio dei figli». Inoltre, come accennavamo prima, ci sono gli over 50 che sono quasi il 10% – con un’età tra i 50 e i 64 anni – cioè i tanti disoccupati senza speranza che in tutti questi anni di crisi non sono riusciti a ricollocarsi e non hanno ricevuto aiuti concreti per continuare a mantenere la propria famiglia.
Gli italiani sono partiti da ogni angolo del Paese raggiungendo 194 destinazioni diverse nel mondo. La Lombardia – cioè il profondo ed operoso nord – si conferma la prima regione da cui gli italiani hanno lasciato l’Italia alla volta dell’estero con 23 mila partenze (su 124.076 totali, come risulta dall’elaborazione fatta da Migrantes su dati Aire), seguita dal Veneto (11.611), dalla Sicilia (11.501), dal Lazio (11.114) e dal Piemonte (9.022).
A livello provinciale le partenze più numerose si registrano – accanto alle popolose grandi città come Roma, Milano, Torino e Napoli – anche da Brescia e Varese. Forse è questa la vera emergenza, non avere un “piano B” per tante persone – qualificate o meno – che stanno abbandonando il Paese ma non i loro sogni e la loro voglia di fare.
Tra i settori più dinamici in Italia vi è quello alberghiero e della ristorazione ovvero l’esercito dei camerieri e degli chef che provano non solo a farsi le ossa in un contesto internazionale lontano da casa, ma che spesso trovano opportunità che in Italia non ci sono. «Ho deciso un po’ tardi di lasciare l’Italia ma l’ho avuto in testa da sempre, questione di circostanze. Perché no? Ero un po’ esausto… dopo anni di lavoro più o meno a contratto. Per due anni e mezzo ho gestito un piccolo locale senza poter dare lavoro sicuro a nessuno. Non sentivo nemmeno competizione da parte di altri del settore, anche loro schiacciati dai miei stessi problemi», racconta Alessio, 38 anni, pisano di origine che oggi vive e lavora in Vietnam, a Ho Chi Minh, l’antica Saigon.
Alessio ha alle spalle 19 anni di lavoro in cucina e oggi gestisce un ristorante vegetariano e fa consulenza per un altro locale della città vietnamita: «Inoltre sono coinvolto in altri due progetti in fase di start up. Ho chiuso il ristorante che avevo in Italia a settembre del 2014, un mese dopo ho preso un volo per la Malesia. Ho venduto tutto, niente debiti – spiega –. Tramite un mio amico ho trovato posto come chef a Kuala Lumpur: prima una mail, poi un colloquio via Skype. Così sono partito, due settimane dopo che mio padre era stato quasi ucciso in un incidente – racconta –. La mia famiglia mi ha detto di andare. Ha avuto più coraggio di me, mi ha sostenuto. Mi sono spostato poi in Vietnam un anno e mezzo fa. La mia vita è cambiata in meglio».
I problemi di adattamento ci sono stati certo, ma Alessio dice che ne è valsa la pena per via delle opportunità lavorative che in Italia non c’erano: «Mi manca solo la realtà dove sono cresciuto, non cosa è diventata. Mi mancano i mie quattro nipoti, i miei, le mie sorelle che mi hanno tutti insegnato la convivenza con gli altri. E mi manca non poter fare la differenza nel mio Paese», aggiunge.
«La differenza con l’Italia è che qui vivo in continua evoluzione. In Vietnam vanno veloci ma hanno uno sguardo più rilassato. Noi italiani invece ormai siamo arrabbiati col mondo, senza ragione. Siamo tornati troppo indietro», conclude Alessio.
Un po’ più vicino a casa ma sempre all’estero si è spostato invece Michele, 28 anni, originario di Stigliano, un piccolo borgo della Basilicata, anche lui lavora nella ristorazione. «Vivo a Parigi da tre anni, nei pressi del Sacré Cœur, nel più bel quartiere della città secondo me, e sono sommelier presso un ristorante 3 stelle Michelin. Già a 18 anni sono stato a Londra per lavorare – racconta entusiasta –. Ho lasciato l’Italia non solo per fare esperienza ma anche perché, per ottenere una posizione nel mio settore, devi avere almeno 35 anni altrimenti niente», spiega. «All’estero, invece, se vali puoi avanzare molto più velocemente. In Francia mi trovo bene, per certi aspetti sembra l’Italia anche se all’inizio non è stato facile, per la lingua soprattutto – dice ancora Michele che vive con la sua ragazza, anche lei impiegata nella ristorazione – ma penso di fare molte cose qui. Sono stato contattato da uno chef italiano perché a novembre ci sarà l’apertura di un nuovo ristorante a Parigi, nei pressi dell’Assemblea Nazionale. Siamo tre ragazzi italiani. I francesi adorano l’Italia e adesso man mano che passa il tempo ci sono sempre più connazionali qui».
Dal nostro Paese gli italiani hanno iniziato a emigrare tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Le ragioni di chi decide di emigrare – italiano o straniero – sono sempre le stesse: un futuro migliore per sé e per i propri cari. Si lasciano sicurezze e si affronta l’ignoto, si emigra per un ruolo sociale, per i diritti, per l’identità, per fame.
Nel film Nuovomondo, Emanuele Crialese racconta la migrazione italiana di inizio Novecento attraverso la storia di Salvatore e dei suoi cari che partono da un porto siciliano stipati nel ventre di una nave fino ad approdare nel bagno candido color latte immaginato dal regista che segna l’arrivo in America, l’inizio di un nuovo mondo e di una nuova storia.
Oggi l’emigrazione italiana – a differenza di quella avvenuta tra Ottocento e Novecento e poi nel Secondo dopoguerra – si svolge e si racconta attraverso i social network che permettono un contatto continuo con la famiglia di origine e, almeno in parte, consentono di esorcizzare l’incertezza di un viaggio verso un nuovo luogo di vita e di lavoro.
Antonella De Biasi, giornalista professionista freelance. È stata redattrice del settimanale La Rinascita. Ha scritto La Spa nell’orto (Ultra – Castelvecchi 2014) e curato il vademecum Il mio nome è ROM. Tutto ciò che devi sapere per non chiamarli “zingari”, con il contributo del programma “Fundamental Rights and Citizenship” dell’Unione Europea
Pubblicato mercoledì 1 Agosto 2018
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