Apriamo l’80° della Liberazione con alcune testimonianze della lotta partigiana. Cominciamo con una intervista a Mario Neri, nome di battaglia “Mas”, che abbiamo incontrato a Bologna durante la Festa nazionale dell’Anpi e che vi abbiamo voluto riservare per celebrare l’anniversario degli ottant’anni.
Eri un ragazzo, Mario, quando sei entrato nella lotta partigiana.
Era il giugno del 1944, avevo diciott’anni ed ero operaio. Quando arrivarono le cartoline di arruolamento della Repubblica sociale, Dino Cipollari, un ragazzo notoriamente socialista e antifascista del mio stesso paese, Argelato, convocò alcuni ragazzi della zona, eravamo cinque, e ci disse: “è arrivato il momento della scelta: la lotta partigiana o il fascismo”. Io ancora non sapevo esattamente cosa fosse la lotta partigiana, dalla fine del 1943 sentivo spesso parlare solo di “ribelli”, ma mi unii a loro.
Qual è il tuo ricordo più vivido dell’esperienza partigiana?
Risale a quando assieme alla Brigata (facevo parte della IV Brigata Garibaldi Venturoli) arrivammo, una sera, in un paese. Lì un signore alto e robusto, che scoprii dopo essere il coordinatore dei gruppi partigiani e delle staffette, ci chiese chi di noi sapesse guidare, bisognava andare a Casa Buia di Corticella a prendere delle armi. Un’altra squadra di partigiani ci aveva messo a disposizione un camioncino che avevano sequestrato ai pompieri del paese di Castel San Pietro. Io sapevo guidare e l’ho detto, poco dopo sono partito a bordo di un camion 1100 con il cassone. Pensa la mia incoscienza! Sono andato all’indirizzo che mi avevano dato, ho caricato quattro mitragliatrici (di quelle che erano in dotazione ai carri leggeri e sottratte dai partigiani a Castel Maggiore) e le ho coperte con delle foglie. Fortunatamente riuscimmo a portare a termine l’operazione senza problemi.
È stata l’unica volta che hai usato quel furgone per l’attività partigiana?
Macché! Non appena consegnate le armi – le abbiamo portate, come da ordini, all’altezza della madonna di Castenaso – ci siamo spostati a Budrio. Lì un compagno, Orialdo Soverini, ci disse di ripartire subito in furgone per Mezzolara, ma durante quel viaggio siamo stati scoperti dai tedeschi e abbiamo dovuto abbandonarlo e continuare a piedi.
Ci racconti quell’esperienza?
Era notte e stavamo andando col furgone a Mezzolara, una frazione di Budrio, era buio pesto, mi faceva strada il bianco della strada e il verde del fosso. Arrivati a un incrocio sento due smitragliate sopra di me. Vedo cadere ferito accanto a me un compagno, si chiamava Arturo Zanasi, era alto e, stando in piedi, era stato colpito alla spalla. È stato tutto rocambolesco, Zanasi perdeva sangue e io, in quel trambusto, persi il controllo della guida. Il mio camioncino fece un salto, capii subito di essere passato sopra un corpo di un tedesco che si era sdraiato per sparare senza essere visto. Il furgone ha così smesso di funzionare, siamo scappati a piedi! I tedeschi sparavano ad altezza d’uomo, volevano colpirci! Noi abbiamo risposto al fuoco e siamo riusciti ad allontanarci. Siamo arrivati a piedi a Mezzolara da un contadino che ci aveva già ospitato nei giorni precedenti nella sua cascina. Andò tutto bene e Zanasi, pur ferito, sopravvisse. Dopo qualche giorno siamo ritornati alla base di Vigorso, ma la mattina dopo ci arrestarono.
Cosa è successo?
Il mattino seguente arrivarono i tedeschi armati, con due raffiche di mitra uccisero due signore anziane e altri civili che stavano nella fattoria e cominciò una battaglia con noi (I tedeschi uccisero sette delle otto persone della famiglia che trovarono in casa: Ivo Galletti, impiccato a un albero e poi carbonizzato, Celestino Gabrielli morì con il cranio fracassato dai colpi del calcio del fucile di un soldato. E cinque donne delle sei presenti furono fucilate, ndr). Io avevo una pistola Steyr ma non la usavo mai: avevo un dito ferito da una ventola di una macchina Balilla. Mi aveva medicato un capitano medico tedesco che era scappato dal proprio esercito ed era un po’ di tempo che stava con noi.
E di quella battaglia cosa ricordi? Che successe?
Abbiamo combattuto! Io ho usato la Steyr. E uscito di casa mi sono messo a correre attraverso i campi. Considera che la campagna era diversa da com’è oggi, lì c’erano i filari di alberi che sostenevano le viti e, tra questi, dei pezzi di campo arato. Sfinito nella corsa a un certo momento mi sono messo a terra. Voltandomi ho visto un tedesco in ginocchio che mi puntava con un fucile. Fossi stato pochi centimetri più a destra mi avrebbe centrato e sarei morto! Fortunatamente ero solo ferito ad un fianco.
Come siete stati arrestati?
Ci hanno preso in 15. Dopo averci caricati su un camion ci hanno portato a Budrio, lì hanno fermato il camion davanti al comando della Brigata nera guidata da Emiliano Marchesini. I membri delle brigate nere, ragazzi nostri coetanei, ci sputavano addosso dicendo che eravamo sporchi partigiani. Il camion poi arrivò al cimitero di Medicina. Lì ci hanno fatto scendere e mettere tutti in fila, uno accanto all’altro, contro il muro del cimitero, davanti a noi c’era un tedesco con un mitragliatore sul treppiede. Avevamo capito che saremmo stati fucilati. Quando era tutto pronto arrivò, a piedi, un ufficiale tedesco, parlò con quelli presenti e ci portarono in un fabbricato poco distante, in una stanza di pochi metri dove ci misero tutti e 15. Dopo poco tempo arrivò un omone con la camicia nera, dalle maniche sopra i gomiti e un nervo di bue in mano. Chiamò uno di noi e lo fece salire per una scala. Mentre quello saliva lui batteva sulle scale il nervo di bue, tentava di intimorire lui e noi. Dopo pochi minuti che quel nostro compagno era entrato nella stanza al piano superiore si sentirono urla e lamenti. Lo vedemmo scendere qualche tempo dopo, era sanguinante dalle orecchie, dalla faccia e dalla bocca, si reggeva a stento. Lo misero in disparte, in un’altra stanza. Chiamarono poi il secondo e successe la stessa cosa. E poi il terzo, il quarto, il quinto, il sesto. Chiamarono il settimo e l’ottavo. E tutti questi otto, tutti sanguinanti, li misero tutti nella stanza attigua alla nostra.
E poi si fermarono? O chiamarono anche te?
Chiamarono anche me, non mi ricordo se sono stato il nono, il decimo o l’undicesimo. Mentre salivo sentivo battere con il nervo di bue sui gradini. Entrai dalla porta e vidi di fronte un tavolo con il comandante, era un capitano della feldgendarmerie tedesca. Mi disse cose che non capii, per poi farmi malmenare violentemente a forza di calci e pugni dagli altri tedeschi presenti in sala. Il giorno dopo i tedeschi prelevarono e fucilarono quegli otto partigiani che erano stati i primi a essere presi a botte, li vedemmo partire, si reggevano a stento sulle gambe, poi passati pochi minuti sentimmo il crepitare delle maschinenpistole, passarono altrettanti minuti e apparvero i tedeschi di ritorno, avevano un’aria soddisfatta per il lavoro compiuto. Le salme furono ritrovate in seguito, lì rimasero Bruno Stagni e Dante Scagliarini di Castel Maggiore che era il nostro capo, uno che aveva già fatto il militare. Del nostro gruppo di partigiani rimanemmo in sette.
E cosa vi fecero fare?
Il comandante tedesco che ci aveva interrogato il giorno precedente ci chiamò fuori davanti nel piazzale e, con un pessimo italiano, ci disse: “Domani mattina partire Bologna: Caserme rosse, comando brigata nera”. L’indomani mattina partimmo a piedi, piantonati da alcuni tedeschi armati. Andammo da Medicina a Bologna ma non ci portarono alle Caserme Rosse, ben note per essere l’anticamera della deportazione, bensì a viale Panzacchi, alla caserma militare che oggi è un comando dei carabinieri. Una volta entrati arrivò un capitano delle SS, un omone alto che ci scrutò in faccia tutti. Parlò con i tedeschi che ci avevano accompagnato, dopodiché uscì ed arrivò un sergente delle SS che ci fece segno di seguirlo. Attraversammo i due viali nelle stradine lì a fianco e arrivammo in una piazza, dove c’era il carcere di San Giovanni in Monte.
Avevano deciso di incarcerarvi?
Si, arrivati all’entrata fecero aprire il cancello e ci fecero entrare tutti e 7. Presero la data dell’arresto e i nostri nomi e cognomi e ci servirono delle ciotole, un cucchiaio di legno, una coperta e un piccolo catino. Ci fecero scendere 4-5 gradini, entrammo nella camera numero 8, una piccola stanza che conteneva già dai 15 ai 20 detenuti. Non eravamo tutti detenuti politici, anzi molti erano detenuti comuni. Non c’erano bagni. Qualche giorno dopo arrivò un tedesco delle SS che chiamò fuori il nostro compagno Mosca, un Tirolese che aveva disertato ed era entrato nella Resistenza. Qualche giorno dopo ci dissero che si era impiccato. Rimanemmo in 6. In quei giorni in carcere si respirava molta tensione, ma nessuno ci diceva cosa stesse succedendo e non eravamo abbastanza colti o esperti per interpretare quello che vedevamo attorno a noi: eravamo ignoranti, io ho fatto appena la quinta elementare. In quel momento non lo sapevamo, ma la guerra sembrava stesse finendo. Un giorno aprì la porta della nostra cella, la camera numero 8, un capitano dell’esercito di Badoglio. Ci disse, a noi sei partigiani: “Domani, uscite, dobbiamo andare a Cremona”.
E poi cos’è successo?
Siamo partiti, la mattina dopo, con lui. Il viaggio durò qualche giorno, procedevamo con molta attenzione. Arrivati in una caserma di un paese vicino Cremona, lì ci tennero rinchiusi per mesi fino a che sentimmo la notizia: “È finita la guerra!”. C’era stata la Liberazione. Presi dall’entusiasmo, ci disperdemmo. Decisi allora di ripartire a piedi per raggiungere prima Parma poi Bologna, verso l’imbrunire ho incontrato un posto di blocco partigiano, al comandante su richiesta ho ripetuto la mia travagliata storia, ricevendo in risposta un gesto di invito amichevole a proseguire la strada del ritorno. È stato uno dei momenti più belli della mia vita!
Gabriele Bartolini
Pubblicato lunedì 13 Gennaio 2025
Stampato il 14/01/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/mi-chiamo-mario-neri-nome-di-battaglia-mas-sono-entrato-nella-resistenza-da-giovane-operaio/