Non necessariamente sempre, ma io, e certamente non sono il solo, quando scrivo lo faccio anche per onorare dei debiti di riconoscenza personale. Avendo la fortuna e l’onore di scrivere per Patria Indipendente, ho la possibilità di farlo pure in chiave storica, perché la cronaca con essa si deve confrontare. E se il criterio con cui si esprime il proprio pensiero è questo, i dati personali cessano di essere soltanto tali e divengono materia di lettura dei tempi vigenti.
Il 22 ottobre scorso ha lasciato questo mondo il teologo peruviano Gustavo Gutierrez-Merino Díaz. Negli anni 70 la sua opera più conosciuta, Teologia della liberazione (Hacia una teologia de la liberacion, 1971), ha dato origine a uno dei pochi dibattiti teologici che abbiano varcato i confini della Chiesa Cattolica, diventando un motivo serio di discussione sui rapporti tra fede e storia, tra il pensiero e l’agire delle persone credenti e di quelle laiche, all’insegna della riflessione su come la chiesa (anzi, le chiese: le stesse domande hanno mosso istanze analoghe nelle chiese riformate) si dovesse schierare da un punto di vista sociale.
La prospettiva si inaugura con la fine del Concilio Vaticano II: da un lato un documento come la Gaudium et Spes proietta la comunità cristiana nel mondo, con l’indicazione di prendersi carico de “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono”, dall’altro lato una nuova teologia sulle Chiese locali afferma che esse costituiscono la Chiesa, senza gerarchie e valori di grandezza che impediscano alle più giovani e alle più piccole di sentirsi autorevoli, generando così la potenzialità di nuovi soggetti del pensiero teologico e di un metodo innovativo per metterlo in atto. Molti teologi non occidentali, soprattutto latinoamericani e africani, vivono esigenza e urgenza di dar voce alla fede dei loro popoli, delle loro culture e delle loro chiese, secondo la formula di S. Anselmo di Aosta per cui la teologia è “fides quaerens intellectum”, fede che chiede e cerca intelletto, comprensione.
Il primo autore che formalizza molti elementi di questo nuovo vento teologico è Gustavo Gutierrez, un padre domenicano, con alle spalle studi in Europa dove ha potuto conoscere il metodo del “vedere, giudicare, agire” delle organizzazioni operaie giovanili di Francia e Belgio. Dopo la conferenza episcopale latino americana di Medellin, in Colombia, del 1968, dove ha presenziato Papa Paolo VI, è una chiesa intera che si è messa in moto in questa direzione: il fermento si estende anche agli altri continenti. Inizia la stagione delle cosiddette “Teologie al genitivo”: se padre Gustavo teorizza per primo quella della liberazione, ne nasceranno negli anni seguenti altre: quella delle donne, dei popoli indigeni, delle minoranze etniche. In Europa si è dato a riguardo degli input significativi: Jurgen Moltmann (teologo riformato tedesco, di due anni più anziano di Gutierrez, anch’esso scomparso in questo 2024) ci dona nel 1964 Teologia della speranza,un altro testo epocale che nasce dal suo confronto con il filosofo marxista (per quanto eretico) Ernst Bloch e Il principio speranza, uno dei suoi testi più noti insieme a Ateismo nel cristianesimo. Sull’onda dei movimenti di liberazione, per i diritti umani, per l’ecopacifismo e lo sviluppo sostenibile e in sinergia con essi, nasce una teologia appassionata e appassionante.
Più generazioni di cattoliche e cattolici trovano nella Teologia della Liberazione (TdL) la motivazione per rimanere tali e sognare una chiesa diversa, libera dai compromessi con il potere e solidale con i poveri secondo una prospettiva diversa da quella vissuta fino ad allora; quella dell’impegno sociopolitico. Questo niente toglie a ciò che nei secoli la chiesa, felicemente e pur tra mille contraddizioni, ha fatto nella carità a sostegno di chi soffre. Ma adesso a tutto questo si dà la forma di una ricerca di interpretazione, una ermeneutica (teologica e non) che divenga un pensiero di cambiamento sociale su cui possano confluire istanze di vario genere, libere dalle pesantezze ideologiche.
Le reazioni non tarderanno ad arrivare. Nella difficoltà crescente per molti a recepire le indicazioni del Concilio Vaticano II, buona parte della gerarchia ecclesiastica si arrocca su posizioni conservatrici, anche a matrice politica, che porteranno ad avversare la TdL soprattutto quando teologhi e teologhe che aderiranno ad essa solleveranno la questione dei modelli di governo della chiesa cattolica stessa. Il brasiliano Leonardo Boff pagherà con un tempo imposto di silenzio il suo libro Chiesa: carisma e potere, un testo di ecclesiologia in cui si condannano i rapporti e le connivenze del cattolicesimo con i poteri mondani. Non sarà il solo.
La grande contestazione posta alla TdL è quella di far riferimento al marxismo, accusandola di aver tentato di corrompere la fede con un pensiero materialista. Ciò si concretizzerà in due documenti pontifici, nel 1984 e nel 1986, in cui l’allora prefetto della Congregazione della Fede Joseph Ratzinger delinea i termini inaccettabili di tale teologia e ne indica quelli sostenibili. In realtà, in questi due pronunciamenti, di positivo si annota poco. La paura del marxismo (ma anche delle contestazioni alla chiesa per come agisce in campo economico, dei diritti umani, della piena reciprocità della donna nel femminismo) non ha fatto comprendere a chi di dovere – o che forse invece lo ha capito anche troppo bene che tipo di evoluzione si stava preparando – che autorità e forza della TdL risiedono soprattutto nel pieno recupero delle istanze bibliche e del Magistero ecclesiale riguardo al rapporto tra identità di fede e liberazione; personale, sociale e storica, come espressione della volontà divina che gli esseri viventi vivano in pace e liberi, più felici e meno repressi che si possa.
L’analisi marxista viene adoperata come uno strumento di conoscenza al pari di altre scienze sociali: non se ne assumono le implicanze materialiste, si capisce bene il limite delle realizzazioni storiche del socialismo reale (del resto, su questo piano nemmeno il cattolicesimo ha l’anima propriamente candida…). Quel che segue è stata una diffidenza costante nei confronti di quella parte della chiesa cattolica che si impegna socialmente sollevando delle questioni etiche, malvista e avversata da parte della gerarchia, sempre accusata di negare la spiritualità per appiattirsi sulle dinamiche politiche.
Dom Helder Camara, vescovo brasiliano tra i primi a far evolvere la sua chiesa secondo questa sensibilità lo diceva in estrema sintesi: «se do da mangiare ai poveri mi dicono che sono un santo, se chiedo perché sono tali mi dicono che sono comunista». La TdL ha mostrato chiaramente che l’opzione preferenziale per i poveri, pensata come necessità previa della ricerca teologica, è parte integrante del Vangelo e fonda la spiritualità cristiana, non ne è un accessorio. Uno dei testi più belli del padre Gustavo è Bere al proprio pozzo, proprio dedicato al rapporto tra fede, vissuta nelle forme tradizionali, e un rapporto con il mondo e l’umanità, perché non si dimentichi che “un Dio senza mondo genera un mondo senza Dio” (per citare il cardinal Kasper).
Profonda gratitudine, quindi. Gutierrez è stato un pastore, sempre legato alla dimensione della realtà delle comunità di base, in rapporto costante con la sua gente, in contesti non certo accademici. La sua identità ecclesiale lo pose al riparo dalle polemiche: nel corso degli anni è stata praticamente l’intera conferenza episcopale latino americana a difenderlo dal tentativo di processarne l’opera da parte del Vaticano. Papa Francesco ha celebrato con lui messa a S. Marta, dove risiede, e alla sua morte ha rilasciato questa dichiarazione: «Un uomo di Chiesa, che ha saputo fare silenzio quando doveva fare silenzio, che ha saputo soffrire quando gli è toccato soffrire. Ha saputo portare avanti tanto frutto apostolico e tanta ricca teologia». Aggiungiamoci rispetto, stima e affetto da parte dei poveri della Terra e da tutti coloro che sono solidali con essi, e continuano a pensare un mondo libero dall’ingiustizia, e ci stanno lavorando non pensandolo soltanto come un bel sogno.
A suo tempo ho concluso il mio iter di studio in teologia. Al termine della discussione della tesi ho chiesto di fare una dichiarazione e ho citato – come aspettavo da tanto – una frase da La nostalgia del totalmente altro di Max Horkheimer: “La teologia è la speranza che, nonostante l’ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola”. Non conosco altro modo di fare teologia. Ma persone come Gustavo Gutierrez mi hanno, ci hanno, indicato chiaramente la strada per farla e farla dal lato giusto della storia.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana
Una teologia che piantò il seme della giustizia sociale in America Latina
Andrea Mulas
Dal 22 al 25 agosto 1968, Paolo VI compie un viaggio di portata storica in Colombia. È la prima volta che un Pontefice si reca in America Latina, la “regione più esplosiva del mondo”, per dirla con lo storico Eric Hobsbawm, che ribolle sulla scia delle gesta rivoluzionarie ed eroiche del leader guerrigliero Ernesto “Che” Guevara.
Nell’omelia del 23 agosto il Pontefice denuncia le «inique sperequazioni economiche tra ricchi e poveri», gli “abusi autoritari e amministrativi”, ma al contempo indica quale via d’uscita per i popoli latinoamericani un “nuovo ordine più umano” il cui raggiungimento non sarebbe dovuto avvenire tramite la violenza rivoluzionaria in quanto “né cristiana né evangelica”. Il giorno successivo Paolo VI inaugura la Conferenza generale dell’episcopato di Medellín (Celam), che rappresenta uno spartiacque sull’onda dell’adozione della “opzione per i poveri” e degli impulsi rinnovatori che avrebbe generato.
Il documento conclusivo di Medellín relativo al tema dell’Educazione parla di educación libertadora denotando l’influenza delle elaborazioni sulla “coscientizzazione” del pedagogista brasiliano Paulo Freire. Sono gli anni del Concilio Vaticano II e dell’ampio dibattito che ne scaturì all’interno delle gerarchie ecclesiastiche, delle spinte postconciliari, della crisi delle dottrine del desarrollismo che aveva generato profondi squilibri socio-economici, dell’avvento delle dittature militari. Ma anche dell’Enciclica Populorum Progressio, del Messaggio dei 17 Vescovi del Terzo Mondo in cui si condannava ogni collusione della Chiesa con “l’imperialismo del denaro”, della diffusione dei “focos guerrilleros” e della morte di Che Guevara, del Messaggio ai popoli dell’America latina e del Movimento dei sacerdoti per il Terzo Mondo in cui si proclamava la «ferma adesione al processo rivoluzionario di urgente mutamento delle strutture ed il formale rifiuto dell’attuale sistema capitalistico», oltre che con «la ricerca di un socialismo latinoamericano». Dunque liberazione e rivoluzione si intersecano e non mancano strumentalizzazioni del potere economico e militare, come denuncia l’arcivescovo di Recife Hélder Câmara, uno tra i più fermi sostenitori della “nuova teologia”: “Quando cerco di aiutare i poveri, mi dicono che sono un santo; quando cerco di scoprire le cause di tanta povertà, mi dicono che sono un comunista”.
La Conferenza di Medellín rappresenta il punto di svolta, la rinascita della chiesa latinoamericana dal letargo, da un orizzonte clericale chiuso e volto al passato. In sostanza la ratifica da parte della chiesa latinoamericana dell’enciclica Gaudium et spes all’interno dell’ecclesiologia del popolo di Dio che proveniva da Lumen gentium. La ricezione simultanea del magistero sociale di Paolo VI, in particolar modo attraverso la Populorum progressio, aveva fornito lo schema ermeneutico per leggere i segni dei tempi specificamente latinoamericani, che avvenne applicando il metodo del “vedere – giudicare – agire”. Il Documento finale presenta una visione critica delle strutture globali che incidono negativamente sullo sviluppo dell’essere umano, in particolare dei poveri, e che attaccano l’integrità dei popoli e delle loro culture.
D’altronde ai padri conciliari era sfuggita l’immensa portata delle parole pronunciate da Giovanni XXIII all’apertura del Vaticano II, quando aveva affermato che “la Chiesa si presenta quale è, e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Come avrebbe detto il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez, scomparso il 22 ottobre scorso a Lima in Perù, i poveri avevano «bussato alla porta del Concilio», ma non gli avevano aperto. Dopo il modernismo latinoamericano, il clima intellettuale convulso degli anni Sessanta propone ricerche e cambiamenti nel continente, che partono da un autentico atteggiamento di ribellione.
Leopoldo Zea pubblica la filosofia americana come filosofia senza altro. Fernando Henrique Cardoso ed Enzo Faletto curano un’opera chiave sulla teoria della dipendenza: Dipendenza e sviluppo in America Latina. Saggio di interpretazione sociologica; Paulo Freire pubblica La pedagogia degli oppressi; Che Guevara con l’“uomo nuovo” scuote le coscienze dei giovani, cristiani compresi. Alcuni religiosi cattolici e studenti universitari sostengono le attività di guerriglia in diversi Paesi della regione. Tuttavia, non è possibile generalizzare. Questo ciclo, l’impegno sociale dei cristiani e le loro organizzazioni, come le comunità ecclesiali di base, sono incoraggiati da una generazione eccezionale di vescovi coraggiosi, come Hélder Cámara, José María Pires (Brasile), Ramón Bogarín (Paraguay), Óscar Arnulfo Romero (El Salvador), Leónidas Proaño (Ecuador), Juan Landázuri (Perù), Raúl Silva Enríquez (Cile), Samuel Ruiz e Sergio Méndez Arceo (Messico), tra molti altri.
Liberazione era il concetto economico, sociale e politico che si stava diffondendo nel subcontinente e che aveva soppiantato i fallimentari modelli riformatori di sviluppo. Fino a quel momento lo sviluppo aveva significato imitare i processi avviati dalle società economicamente più avanzate. L’ideale era la “società industrializzata”, e in quest’ottica i cosiddetti “Paesi sottosviluppati” erano quindi concepiti come Paesi che vivevano in uno “stadio precedente” rispetto a quello delle nazioni industrializzate. L’indice di disuguaglianza culturale tra Paesi industrializzati e sottosviluppati risultava peggiore rispetto a quello economico.
La teologia della liberazione nasce proprio dall’intreccio di due fattori: il primo socio-politico, qualificato dall’irruzione dei “poveri” nella storia, l’altro collegato con l’aspetto cristiano-ecclesiale, cioè la presenza dei cristiani nelle lotte di liberazione. Non pretende di esaurire tutti i compiti della teologia nel continente, ma ne sottolinea uno dei più importanti e urgenti, per non dire il più importante e urgente: la riflessione teologica sul significato dell’impegno della Chiesa per la giustizia, per la difesa della dignità umana, per la liberazione dei poveri e oppressi, in ordine all’evangelizzazione. In sostanza, come ha sottolineato Ernesto Balducci, la teologia della liberazione aveva saputo «sciogliere le contraddizioni tra il Vangelo professato e le strutture del dominio nella loro onnipresenza». Ecco che quindi il Vangelo viene letto a «partire dal punto di vista del povero, delle classi sfruttate, a partire dalla militanza nelle lotte per la liberazione», che «rende imperiosa la creazione di una chiesa popolare», che nasce cioè dal popolo, che toglie il Vangelo dalle mani dei potenti. Questo fenomeno in America latina venne definito “l’appropriazione sociale del Vangelo”. Ma quali le conseguenze nel vivere sociale?
Il teologo Assmann lo chiarisce nell’esauriente riflessione politica Lo specifico cristiano nella lotta per la liberazione: «i cristiani impegnati nella liberazione diventano anche sempre più consapevoli che la loro scelta implica che si porti apertamente la lotta di classe all’interno delle Chiese; e sanno anche che non vi è modo di sfuggire a tale opposizione, perché devono mettersi dalla parte degli sfruttati. Per questa ragione il conflitto, visto in termini storici e realistici, è diventato il tema centrale della teologia della liberazione. […] Questi cristiani non possono accettare che nonostante l’esistenza di sfruttatori e sfruttati, tutti vengano sempre insieme all’eucarestia». Il passaggio è rivoluzionario e la teologia della liberazione si diffonde in tutto il continente sudamericano. L’opzione preferenziale per i poveri diventa nuovo modo di essere Chiesa in un continente, negli anni Sessanta e Settanta, segnato da colpi di stato militari e dall’instaurazione di regimi autoritari. Non mancano figure esemplari che pagano con la vita la scelta di difendere gli ultimi.
Un mese prima di essere assassinato nel corso di una celebrazione eucaristica, l’arcivescovo Oscar Romero, il 2 febbraio 1980, aveva ricevuto la laurea honoris causa all’Università cattolica di Lovanio come riconoscimento del suo impegno per la verità e la giustizia nella difesa dei diritti umani. Nel solco dei principi della teologia della liberazione, il suo discorso diventerà una bussola per i popoli oppressi: “Si tratta di qualcosa di più profondo ed evangelico; si tratta della vera opzione per i poveri, di incarnarsi nel loro mondo, di annunciar loro una buona notizia, di dargli una speranza, di incoraggiarli verso una prassi liberatrice, di difendere la loro causa e di partecipare al loro destino. Questa opzione della Chiesa per i poveri spiega la dimensione politica della fede nelle sue radici e nei suoi tratti fondamentali. Perché ha scelto i poveri reali e non immaginari, perché ha optato per quelli realmente oppressi e repressi, la Chiesa vive nel mondo politico e si realizza come Chiesa anche attraverso ciò che è politico”.
Ma sono anni in pieno fermento per la Chiesa di Roma. L’esperienza dei preti operai con don Sirio Politi e don Rolando Menesini (solo per citare il caso di Viareggio), le posizioni di don Lorenzo Milani, il fenomeno crescente delle Comunità di base (a metà degli anni Settanta se ne contano un centinaio), la destituzione del cardinale Giacomo Lercaro a Bologna, poi il caso emblematico dell’Isolotto a Firenze con la rimozione di don Enzo Mazzi; e ancora, Raniero La Valle viene allontanato dalla direzione del quotidiano L’Avvenire d’Italia per le sue posizioni a favore del riconoscimento dell’obiezione di coscienza, il cui progetto di legge, ha scritto Bruna Bocchini Camaiani nella biografia di padre Balducci, aveva posto «con forza all’attenzione nazionale, e in particolare a quella cattolica, la necessità di ripensare in modo radicalmente nuovo il tema della pace, come momento centrale e basilare di una teologia e di una ecclesiologia rinnovate». Inoltre si saldano legami tra le spinte del “mondo cattolico” italiano impegnato nel rinnovamento della vita ecclesiale e sociale e le posizioni assunte dalla Conferenza di Medellín, che come abbiamo visto aveva configurato la Chiesa popolare come «strumento di salvezza» per i popoli. Un esempio è la lettera che nel 1969 La Valle aveva scritto a Giorgio La Pira per promuovere la candidatura di dom Câmara al Nobel per la pace per le sue battaglie in difesa dei diritti umani per i popoli del Terzo Mondo.
Con papa Bergoglio si chiude il cerchio. Francesco segue la linea della teologia della liberazione laddove osserva che il soggetto del processo storico “sono il popolo e la sua cultura nella loro interezza, non una classe, una parte, un gruppo, una élite”. Questa opzione per i poveri in quanto soggetti attivi del cambiamento è l’unica via per la quale le trasformazioni sociali si possono realizzare e possono durare, conducendo a “una pace vera”. Non c’è dubbio che il Pontefice abbia riportato all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale (ricontestualizzandolo) il ruolo della Chiesa che veniva diffuso en las calles del Sudamerica alla fine degli anni Sessanta, ovvero “una Chiesa povera e per i poveri”.
Andrea Mulas, storico Fondazione Basso
Pubblicato mercoledì 6 Novembre 2024
Stampato il 13/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/mettere-gli-ultimi-al-primo-posto-gustavo-gutierrez-e-la-teologia-della-liberazione/