A meno di una svolta imprevedibile, il Giorno della Memoria 2018 rischia di sancire la definitiva eclissi dalla consapevolezza storica del nostro Paese della deportazione politica. In un calendario che prevede migliaia di appuntamenti, convegni, dibattiti, conferenze, film e mostre il destino di decine di migliaia di antifascisti e partigiani, di oppositori del fascismo e di lavoratori scioperanti è ricordato solo eccezionalmente, e solo in pochissime città.
Non si tratta di cosa nuova in assoluto. Sono anni ormai che questa tendenza si è sciaguratamente consolidata in tutta Italia.
Un sondaggio tra i giovani italiani commissionato all’Ipsos dall’Aned alla vigilia del suo ultimo congresso nazionale (Bolzano, novembre 2016) conteneva anche alcune domande relative alla conoscenza dell’impatto della deportazione nei lager nazisti tra alcune “categorie” di persone. Al primo posto per numero di deportati dall’Italia la quasi totalità dei ragazzi intervistati collocò gli ebrei. A seguire gli omosessuali, rom e sinti. Antifascisti e partigiani buoni ultimi, a notevole distanza.
Dovrebbe essere noto, al contrario, che i numeri reali delle vittime italiane dei lager nazisti raccontano tutt’altra storia. I deportati politici italiani censiti nel voluminoso studio pubblicato qualche anno fa a cura di Brunello Mantelli e Nicola Tranfaglia furono oltre 23.000. E quello studio non prendeva in considerazione i deportati nei lager italiani di Fossoli, Bolzano e della Risiera di San Sabba, che fanno salire quella cifra complessiva a 33-34.000. I deportati ebrei furono circa 8.000. Di omosessuali, deportati in quanto tali, in Italia non ce ne fu nessuno (non trova riscontro finora neppure la vicenda di “Lucy”, la trans emiliana che sarebbe stata a Dachau). I rom e sinti deportati dal nostro paese di cui si conosce con certezza l’identità si contano nell’ordine delle unità.
Se le cose stanno così, come mai questo ribaltamento di posizioni nella consapevolezza popolare?
Sono molti anni ormai che il Presidente della Repubblica – lo farà Mattarella, e prima di lui lo fece sempre Napolitano – riunisce per il 27gennaio al Quirinale le massime autorità dello Stato e parla esclusivamente della Shoah, sorvolando sul fatto che la legge istitutiva del Giorno della Memoria prevede che si organizzino “incontri e momenti di riflessione” su “quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”.
Per parte sua il servizio pubblico televisivo da anni si impegna con notevole sforzo in programmi sull’argomento: una maratona televisiva che copre tutte le reti e tutte le fasce orarie, nella quale la deportazione dei partigiani e degli antifascista non è trattata affatto, se non di sfuggita. I grandi quotidiani fanno lo stesso, il cinema pure.
Se diamo un’occhiata alle iniziative organizzate localmente – talora, purtroppo, con l’avallo delle organizzazioni della Resistenza – la musica non cambia: si tratta giustamente della Shoah, e poi, direi ad anni alterni, o degli omosessuali o dei rom nei campi nazisti. I “triangoli rossi” sembrano scomparsi dal panorama della memoria nazionale.
Qualche tempo fa Manuela Consonni ha dedicato un saggio (L’eclissi dell’antifascismo, Laterza, Bari 2015) allo studio del processo che ha portato una parte del mondo ebraico italiano a prendere le distanze dai partiti della sinistra e dall’idea stessa dell’antifascismo. Consonni fa risalire alla Guerra dei sei giorni il punto di crisi: allora, dice in sostanza, molti ebrei italiani scoprirono che messi alle strette i partiti di sinistra prendono le parti degli arabi contro Israele; di qui un avvicinamento a forze moderate se non di destra fino ad allora vissute come distanti.
Ci deve essere del vero in questa analisi. Ma credo che essa sottovaluti le conseguenze nefaste del ventennio berlusconiano, quando la destra filofascista fu “sdoganata” nel nostro Paese, portando al governo personaggi che non hanno mai fatto mistero delle proprie simpatie fasciste. Ricordiamo tutti come Gianfranco Fini prese le distanze solo dalla politica antiebraica di Mussolini, peraltro ricordato come “un grande statista”.
A sua volta, l’isolamento delle leggi razziali come unico, grave, tragico errore del fascismo era funzionale a quella inaudita rivalutazione del Mussolini-grande-statista che dura tutt’ora. Così lo stesso Fini, e poi persino Alemanno hanno potuto senza eccessivo sforzo andare a visitare il Memoriale della Shoah di Yad Vashem e persino farsi fotografare commossi di fronte alle scarpine dei neonati bruciati nei forni di Birkenau.
Se La Russa, Alemanno e compagnia avessero dovuto commentare la sorte di decine di migliaia di italiani arrestati dalle camicie nere e consegnati agli alleati hitleriani per farli morire nei lager, forse l’operazione trasformistica di questo pezzo di neofascismo italiano sarebbe risultata più ardua.
Ma – qui sta il punto – ha davvero senso mettere in relazione la storia dell’antifascismo con la Shoah? Primo Levi scrisse alla fine degli anni 70 del secolo scorso un celebre brano (Al visitatore) per chi fosse andato in visita al Memoriale Italiano ad Auschwitz. In quel testo potente si legge che “dai primi incendi delle Camere di Lavoro nell’Italia del 1921, ai roghi di libri sulle piazze della Germania del 1933, alla fiamma nefanda dei crematori di Birkenau, corre un nesso non interrotto”. E a me sembra che sia proprio così. Non si comprende la tragedia dei lager se non si considera la violenza politica che accompagnò l’ascesa del fascismo e del nazismo; se non si ricordano le leggi eccezionali che diedero il via alla dittatura, lo scioglimento dei partiti, il Tribunale speciale, le condanne inflitte agli oppositori che puntavano a mettere a tacere ogni dissenso e che spianarono la strada, nel 1938, anche alle leggi antiebraiche. Così come non si spiega l’adesione dei tedeschi al nazismo se non si ricorda che il campo di Dachau fu aperto poche settimane dopo l’ascesa al potere di Hitler proprio per rinchiudervi gli oppositori politici del partito nazionalsocialista, e il pugno di ferro col quale fu schiacciata e repressa con violenza ogni voce di dissenso in Germania. (Mio padre, e tanti antifascisti con lui, nel 1938, quando le leggi razziali furono promulgate nel nostro paese, aveva già finito di scontare la condanna a 10 anni di prigione inflittagli dal Tribunale speciale fascista per motivi politici…).
Isolare lo sterminio del popolo ebraico dal contesto dell’ideologia di Mussolini e di Hitler e della dittatura imposta in Italia e in Germania non aiuta a capire neppure la Shoah. Ed è funzionale a una lettura post fascista della storia del ’900 che in ultima istanza punta ancora all’assoluzione delle colpe storiche del fascismo e del nazismo nei riguardi della libertà, della democrazia, della cultura, del pluralismo delle idee, della pace.
Ecco perché la sostanziale sparizione del tema della deportazione politica dal panorama delle celebrazioni nazionali del Giorno della Memoria ci deve inquietare. Ed ecco perché, aggiungo, non si può concordare con la riduzione dell’intero “universo concentrazionario” al solo complesso di Auschwitz-Birkenau: quanti ragazzi italiani in questi anni hanno visitato Mauthausen, Buchenwald, Ravensbrück, Dachau o gli altri grandi campi nazisti? Quanti ne hanno anche solo sentito parlare? Eppure anche lì si è consumata la tragedia di centinaia di migliaia di europei deportati – e spesso uccisi – da Hitler.
Tutti noi pensiamo ai bambini, alle giovani madri, ai vecchi ebrei trascinati da ogni dove fino alla rampa di Birkenau e immediatamente gasati come alla quintessenza dell’orrore. E ci mancherebbe!
Ma non ci possiamo accontentare di una lettura di questo immane delitto che faccia ricorso alle categorie del Bene e del Male, o che – peggio – attribuisca questa infernale macchina di morte solo alla presunta “pazzia” del capo del Terzo Reich. Con queste categorie interpretative non si va da nessuna parte, mi pare che su questo siano d’accordo anche gli storici della Shoah più avvertiti.
Bisogna chiamare le cose con il loro nome.
A questo riguardo col passare del tempo sono sempre meno convinto della validità della scelta del Memoriale della Shoah di Milano di porre all’ingresso la gigantesca scritta “INDIFFERENZA”. Capisco il ragionamento non certo banale che ha condotto a quella scelta. E tuttavia, con tutto l’amore del mondo per Liliana Segre, che come è noto l’ha proposta, mi sembra che si tratti di una parola che può rischiare di risultare fuorviante. Non è stata l’indifferenza a caricare sui vagoni della deportazione gli ebrei e i resistenti che di lì partirono per i Lager (anche se ancora all’interno si citano solo i nomi degli ebrei), ma fascisti e nazisti alleati. Davvero è superfluo ricordarlo ai ragazzi di oggi, spesso frastornati dalla campagna di disinformazione dei fascisti?
Sembra un paradosso ma è la pura verità: capiremo di più della tragedia di quei bambini, di quelle giovani madri, di quei vecchi ebrei passati per il camino a Birkenau se studieremo, accanto alla loro tragedia, quella degli antifascisti, dei partigiani, delle donne e degli uomini deportati e mandati a morire nei campi di Hitler per motivi politici. Quegli stessi che oggi, nelle celebrazioni di questo Giorno della Memoria, vengono colpevolmente cancellati, dimenticati, discriminati.
Ricordare tutte le deportazioni, con le loro differenze e con le loro peculiarità, è il compito che chi ha a cuore la storia dell’antifascismo e della Resistenza si deve assumere con maggiore decisione. Non solo per il dovere elementare di restituire memoria e dignità a tante migliaia di italiane e di italiani che pagarono con la deportazione e spesso con una morte atroce la propria opposizione alla dittatura, e che oggi sono così discriminati nel ricordo. Ma per offrire ai giovani gli strumenti per comprendere meglio le responsabilità e le colpe del fascismo, rendendoli più forti nella difesa della Repubblica democratica e delle sue istituzioni.
Dario Venegoni, presidente dell’Aned, Associazione Nazionale Ex Deportati nei Campi nazisti
Pubblicato martedì 23 Gennaio 2018
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