La strage compiuta lo scorso 15 marzo dal 28enne australiano Brenton Tarrant Harrison in due moschee della città neozelandese di Christchurch, che ha fatto cinquanta vittime e altrettanti feriti, ha rilanciato a livello internazionale l’allarme per il terrorismo di estrema destra. Un fenomeno a lungo considerato come marginale, specie se confrontato con la grande attenzione riservata alla violenza di ispirazione jihadista dopo l’11 settembre, ma che sta conoscendo una drammatica recrudescenza.
Prendendo in esame anche soltanto l’ultimo decennio, quello che separa all’incirca la strage compiuta il 22 luglio del 2011 da Anders Behring Breivik che seminò la morte tra il centro di Oslo e l’isola di Utoya, uccidendo 77 persone e ferendone oltre 240, e la recente tragedia della Nuova Zelanda, ci si può rendere conto di come la violenza, spesso di massa, compiuta in nome dell’odio razziale sia diventata una costante in tutto il mondo occidentale, oltre che in Russia. Solo per farsi un’idea si potranno citare i dati relativi agli Stati Uniti diffusi dall’organizzazione antirazzista ebraica Anti-Defamation League che stima come nel periodo compreso tra il 2009 e il 2018 oltre il 73% delle uccisioni compiute da terroristi nel Paese sia stata opera di “estremisti bianchi”.
Non a caso, lo stesso Brenton Tarrant Harrison aveva scritto su uno dei fucili d’assalto usati per la strage i nomi di alcuni dei suoi “predecessori”, cui ha detto di essersi ispirato: da Dylann Roof che nel 2015 uccise nove afroamericani all’interno di una chiesa metodista di Charleston, in South Carolina, a Alexandre Bissonnette che nel 2017 entrò in un centro islamico di Quebec City, in Canada, e aprì il fuoco uccidendo sei persone e ferendone altre cinque, fino a Luca Traini che nel febbraio del 2018 sparò da un’auto in corsa per le strade di Macerata, ferendo sei immigrati africani nel corso di un’autentica “caccia al nero” che solo casualmente non si trasformò in una strage. Un tragico elenco che anche al di là di quanto evocato dallo stragista della Nuova Zelanda potrebbe essere ben più consistente, come fotografato dai dati raccolti dal Global Terrorism Index che parla di un aumento di oltre il 35% dei casi di violenza armata imputabile all’estrema destra tra il 2002 e il 2016.
Ciò che le statistiche non dicono è però con che tipo di fenomeno “globale” ci si stia confrontando. Perché, se da un lato i gruppi della destra radicale stanno conoscendo una nuova crescita in molti Paesi e sono spesso all’origine di violenze, intimidazioni o comportamenti illegali – nel caso del nostro Paese si stima che negli ultimi anni circa ogni settimana le autorità abbiano denunciato un esponente neofascista, mentre nella più recente relazione dei Servizi si lancia l’allarme in vista delle elezioni europee del prossimo maggio sul «pericolo concreto della crescita di episodi di intolleranza nei confronti degli stranieri» –, sarebbe riduttivo pensare che il pericolo venga solo dalle forme organizzate dell’estremismo nero, che certo rappresentano una parte del problema. Si tratta infatti di comprendere quale sia il clima complessivo nel quale stragi come quelle di Christchurch possono avere luogo.
Se un tempo, certo in un contesto internazionale molto diverso da quello attuale, il terrorismo fascista – e la storia del nostro Paese lo illustra in maniera drammatica, ma si potrebbero citare in tal senso anche altri casi, dall’Oas in Francia, al Wehrsportgruppe Hoffmann in Germania, fino ai cosiddetti “tueurs fous du Brabant” in Belgio –, agiva per rovesciare il sistema democratico o per favorire una svolta autoritaria, l’attuale terrore nel segno dell’odio razziale sembra piuttosto esprimere nella maniera più terribile una sorta di «senso comune» che già pervade le nostre società: quello che vorrebbe identificare negli «stranieri» la causa di ogni male.
Allo stesso modo, le biografie dei responsabili di attentati sanguinari o di stragi di massa rimandano solo in parte all’adesione a questa o quella formazione neofascista o neonazista.
Malgrado le indagini nei confronti di Brenton Tarrant Harrison siano ancora in corso e su di lui gravi il sospetto di contatti con gli esponenti dell’estrema internazionale che combattono in Donbass accanto ai neonazisti ucraini, in numero maggiore di quanto non accada tra le fila dei filo-russi, la gran parte della sua “formazione politica” sembra essersi compiuta, al pari di quella di Breivik, Roof, Bissonnette e molti altri stragisti dall’analogo profilo, tra la rete, i social network e gli echi di un dibattito pubblico intossicato dall’allarme costante per la presenza musulmana, l’«invasione» dei migranti, il «declino» dello stile di vita e delle tradizionali gerarchie culturali e di genere.
In questo senso, il «passaggio all’atto violento» testimonia spesso più un’adesione a questa visione paranoica e ossessiva della realtà – che informa ovviamente di sé prima di tutto gli ambienti dell’estrema destra, ma che lambisce anche parti crescenti dell’opinione pubblica sedotta dagli imprenditori politici della paura –, che non a specifici vincoli organizzativi. Il fatto che nel nostro Paese episodi analoghi, l’omicidio di due immigrati senegalesi e il ferimento di altri due compiuto nel 2011 a Firenze da Gianluca Casseri e la già citata tentata strage di Macerata ad opera di Luca Traini, siano stati portati a termine da due estremisti di destra legati a formazioni organizzate, il primo vicino a CasaPound, il secondo attivo nel circuito neofascista e già candidato della Lega in un’elezione locale, indica come presso questo circuito l’evocazione costante di tali temi possa favorire ancor più rapidamente il ricorso alla violenza, ma segnala anche la più generale deriva del dibattito pubblico, il clima malsano che si respira nel Paese. Come ha scritto Ezio Mauro in L’uomo bianco, (Feltrinelli, 2018), la «caccia al nero» da parte di un giovane «lupo» di provincia – Traini –, imbevuto di odio razziale, diventa il simbolo di un Paese dove la spinta delle discriminazioni veicolate in sede istituzionale si coniuga con le peggiori pulsioni violente che crescono nel risentimento sociale diffuso.
Del resto, proprio i contenuti del “manifesto” di 74 pagine che lo stragista della Nuova Zelanda ha inviato via email alle autorità prima di attaccare le moschee di Christchurch, per annunciare le motivazioni del suo gesto, pur contenendo vari riferimenti all’immaginario del suprematismo bianco – dal Sole nero delle SS alla citazione del motto delle «14 parole» contro il «genocidio bianco» coniato dal neonazista americano David Lane, dall’appello ai «cristiani bianchi» perché caccino gli «invasori» islamici fino all’apologia della strage di Breivik – indicano come chi cerca di motivare simili atrocità lo faccia in realtà ricorrendo ad argomenti largamente presenti nel lessico della politica mainstream. Per quanto appaiano a prima vista incredibili.
Il documento si intitola infatti “La grande sostituzione”, tesi che ha superato da tempo gli ambiti ristretti della destra radicale, finendo per accompagnare ovunque l’emergere del “nazional-populismo” e imponendosi, per questa via, tra gli argomenti dibattuti nel dibattito pubblico. Si tratta dell’idea che sia in atto in tutto il mondo occidentale un vasto e terribile complotto, ordito dal capitalismo cosmopolita in combutta con le sinistre antirazziste, per rimpiazzare le popolazioni autoctone con immigrati utilizzabili come manodopera a basso costo e portatori di “altre culture” e religioni, a partire da quella musulmana. Il destino dell’Occidente sarebbe perciò quello di un «declino» inesorabile che lo porterà all’annichilimento sia culturale che identitario, che in questo ambito significa più o meno espressamente “razziale”.
È allo scrittore francese Renaud Camus, più volte protagonista anche di sortite apertamente antisemite e grande estimatore di Jean Marie Le Pen, che si deve nel 2011, con il volume dal titolo Le Grand Remplacement, la definizione di questa sorta di “contro-colonizzazione” rispetto a quella subita in passato dal Sud del mondo ad opera degli europei. «La maggior parte delle nazioni europee – scriveva allora Camus – aveva un popolo, ma con un solo ricambio generazionale ne hanno già un altro o molti altri. Strade, quartieri, città intere si sono trasformate, sono diventate irriconoscibili; per non parlare delle scuole e dei trasporti pubblici. In zone sempre più vaste del territorio, gli autoctoni sono spariti, sono stati sostituiti». Il testo dell’attentatore di Christchurch riprende interamente questi argomenti, e anche la forma con la quale lo scrittore francese li espresse, vale a dire attraverso un viaggio per la Francia al termine del quale si è reso conto che «gli invasori hanno già sostituito gli autoctoni».
Le idee espresse da Camus, che sembrano rimandare anche a quelle di Samuel P. Huntington sull’inevitabilità di uno scontro di civiltà tra l’Islam e l’Occidente, ma anche ad un classico del complottismo, il cosiddetto “Piano Kalergi”, dal nome di un aristocratico austriaco attivo fin dagli anni Trenta cui viene attribuito un inesistente progetto di «genocidio dei popoli europei», sono oggi tra le più citate dagli oppositori radicali all’immigrazione.
Dai tedeschi di Pegida a Marion Maréchal Le Pen, dagli Indentitari francesi a CasaPound, da alcuni dei blogger più noti in questo circuito, come la canadese Lauren Southern e il norvegese Fjordman, dal polemista conservatore britannico Douglas Murray al giornalista francese Éric Zemmour, fino al premier ungherese Viktor Orbán e al vicepremier italiano Salvini che, senza citare esplicitamente l’autore francese, sembra averne ripreso più volte le idee. Come quando nel 2014 via twitter sosteneva che «la sinistra, a livello mondiale, ha pianificato un’invasione (di immigrati), una sostituzione di popoli», o, nello stesso anno dai microfoni di “Radio Anch’io” spiegava che «lo Ius Soli in Italia non lo accetto, è una sostituzione di popoli».
Come a dire che se Brenton Tarrant Harrison, e i molti che lo hanno preceduto – e che purtroppo con ogni probabilità lo seguiranno – vengono abitualmente etichettati come “lupi solitari”, le idee che ne hanno armato la mano, ancor più dei possibili vincoli organizzativi o del sostegno logistico di cui possono godere, sono tutt’altro che isolate o marginali nelle nostre società.
Guido Caldiron, giornalista e scrittore
Pubblicato giovedì 28 Marzo 2019
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