Finisce in una cella di tre metri per cinque a Curitiba il sogno di un Brasile differente, di un outro mondo possivel, come cantavano i sognatori del Forum sociale mondiale a Porto Alegre. Il Paese di Luiz Inacio Lula Da Silva e del suo Partido dos trabalhadores era la gloria dell’onda di sinistra in America latina. Il 7 aprile Lula si è consegnato alla polizia, dopo un breve e rumoroso assedio alla sede del sindacato dei metalmeccanici a San Paolo.
L’ex presidente brasiliano vi si era rifugiato dopo la sentenza che lo condannava al carcere in attesa dell’appello, terza condanna di fila dopo i 9 anni e 6 mesi presi in primo grado e i 12 anni e un mese in secondo grado.
Cella singola con bagno e doccia, un tavolo una sedia un letto… e un televisore per vedere l’adorato Corinthians in finale col Palmeiras (sarà il solo vero privilegio concessogli).
Formalmente è la corruzione la pietra tombale sotto cui Lula viene seppellito. In sostanza, è la conclusione del golpe più lungo del mondo: venti mesi di miracoli giudiziari, mediatici e politici con cui una cupola di banchieri, proprietari di televisioni e grandi imprenditori ha trasformato un sogno in un incubo. Venti mesi, dall’impeachment contro Dilma Rousseff all’incarcerazione di Lula.
In prigione, il presidente operaio c’era già stato. Era aprile anche quella volta, nel 1980 – in piena dittatura militare – quando gli agenti del Dops (Departamento de ordem politico e social, il braccio armato del regime) lo catturarono per “attentato all’ordine nazionale”, cioè uno sciopero. Nella foto segnaletica Lula ha un barbone scuro. Lo trattano bene, chiede un solo privilegio, concesso: la televisione. È sabato, domenica gioca il Corinthians…
Quella volta, Lula uscirà dopo 31 giorni per fondare il Partido dos trabalhadores e dare l’assalto al cielo. Questa volta, in carcere ci è stato trascinato urlante e scalciante, giurando innocenza e accusando gli accusatori. Ma la barba è bianca, ha 73 anni, e in quella cella potrebbe restarci per altri 12. Sono tante partite del Corinthians.
Nel 2002, quando mise giacca e cravatta e addolcì la linea anti-banchieri diventando Presidente, fu l’inizio di una profonda riforma a colpi di welfare: sanità, scuole, assistenza ai poveri, cibo ai più indigenti. Per otto anni il Paese crebbe, milioni uscirono dalla povertà, il Brasile diventò una potenza. Ma per otto anni il Pt conobbe il sapore del potere, con conseguenze spesso nefaste. Fioccarono gli scandali, la corruzione spicciola e quella organizzata, come il mensalão, uno schema di acquisto di voti parlamentari. Il Pt sottovalutò enormemente la corruzione del potere.
Nel 2010 la presidenza passa a Dilma Rousseff, che sfida la finanza e fa crollare i tassi del debito brasiliano. All’improvviso i detentori di titoli pubblici vengono pagati la metà di prima, nonostante sia un generoso 7% circa, e il Brasile smette di pagare 250 miliardi di reais per arricchire fondi internazionali di investimento e un pugno di speculatori nazionali. Nel frattempo, ha letteralmente trovato il petrolio: è del 2007 la scoperta di giacimenti sottomarini al largo di Rio de Janeiro, i “pre-sal”, difficili da mungere ma più generosi del Kuwait.
Un Brasile che non paga più rendite parassitarie, pieno di petrolio, che investe nel welfare: insopportabile. Ed è partita la reazione.
L’inchiesta ormai arcinota si chiama “Lava Jato”, come gli autolavaggi in cui i primi intercettati si incontravano. Il giudice che la guida si ispira a Di Pietro. Si chiama Sergio Moro, inizia come macinatore di corrotti pubblici, ma mentre cresce il suo carniere (per ora circa 500 politici a tutti i livelli) l’inchiesta cambia pelle e punta su Lula e Dilma, nel frattempo cacciata dalla presidenza da un voto di impeachment basato su irregolarità fiscali e sul tradimento del suo vice, l’attuale Presidente Michel Temer. E mentre Temer smantella il welfare del Pt, il giudice Moro indirizza l’inchiesta contro i suoi leader.
È una lotta contro il tempo: entro il 15 agosto Lula deve presentare la candidatura alle presidenziali dell’ottobre 2018 e ha il 35% di gradimento: se arriva alle urne vince. Ma la legge detta “Ficha Limpia”, voluta proprio da lui, impedisce di candidare chi ha condanne pendenti. E la macchina della giustizia brasiliana, che ha i tempi di un ghiacciaio, diventa un ghepardo. È questo il senso di una vera e propria restaurazione antidemocratica, che spazzerà via il processo di riforme voluto dai leader petisti.
L’inquisitore Sergio Moro, innanzitutto, fa sia il pm che il giudice. È la legge brasiliana, farebbe rabbrividire Cesare Beccaria ma è così. Moro è un quarantacinquenne d’assalto, di orientamenti chiarissimi: è Cavaliere di Gran Croce della massoneria brasiliana ed è onorato dall’Ordine al merito giudiziario dell’esercito. La sua arma è un patteggiamento premiale che si chiama delação. A Lula ha riservato quella che i brasiliani hanno chiamato delação do fim do mundo, come la bomba di Stranamore. È la confessione di 78 manager della mega-impresa di costruzioni Odebrecht, cuore dei pagamenti illeciti insieme a Petrobras, l’azienda di stato del petrolio. Hanno fatto i nomi di centinaia di politici, compresi Lula e Dilma. A tempo di record, il pm Moro diventa il giudice Moro e condanna Lula a 9 anni e mezzo per un lussuoso appartamento di 215 metri quadri su tre piani a Guarujà, sulla costa di San Paolo, dono di una società di costruzioni del gruppo Odebrecht che in cambio avrà appalti. Non importa che il triplex non sia intestato a Lula né a familiari o prestanome, che lui non abbia le chiavi, che non ci sia mai andato a stare, che persino il patriarca Emilio Odebrecht neghi di avergli mai dato case o soldi: la delação do fim do mundo è legge.
Il giudice di secondo grado Leandro Paulsen, che dovrebbe controllare il primo, batte un altro record e legge le 250mila pagine dell’inchiesta in soli 6 giorni. Per concludere che la prigione deve salire a 12 anni e 1 mese. Quando gli arriva la sentenza Lula, quel giudice ne aveva già altre sette da esaminare. Le mette tutte in coda: Lula va servito subito.
Tra una delação e l’altra, Sergio Moro comincia a rivelare atti coperti da segreto, fa filtrare intercettazioni, chiede l’arresto di Lula per poterlo interrogare in manette. Cerca una legittimazione popolare, e il gruppo Globo – il vero impero mediatico d’America latina – non fa mancare l’appoggio.
Così guarnita, la sentenza Lula arriva al Tribunale regionale superiore, il Trf-4, che deve decidere se l’ex Presidente deve attendere in carcere o in libertà l’esito degli appelli. Come andrà a finire, lo anticipa un’intervista a O Estado de Sao Paulo del presidente del tribunale: “Sentenza irreprensibile”, dichiara, ben prima del voto degli 11 togati. Sale la temperatura e scalpitano anche i generali, il comandante delle forze armate, generale Eduardo Villas Boas, twitta che l’esercito “ripudia l’impunità”, seguito da un coro di stellette entusiaste, tra cui il presidente del Club Militar (da cui partì il golpe del 1964) generale Luiz Gonzaga Schroeder Lessa: se Lula non va in galera “ci saranno violenze”, e dovremo “ripristinare l’ordine”. I giudici votano 6-5, Lula va in cella.
“Non temo un altro golpe perché già ci siamo dentro”, dice Frei Betto, ex ministro del primo governo Lula. “Viviamo in uno stato di eccezione dalla nascita del governo Temer, con la sua corte di corrotti e i pronunciamenti dei generali”.
C’era una volta il sogno di un altro Brasile possibile.
Roberto Zanini, giornalista, già redattore capo de il Manifesto
Pubblicato lunedì 16 Aprile 2018
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