Cari compagni, cari amici iscritti alla nostra Associazione, spero di non irritarvi troppo trattando in forma di lettera aperta (dunque una scrittura domestica non accademica, non dalla cattedra) il tormentoso argomento del femminicidio. Cioè dell’uccisione di una donna in quanto donna.
Ma allora perché non donnicidio? Vado a controllare sui dizionari e scopro che donna significa “femmina dell’uomo”, cerco uomo e non trovo “maschio della donna”, bensì “essere dotato di ragione, che dà il nome a tutte le cose, a quelle che sono in quanto sono, a quelle che non sono in quanto non sono”.
Mi trovo tra stupefatta e impaurita: se lui incomincia a pensare che io sono tra le cose che non sono, mi elimina di botto. Vuol dire che alla base dell’uccisione di una donna in quanto donna c’è il fatto che essa sia considerata una cosa, non una persona. E una cosa può essere buttata sfatta distrutta da chi ne è possessore o proprietario. Ciò avviene da alcuni millenni nella nostra grande civiltà occidentale (ma non va poi meglio sotto altri punti cardinali): basta fare un rapido ripasso delle relazioni tra donne e uomini. Nello Stato avviene tardi addirittura l’idea che la donna possa avere diritti pari a quelli degli uomini. Per esempio il diritto alla inviolabilità del corpo: lo stupro era un reato contro la morale, non contro la persona, come ci accorgemmo nel fare una legge contro la violenza sessuale: un’impresa difficilissima, tanto che ci mettemmo due intere legislature per avere una buona legge, migliore di quella di quasi tutti gli altri Stati europei.
Si tratta di materia importante che si riferisce a ciò che accomuna tutti e tutte gli e le appartenenti alla specie umana e ci distingue dagli altri animali, cioè l’uso della parola come veicolo delle relazioni tra uomini e donne. Per questo le relazioni tra i generi della specie umana sono la misura del livello di civiltà: sempre per la straordinaria importanza delle relazioni tra gli e le umane, il livello di civiltà si può misurare o almeno intuire dal grado di civiltà delle relazioni tra i generi: si possono dunque misurare spostamenti indietro e in avanti, verso l’alto o il basso. Insomma ci si rende conto che donne vengono uccise – una ogni paio di giorni – nel nostro civilissimo Paese per l’unica colpa di non volere più, interrompere, rifiutare, respingere, una relazione che durava anche da tempo? e non è questo un segno della crisi generale che sta nel nostro tempo? e che non riguarda solo la finanziarizzazione dell’economia? Credo proprio di sì, e pur non essendo molto appassionata di pene né di delitti, non posso trattenermi dal chiedere che i maschi che si ritengono civili analizzino le loro reazioni al racconto dei numerosi femminicidi, e se si ritrovano indifferenti o addirittura hanno qualche mozione di simpatia/complicità con gli assassini, si esaminino attentamente, vadano da una brava psicologa, facciano con noi qualcosa per respingere questa vergogna. Ad esempio evitino di ridere al racconto di violenze, mostrino schifo ribrezzo disprezzo verso chi le compie.
Credo si debba chiedere il ripristino dell’educazione civica e sessuale, in modo che non si impiantino proprio nelle scuole degli anni più teneri della vita dei tremendi pregiudizi verso il genere femminile.
Viene talvolta rimproverata l’abitudine a vestire in modo molto sommario. Sarà il caso di ricordare che i grandi sarti sono spesso uomini e si chiede loro che non sfoghino le loro repressioni in una finta libertà di mostrare il corpo, che è di per sé un capolavoro, che si deve imparare a rispettare nudo o vestito anche quando l’età o la malattia non lo fanno più “bello”.
E infine, basta con le polemiche che colpevolizzano le madri che vestono le bambine in modo “seduttivo”. In realtà è il mercato che impone gli stili della moda e i modelli di comportamento, usurpando una funzione della società. Ma il mercato è cieco, letteralmente: non vede gli effetti dei codici che prescrive alla società. E’ alla società, alle persone, che va restituito il potere di dettare le norme dell’agire, di distinguere quelle che comportano offesa o cancellazione o calpestamento dei diritti altrui, di manifestare, in ultima analisi, l’autonomia del costume.
Qui c’è un invalicabile stop e chi non lo vede è a rischio di disumanizzarsi, insomma è la barbarie.
Lidia Menapace, partigiana, componente del Comitato Nazionale ANPI
Pubblicato venerdì 17 Giugno 2016
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