La Legge di Stabilità, che ha preso il posto della Legge Finanziaria, costituisce lo strumento principale a disposizione del Governo per perseguire i propri obiettivi in materia di Finanza pubblica, dunque di entrate e uscite del bilancio pubblico. Il Governo, entro la scadenza di metà ottobre, ha presentato la Legge di Stabilità per il 2016 e ora si sta svolgendo il dibattito parlamentare che porterà all’approvazione della versione definitiva della Legge. Una valutazione puntuale dovrà quindi attendere il completamento dell’iter parlamentare, tuttavia quel che si conosce già è probabilmente sufficiente per esprimere una valutazione, soprattutto se questa si rivolge all’impianto complessivo della Legge, alla sua filosofia di fondo, che certamente non verrà scalfita dal passaggio in Parlamento.
Per comunicare la Legge di Stabilità, e assecondarne un’interpretazione ottimistica, il governo ha scelto lo slogan “l’Italia con il segno più”, dove il segno più riguarderebbe la forza, l’orgoglio, la semplicità e la giustizia. È stato anche molto enfatizzato il taglio delle tasse, in particolare quelle sulla casa e molto si è dibattuto della proposta del governo di elevare a 3000 euro, dai 1000 attuali, il limite ammissibile per i pagamenti in contanti, da molti considerata una misura che favorisce la già elevata evasione fiscale di cui soffre il nostro Paese. Ma molte altre sono le misure degne di attenzione contenute nella proposta di Legge di Stabilità. Si è anche discusso della complessiva entità della manovra di Finanza pubblica prevista dalla Legge e dei suoi effetti sul deficit pubblico. Al riguardo le alchimie finanziarie sono tali da non poter stabilire con assoluta certezza cosa accadrà al bilancio pubblico. Ma non è su questi aspetti, che potranno peraltro essere almeno in parte modificati prima dell’approvazione finale della Legge, su cui vorrei soffermarmi. Le brevi riflessioni che formulerò riguardano, come ho già accennato, la filosofia di fondo di questa Legge e la visione dei problemi della nostra economia e del modo in cui farvi fronte che da essa traspare.
È noto che nel nostro Paese la disoccupazione è molto alta, le disuguaglianze di reddito sono ampie e sotto molti aspetti inaccettabili, la povertà si è drammaticamente diffusa raggiungendo valori da massima allerta, gli investimenti (pubblici e privati) dai quali dipende non soltanto l’occupazione e la produzione corrente, ma anche la futura capacità produttiva (oltre che più in generale la futura qualità della vita) languono, le prospettive dei giovani di accedere a un percorso di vita decente si fanno sempre più flebili. Esorcizzare questo quadro con il riferimento ai decimali di recente miglioramento in alcuni dati sull’occupazione o sul Pil (peraltro meritevoli di attente interpretazioni circa la loro effettiva portata e comunque non ancora consolidati) significa compiere un esercizio di ottimismo, chissà quanto responsabile. Il fatto è che le politiche sin qui adottate hanno dato scarsi frutti e questo, per molti, non è sorprendente. Le politiche a cui mi riferisco sono quelle allineate alla filosofia dominante a livello europeo e cioè, per dirla in breve, rigore nei conti pubblici, riforme cosiddette strutturali nei mercati (che si risolvono soprattutto nel rendere sempre più flessibile il mercato del lavoro e, quindi, nel contenere i salari) restringimento della presenza pubblica nell’economia, attraverso la riduzione delle tasse e della spesa e l’apertura alle privatizzazioni. La Legge di Stabilità, per quanto di sua competenza, sembra allinearsi perfettamente a questa filosofia.
Il rigore si manifesta nell’obiettivo di ridurre il deficit in rapporto al Pil dal 2,6 al 2,2%. Ciò vuol dire che in un modo o nell’altro ne soffrirà la spesa pubblica. Se si pensa al bisogno che abbiamo di misure in grado di alleviare le forme più estreme di povertà, questa scelta appare quanto mai discutibile, ed è così anche se altre risorse dovessero essere dedicate a questo obiettivo: la gravità del problema richiede il massimo sforzo. Come ben si sa, usare il rigore per i conti pubblici in periodi di crisi è assai meno giustificabile che in periodi di buon andamento dell’economia, sia per ragioni di equità che per ragioni di sostegno all’attività economica. Naturalmente si può sempre sostenere che le risorse destinate alla spesa pubblica potrebbero risolversi in uno spreco e non in un effettivo contrasto del disagio sociale (o nel conseguimento di altri meritori obiettivi). Ma di fronte all’argomento per cui gli sprechi in alcuni ambiti giustificano tagli generalizzati, non si può non chiedersi se non sia compito del governo evitare quegli sprechi e destinare le risorse così recuperate a uno dei tanti usi economicamente e socialmente utili. La Legge di Stabilità non sembra favorire in alcun modo un cambiamento di verso a questo riguardo.
Rispetto al ruolo del pubblico e del privato nel rilancio dell’economia, la Legge di Stabilità sembra fare propria l’idea che il rilancio degli investimenti deve essere affidato ai privati, ai quali occorre offrire condizioni più favorevoli in termini di costo e flessibilità del lavoro, da un lato, e di altezza delle imposte, dall’altro. Non vi è praticamente nulla, nella Legge di Stabilità, favorevole al rilancio degli investimenti pubblici anche e soprattutto di tipo infrastrutturale, magari in sinergia con il tanto discusso (ma insufficiente) piano Juncker di investimenti. Si può dire che questo dipende dai vincoli finanziari, ma non sarebbe corretto se non altro perché, con opportune e legittime strategie, quei vincoli possono essere, almeno in parte, superati. Peraltro alcuni investimenti di cui vi è gran bisogno – come, appunto, quelli in infrastrutture – non possono essere effettuati dai privati. D’altro canto, queste misure difficilmente avranno un positivo impatto sulla nostra struttura industriale e produttiva in modo da renderla più idonea a fronteggiare le sfide internazionali e quindi più capace di creare occupazione con prospettive di stabilità per i nostri giovani, spesso molto dotati di “capitale umano”.
In conclusione, si può prevedere che i più gravi i problemi della nostra economia non verranno alleviati da questa Legge di Stabilità. E purtroppo sarà così finché la filosofia che ho brevemente tratteggiato non verrà rivista. Se qualche piccolo miglioramento abbiamo registrato (o, quanto meno, se il peggioramento non è stato più grave) lo dobbiamo a interventi che non sono del tutto coerenti con quella filosofia, come quello messo in atto dalla Banca Centrale Europea con la creazione di una gran massa di liquidità attraverso il cosiddetto Quantitative Easing. Ma la revisione di quella filosofia richiede che il governo usi diversamente gli spazi di cui dispone e si adoperi seriamente per allargarli, anche e soprattutto a Bruxelles.
Maurizio Franzini, docente di Politica economica all’Università “La Sapienza” di Roma
Pubblicato venerdì 20 Novembre 2015
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