Lunedì 31 gennaio, ore 18.30. È convocata dall’ANPI di Bruxelles una riunione con i rappresentanti di vari partiti democratici europei; c’è un solo punto all’ordine del giorno: l’annuncio della nomina di Wolfgang Schüssel a Cancelliere della Repubblica d’Austria. Benché non sia il temutissimo Jörg Haider, leader dell’FPO (il partito della libertà), è evidente l’influenza di quest’ultimo sul governo di coalizione, forte del suo quasi 27% raccolto alle urne. L’Europa è sotto choc, è l’anno 2000 e per la prima volta dalla fine della guerra un partito nazionalista è a capo di un Paese dell’Unione Europea. La presidenza di turno dell’Europa, portoghese, ha appena rilasciato una dichiarazione a nome dei 14 Stati Membri, nella quale ribadisce la preoccupazione comune di difendere i valori comuni europei quale un atto di necessaria vigilanza rafforzata. Quello che si era solo sussurrato nei corridoi del Consiglio alla vittoria della coalizione di centrodestra in Italia, diventa un fatto: in Europa c’è un governo i cui esponenti simpatizzano con la politica del regime nazista, dichiarando fra l’altro che le SS erano “una parte dell’esercito tedesco che dovrebbe essere onorata”.
Se nel 1994 era stato l’allora ministro belga delle telecomunicazioni, Elio di Rupo, a rifiutarsi di partecipare ad una riunione con il ministro Tremaglia – “Io non stringo la mano ad un neofascista” -, sei anni dopo è l’Europa intera a prendere posizione. Un compagno che lavora al Parlamento Europeo arriva con una bozza di un documento che sarà pubblicato due giorni dopo: la proposta di risoluzione dell’on. Baron Crespo, nella quale il Parlamento condanna “la retorica razzista, xenofoba e contraria all’immigrazione del sig. Haider e dello FPÖ, che è totalmente in contrasto con i valori fondamentali dell’UE”. Parole forti, che ricordano che “l’Unione Europea è una comunità di valori e che, in tale contesto, consentire la partecipazione dello FPÖ a un governo di coalizione equivarrebbe a normalizzare l’estrema destra, creando in tal modo un pericoloso precedente, con gravi conseguenze per gli altri Stati Membri nonché per i Paesi candidati all’adesione”.
Per la prima volta si invocano sanzioni europee verso uno Stato Membro, invitando la Commissione ed il Consiglio a sospendere i diritti derivanti all’Austria dall’applicazione del Trattato.
Sono passati 16 anni da quella riunione ed il 24 aprile scorso Norbert Hofer, candidato del partito della libertà (che ora si chiama Fpoe) alla presidenza della Repubblica austriaca, ha ottenuto il 35% delle preferenze, qualificandosi per il ballottaggio del 22 maggio prossimo.
Ma il contesto è purtroppo cambiato. Molti di quei 14 Stati che nel 2000 fecero fronte compatto contro il populismo di Haider hanno oggi governi di centrodestra ed un allargamento della UE precipitoso e certamente mal gestito presenta ora i conti, sommando ai Paesi retti da populisti o tentennatori un numero inquietante di governi di chiara matrice destrorsa, in cui le parole profetiche di Baron Crespo si sono realizzate: l’estrema destra è “normalizzata” e la retorica razzista, xenofoba e contraria all’immigrazione, pur totalmente in contrasto con i valori fondamentali dell’UE, amministra.
Elio di Rupo non è più al governo in Belgio, rimpiazzato da una coalizione in cui il ministro degli Interni partecipa, assieme ad altri alti dignitari, alle commemorazioni degli eredi delle SS fiamminghe; il primo ministro polacco liquida con parole sprezzanti una manifestazione che raccoglie oltre 240.000 persone nelle strade di Varsavia, per dire SI all’Europa e NO a svolte autocratiche; Viktor Orban, primo ministro ungherese, teorizza lo “Stato non liberale” i cui valori fondanti sono l’ordine, il controllo governativo della stampa, la famiglia, la religione, il culto della terra e la reintroduzione della pena di morte; anche questo 16 marzo i veterani della Legione Lettone, le SS baltiche, hanno sfilato a Riga sotto la protezione della polizia.
Sedici anni fa il Presidente della Commissione Europea era Romano Prodi, era un esecutivo forte di un’Unione Europea attenta, presente e con una “visione sociale”. Era l’Europa che metteva fine alle discriminazioni verso le donne nell’esercito, che adottava le prime posizioni sull’effetto serra e la strategia per potenziare l’occupazione in un’economia fondata sulla conoscenza, che promulgava il primo programma d’azione comune contro il crimine organizzato, proponeva la Grecia come dodicesimo membro della zona Euro e discuteva dell’ampliamento degli ambiti di cooperazione tra la UE e la Russia. Sembra di leggere un libro di storia e quando pensi che il 9 dicembre di quell’anno il Consiglio, riunito a Nizza, confermava la propria volontà di far sì che “la carta dei diritti fondamentali, proclamata congiuntamente dal Consiglio dell’Unione Europea, dal Parlamento Europeo e dalla Commissione, venga diffusa il più possibile tra i cittadini dell’Unione”, viene quasi il magone.
Dove è finita “quell’Europa”? Che cosa è successo al sogno spinelliano, di Schuman, di Monnet, di quei Resistenti che avevano gettato le basi per un mondo migliore?
La risposta è complessa, ma si riassume in un unico vocabolo: egoismo. L’egoismo degli Stati Membri da una parte, che hanno poco per volta svuotato la libertà d’azione della Commissione, nominando Presidenti deboli e mandando a Bruxelles Commissari che – nonostante il giuramento d’indipendenza – rispondono alle Cancellerie ed ai governi e non più ai cittadini d’Europa. È l’egoismo che prende forma nelle parole populiste, nelle paure dell’altro, del diverso, nella negazione stessa del concetto d’Europa, ricominciando a vedere “stranieri”.
I populismi assumono diverse forme e – senza andare al di là dell’oceano, dove un Mr. Trump incarna l’antitesi del periodo Obama – nel Vecchio Continente si nutrono della disaffezione verso i partiti tradizionali, acuendo le irragionevoli preoccupazioni del cittadino medio verso i profughi.
Norbert Hofer è un 45enne laureato in ingegneria che non fa mistero della sua passione per le pistole – gira regolarmente armato – e ha già dichiarato che, se sarà eletto, sfiducerà l’attuale governo qualora non adottasse misure più restrittive sui migranti. Varsavia e Budapest sono solidali nel comune “no” alle decisioni della UE sull’equa ripartizione delle quote di rifugiati. Polonia e Ungheria, assieme a vari Paesi dell’est – come la Slovacchia del socialista Fico – pur dovendo la loro rinascita economica e la conseguente prosperità agli aiuti di Bruxelles, rifiutano oggi ogni forma di solidarietà a Germania, Svezia, Italia e Grecia, in prima linea nel cercare soluzioni condivise al problema dei flussi migratori. Egoismo, una memoria storica a senso unico, una “visione a senso unico” dello stare assieme.
Se a Budapest l’opposizione cerca come può di contrastare il delirio della “Grande Ungheria”, che propugna una rivisitazione della storia in cui gli ungheresi sono sempre stati “vittime” della cattiveria di altri e debbono ora tornare ai fasti di un grande Paese, a Varsavia e nel resto della Polonia si moltiplicano le manifestazioni contro il governo.
La capitale – dal triste quartiere degli affari dei quasi grattacieli alle vie e piazze della città vecchia – è stata bloccata, l’intero fine settimana scorso, dai cortei che protestavano contro le leggi governative che hanno privato di potere la Corte costituzionale, rimosso i giornalisti “scomodi” dai media pubblici e messo il bavaglio alla stampa. Il Presidente della Camera, Grzegorz Schetyna, sintetizza così la posizione dei manifestanti: “È un governo che indebolisce e allontana la Polonia dai mercati mondiali e dall’ Europa”.
Ma il governo di Beata Szydlo, a detta di molti una marionetta nelle mani di Jaroslaw Kaczynski, leader della destra nazional-conservatrice, contrattacca sostenendo che la maggioranza degli elettori ha loro conferito un mandato preciso, e sostenendo che le opposizioni vogliono solo creare divisioni ed impedire di “costruire una Polonia più forte”.
Ancora una volta riappare l’egoismo nazionale, non la collaborazione e la cooperazione internazionale ma “il Paese prima di tutto”.
Austria, Polonia, Ungheria, Paesi Baltici, Slovacchia minano la coesione all’interno dell’Unione. I nodi irrisolti di Macedonia ed Ucraina la indeboliscono dall’esterno, con un comune denominatore: i valori fondanti della UE sono in pericolo e fatta salva una timida reazione per quanto riguarda la Polonia – che sembra aver passato il segno con la legge sui media e attaccando i diritti delle donne, suggerendo la soppressione di fatto del diritto all’aborto ed alla contraccezione d’urgenza – l’Europa tace.
La FIR, Federazione Internazionale dei Resistenti, lancerà nei prossimi giorni una petizione europea perché l’articolo 7 del Trattato, quello evocato dalla Risoluzione del Parlamento Europeo del 2000 contro l’Austria e mai applicato, quello che prevede che uno Stato Membro possa essere privato dei suoi diritti di voto quando non rispetta i principi della UE, divenga di applicazione diretta.
Occorre una risposta popolare contro il populismo, mai come ora è necessario un impegno dei singoli cittadini europei perché si ritorni sulla via maestra, in cui razzismo, xenofobia e populismi vari siano chiaramente estromessi da ogni politica nazionale e l’Europa torni ad essere un insieme di popoli, prima che di Stati.
Filippo Giuffrida, giornalista, Presidente ANPI Belgio, membro del Comitato Esecutivo della FIR in rappresentanza dell’ANPI
Pubblicato mercoledì 11 Maggio 2016
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