È senza dubbio il più importante episodio della Resistenza veronese: l’assalto al carcere giudiziario degli Scalzi a opera dei sei gappisti Aldo Petacchi, Emilio Moretto, Berto Zampieri, Lorenzo Fava, Vittorio Ugolini e Danilo Preto, compiuto il 17 luglio 1944 con il fine di liberare Giovanni Roveda che vi era detenuto.
Roveda era figura di spicco del sindacalismo italiano, nonché fra i fondatori del Partito comunista, considerato fra i più pericolosi nemici del fascismo dal regime, che lo condannò dapprima al carcere e poi al confino, da cui riuscì a fuggire nel marzo ’43. Catturato in dicembre a Roma dalla famigerata banda Koch, fu successivamente tradotto, il 6 gennaio 1944, al carcere degli Scalzi, dove venne registrato sotto falsa identità, vista l’importanza della sua figura. Dopo la sua liberazione, avrebbe assunto un ruolo di primo piano nella politica dell’Italia post-bellica, diventando il primo sindaco di Torino liberata, poi deputato della Costituente e infine senatore.
La commemorazione, in questo 2022 ricorreva il 78°, si è tenuta il 15 luglio scorso ed è coincisa con la prima uscita pubblica del neoeletto sindaco di Verona, Damiano Tommasi, che con grande chiarezza e semplicità ha annoverato questa memoria tra quelle costitutive della Repubblica Italiana: “I fatti che si ricordano oggi ci dicono chi siamo, da dove veniamo e quella storia che non dobbiamo mai dimenticare. L’attualità dà voce a parole come Libertà, Sogno, Speranza, Futuro, Diritti. Parole che non hanno colori politici e che dovrebbero essere portate in alto da tutti, come capi saldi della costruzione della comunità”.
E proprio perché Roveda è stato un grande e tenace rappresentante del sindacalismo italiano e dei diritti dei lavoratori, particolarmente significativa è che l’orazione ufficiale sia stata affidata a Maurizio Landini, segretario generale Cgil, che ha pronunciato parole sentite, autentiche e coinvolgenti, ricordando il ruolo importante che il mondo del lavoro ha svolto per sconfiggere il fascismo e il nazismo.
“Non è un caso – ha detto Landini – se uno dei primi atti promossi dal fascismo, fu proprio quello di eliminare la libertà sindacale anche attraverso gli assalti alle Camere del Lavoro. […] Giovanni Roveda era un operaio e fu tra quei sindacalisti che pagarono pesantemente il proprio impegno, venne infatti condannato dal tribunale speciale fascista, che processò più di 5.000 tra operai e contadini, su 6.400 processati complessivi; questo dato lo riportò Sandro Pertini in un intervento in Parlamento. Quando il fascismo occupò le sedi, chiuse le Camere del Lavoro, cancellò il diritto a eleggere le proprie delegate, i propri delegati e le proprie commissioni interne e rese illegale il diritto di scioperare, per difendere i propri diritti, limitò di fatto la libertà delle persone.
Nel 1943 e nel 1944, proprio attraverso la proclamazione di scioperi considerati illegali, si aprì una fase di contrasto decisivo al fascismo: allora, chi scioperava, rischiava la vita, alcuni manifestanti furono fucilati, altri inviati nei campi di concentramento”. E purtroppo le parole del segretario Cgil richiamano per analogia scene che avremmo voluto sentir raccontare appunto solo nelle commemorazioni e non più nella cronaca, come invece è avvenuto a Roma nell’ottobre 2021 con l’assalto alla sede nazionale del sindacato.
Ma come si arrivò alla liberazione di Roveda? La decisione di tentare di liberarlo fu presa dai gap veronesi non appena si scoprì la reale identità del prigioniero Giovanni Esposito, questo il nome con cui era stato registrato, ma la sua liberazione era auspicata anche dal CLN Alta Italia. È in questo contesto che si inserisce un’altra figura cardine di quel giorno, quella di Aldo Petacchi: fino al 2021, quando per la commemorazione Enzo Menconi ne raccontò la storia, poco o niente si sapeva su di lui, era l’unico dei sei gappisti a non risiedere a Verona, tanto che nei vari scritti e relazioni sulla vicenda viene indicato solo come “Petacchio”. Toscano di origine e gappista esperto, Petacchi accettò con entusiasmo l’ordine di Luigi Longo e Pietro Secchia di recarsi a Verona e tentare una missione che appariva quasi impossibile, anche perché con Roveda aveva stretto un legame di amicizia e stima reciproca durante il loro comune confino a Ventotene. Era l’unico dei sei che lo avesse conosciuto di persona. Questo particolare, per contro, mette in luce qualcosa che ha evidenziato anche Landini: “Alcuni di loro [gappisti] non conoscevano neppure Roveda, la persona che stavano andando a liberare, nonostante stessero rischiando di perdere la vita per salvarlo, perché consapevoli che la libertà e la democrazia erano beni più importanti anche della propria sopravvivenza”.
L’assalto al carcere non fu soltanto l’azione più importante dei gap veronesi, ma fu anche l’ultima: nella sparatoria che ne seguì, tutti i protagonisti, ad eccezione di Ugolini e Petacchi, riportarono gravi ferite che impedirono loro di proseguire l’attività partigiana; a subire le conseguenze più gravi furono Danilo Preto e Lorenzo Fava, i quali, nascosti dai compagni fra le rovine dei bombardamenti nel quartiere di Porto San Pancrazio, vennero catturati dalla Guardia nazionale repubblicana: Preto, il più giovane del gruppo, 22 anni ancora da compiere, morì poco dopo la cattura. La sorte di Lorenzo Fava fu, se possibile, ancora peggiore ma al contempo ancora più eroica: torturato per settimane e ormai conscio di ciò che lo aspettava, si assunse la colpa di tutte le azioni di sabotaggio compiute dai gap nei mesi precedenti, facendo così liberare i quindici cittadini veronesi che ne erano stati accusati. Venne fucilato il 23 agosto 1944 a Forte San Procolo all’età di 25 anni, tuttavia sarebbero dovuti passare altri undici mesi prima che la famiglia e i compagni scoprissero la sua sorte e potessero rendergli omaggio. A Lorenzo Fava e Danilo Preto è stata conferita, nel 1993, la Medaglia d’Oro al Valor Militare da parte del Presidente della Repubblica e questo, ha sottolineato il sindaco Tommaso, “non deve essere considerato un riconoscimento ‘di parte’ ma bensì la carta d’identità della città”.
Ricordiamo inoltre che “L’audace assalto al carcere degli Scalzi” è citato nella motivazione con cui il Presidente della Repubblica, il 25 settembre 1991, attribuì al Comune di Verona la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Deborah Fruner, che fa parte del direttivo Anpi di Verona e che lo scorso 15 luglio, alla cerimonia, portava orgogliosa il labaro dell’associazione, riflette: “Ci sono alcuni dettagli che mi hanno colpito, rileggendo le pagine di questa storia: piccoli particolari, forse, che credo però sia giusto ricordare. Penso al racconto che Giovanni Roveda fece del momento della fuga, quando Danilo Preto, già gravemente ferito e ormai morente, si preoccupò della salute dello stesso Roveda e affermò di morire contento sapendo che la missione era riuscita e che l’ormai ex prigioniero stava bene; penso a Emilio Moretto e a sua moglie, Concetta Fiorio, a lungo torturata nonostante fosse prossima al parto per estorcerle informazioni riguardo il marito, penso a loro che furono così segnati dagli eventi di quella giornata che vollero chiamare i loro due figli Danilo e Lorenza; penso infine a Forte San Procolo, il luogo cui Lorenzo Fava trovò la morte e dove, pochi mesi prima di lui, la stessa sorte era toccata ai gerarchi che il 25 luglio ’43 avevano votato la destituzione di Mussolini, e ci penso perché in quel luogo, oggi, c’è una targa a ricordare la fine di quei gerarchi, mentre nessun monumento è dedicato alla memoria di Lorenzo Fava e dei tanti altri partigiani che lì perirono”.
Pubblicato lunedì 17 Ottobre 2022
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