Il popolo curdo in Turchia, Iraq, Iran e Siria
Il popolo curdo in Turchia, Iraq, Iran e Siria (Central intelligence agency), da https://www.fanpage.it/esteri/perche-la-turchia-invade-la-siria-un-affare-da-27-miliardi-di-dollari/

Le ultime a morire sono state tre donne: Zehra Berkel, Mizgîn Xelîl ed Emîne Weysî, due delle quali attiviste politiche. Colpite da un drone turco nel villaggio di Helinje, vicino Kobane. Forse qualcuno ancora ricorda Kobane, la cittadina siriana al confine turco che con i caparbi abitanti cacciò l’Isis da quel territorio solo cinque anni fa. Oggi nel nordest della Siria si continua a morire ma per mano di un Paese Nato, la Turchia, che ha avviato pochi giorni fa un’operazione militare fuori dal proprio territorio dal nome “Artiglio di tigre” contro i combattenti del Pkk, il partito armato che Ankara considera terrorista.

L’intervento militare della Turchia è ufficialmente in corso in nord Iraq, altra zona a maggioranza curda, ma sta colpendo anche civili nel cosiddetto Rojava, cioè il nordest della Siria in mano ai curdi. Questa nuova operazione militare della Turchia contro i curdi – diretta, come dicono le agenzie governative, a stanare fino all’ultimo guerrigliero del Pkk – colpisce soprattutto civili: è stato bombardato il campo profughi di Makmour in nord Iraq (curdi scappati da un altro rastrellamento e pulizia etnica, altra storia che si insinua nelle pieghe del tempo) e l’area montagnosa del Sinjar, il territorio degli yazidi. Lì questi curdi di religione yazida furono massacrati dall’Isis che li considera “adoratori del diavolo”, le donne vendute come schiave. Il genocidio degli yazidi è stato sotto i riflettori per qualche tempo; si ricorderà il Premio Nobel per la pace dato a Nadia Murad, una ragazza che ha patito sofferenze indicibili e che attraverso la sua fondazione denuncia gli attacchi di queste ore a quel che resta della sua gente.

La curiosa coincidenza è che questa nuova operazione militare della Turchia – che pure in questo periodo è sulla scena mediterranea per il suo protagonismo nella “questione libica” – è stata avviata in concomitanza della Marcia per la democrazia partita lo scorso 15 giugno in tutto il Paese della mezzaluna promossa dal partito di sinistra e filocurdo Hdp (il Partito democratico dei popoli). «Abbiamo marciato per la democrazia, per la pace, la giustizia, i diritti. Abbiamo marciato per difendere 82 milioni di cittadini. Non abbiamo camminato da soli», dice la co-presidente del partito Pervin Buldan nella sua dichiarazione finale, nonostante la risposta violenta della polizia al corteo nelle varie città toccate in questi giorni, tra parlamentari malmenati, lacrimogeni e alcune persone in detenzione provvisoria. Da Edirne ad Hakkari e da Istanbul ad Ankara, migliaia di persone hanno camminato per le strade dalle due parti estreme della Turchia come gesto simbolico contro la repressione di Erdoğan in atto nel Paese.

Il logo della Marcia per la democrazia
Il logo della Marcia per la democrazia

L’idea è nata dopo che due parlamentari dell’Hdp, Leyla Güven e Musa Farisoğulları, sono stati sospesi, poi messi in detenzione cautelare e ora sono agli arresti domiciliari. Ci sono 9 deputati eletti in carcere e 31 sotto processo tra le file del partito filo curdo, spesso con accuse pretestuose o con la generica “propaganda a favore di organizzazione terroristica”. Accuse più volte definite illegittime dalla Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo).

Per tutto quello che sta avvenendo all’interno della Turchia in termini di violazione delle libertà dei cittadini e repressione le opposizioni parlano di un “nuovo colpo di Stato”: il Presidente arresta chiunque si opponga al suo disegno di controllo totale del Paese.

In carcere ci sono non solo politici, studenti, giornalisti, scrittori ma anche registi, artisti, musicisti come, per esempio, alcuni esponenti del Grup Yorum, un collettivo musicale turco attivo dal 1985, con 23 album pubblicati con celebri canzoni di denuncia sociale, e che finora ha subito più di 300 procedimenti giudiziari. Il 26 giugno si terrà a Roma un presidio presso l’ambasciata turca organizzato dal Comitato solidale Grup Yorum in supporto alle richieste della band: annullamento del bando ai concerti, scarcerazione dei membri del gruppo, fine delle irruzioni di polizia nel loro centro culturale di Istanbul e cancellazione dei nomi degli esponenti del gruppo musicale dalle liste dei ricercati.

Grup Yorum concerto
Un concerto dei Grup Yorum, DHA photo, da https://www.hurriyetdailynews.com/left-wing-folk-band-grup-yorum-attracts-tens-of-thousands-to-public-istanbul-concert-44920

Il giorno seguente, sabato 27 giugno, si manifesterà in tutta Italia per la liberazione di tutti i prigionieri politici, turchi e curdi, nelle carceri di Erdoğan. La mobilitazione decentrata si inserisce all’interno della campagna internazionale Solidarity Keeps us Alive per dare voce ai prigionieri politici in tutto il mondo e rompere l’isolamento nelle carceri. Per aver espresso opinioni o essersi impegnati in attività democratiche in Turchia ci sono circa 8mila prigionieri politici (di cui almeno la metà donne) e il numero aumenta di ora in ora. Dal 2016 (anno del fallito golpe) più di 90 sindaci eletti dell’Hdp sono stati sospesi e sostituiti con commissari governativi (ex prefetti o esponenti dell’Akp, il partito del presidente Erdoğan), 25 primi cittadini sono dietro le sbarre. Se in questa situazione di repressione e detenzione carceraria di massa si aggiunge anche il Covid, la miscela è esplosiva.

La Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa ha criticato la Turchia per la sostituzione dei sindaci eletti con il partito di sinistra e filocurdo Hdp: “decisioni preoccupanti”, basate su leggi approvate durante il periodo dello Stato di emergenza seguito al tentato golpe.

L’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Bolton, nel suo libro (che il presidente americano vorrebbe ritirare per le rivelazioni contenute al suo interno) definisce Erdoğan dittatore e lo paragona al Duce: «Ascoltandolo al telefono sembrava fosse Mussolini che parla dal balcone a Roma, sembrava fosse in cattedra e volesse darci una lezione».

Intanto qualche giorno fa la Corte costituzionale turca ha emesso una sentenza sul caso del leader curdo Selahattin Demirtaş che sfidò Erdoğan nelle scorse elezioni presidenziali (conducendo la campagna elettorale dal carcere, usando le brevi telefonate concesse alla famiglia). Il leader curdo, avvocato ed esponente del partito Hdp, in carcere dal 2016, deve essere risarcito perché la sua carcerazione ha superato un periodo di tempo ragionevole ed è stata violata la sua libertà. La guerra interna ed esterna di Erdoğan continua indisturbata.

Antonella De Biasi. Giornalista e saggista. È stata redattrice del settimanale La Rinascita della sinistra. È coautrice e curatrice di Curdi (Rosenberg & Sellier 2018)