Articolo apparso la prima volta su Nazione Indiana, il 15 novembre 2013
Non s’intitola una via, un monumento, un ponte con leggerezza e superficialità. Non lo si fa perché piace o perché a un’amministrazione comunale va così. E infatti non credo che il proliferare di targhe e targhette dedicate a militi e marescialli fascistissimi discenda da decisioni prese con avventatezza. Si tratta piuttosto di casi balordi di revisionismo tenace, quando va bene, o di scura arroganza, di provocazione beota, negli altri casi. C’è dunque da sbizzarrirsi; ed è difficile dire quale delle due cose sia peggio.
La Storia della Repubblica italiana, la Storia con la S maiuscola, fatta di tante storie relative, ma così importanti da diventare somme, discende solo da chi, per esistere, ha Resistito (scrisse il partigiano Beppe Fenoglio: “partigiano, come poeta, è parola assoluta”, non ammette le gradazioni, non sente le scalfitture, non teme i distinguo, né quelli doverosi portati dalla ricerca storica, né quelli arbitrari e degenerati avanzati dai revisionismi). Ed è la Storia stessa a insegnare perché è giusto celebrare cinque partigiani e non venti repubblichini. Non solo, come scrisse una volta Alberto Asor Rosa, parafrasando Italo Calvino, perché “dietro il milite delle brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; [mentre] dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono”; non solo perché le camicie nere seguitarono a combattere a fianco di una potenza, o forse sarebbe meglio dire ai piedi di una potenza, quella tedesca, entrata da invasore in territorio italiano; non è giusto – non dico ricordarli, ché quello si può anche fare, ma celebrarli – perché i militi che decisero di intraprendere la via più nera, non volevano l’Italia del 25 aprile, del 2 giugno, della Costituzione, non volevano un posto libero, pacifico, democratico. Volevano ancora obbedire e odiare perché ai loro occhi quello era l’insegnamento più gagliardo che avessero mai ricevuto. Alcuni, coi decenni, se ne pentirono. Fortunati quelli che hanno provato vergogna e hanno sofferto nelle loro coscienze. Ma spazio per celebrarli non ce n’è.
Il giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt, che pure fu iscritto al Partito nazista, seppe scorgere con asciutta precisione alcuni agghiaccianti aspetti di quella guerra che vollero le alte gerarchie tedesche e alla quale furono costretti i partigiani, una “guerra dell’inimicizia assoluta”, una guerra che “non conosce alcuna limitazione. Trova il suo senso e la sua legittimità proprio nella volontà di arrivare alle estreme conseguenze”. E ancora: “Il partigiano moderno non si aspetta dal nemico né diritto né pietà. Egli si è posto al di fuori dell’inimicizia convenzionale della guerra controllata e circoscritta, trasferendosi in un’altra dimensione: quella della vera inimicizia, che attraverso il terrore e le misure antiterroristiche cresce continuamente fino alla volontà di annientamento”. Quelle furono le condizioni. Anche in Italia: i militi della Rsi, asserviti alle divisioni tedesche, vollero una lotta che non ebbe più nulla di umano, niente regole, niente misericordia, nessuna norma bellica. Basti pensare alla infame e spietata violenza che seppero perpetrare anche verso i civili. Si calcola che furono tra i dieci e i quindicimila quelli uccisi dai militari tedeschi o della repubblica sociale tra il 1943 e il 1945. Solo dell’agosto ’44 – e pesco quasi a caso – si possono ricordare diversi episodi che dimostrano la schifosa perversione nazifascista: dall’abietto informatore olandese della Gestapo che il 4 agosto comunica alle forze naziste il nascondiglio della famiglia di Anna Frank; alla fucilazione senza processo, sei giorni dopo, in piazzale Loreto a Milano, di quindici partigiani prelevati dal carcere di San Vittore (a sparare furono i militi della Legione Ettore Muti); a una delle più spaventose tragedie dell’umanità: il massacro di Sant’Anna di Stazzema, 12 luglio 1944, oltre 500 civili trucidati dalla sedicesima divisione delle SS.
Bene. E cosa si fa oggi in Italia? Si preserva, certo, il ricordo di chi ha dato la vita per Resistere. Ma non si fa abbastanza per tenere a freno chi sputa su quella memoria, e soprattutto chi bellamente vuole affiancarvi altre memorie, più torve e non degne di essere innalzate al pubblico ricordo. C’è allora chi genericamente vuole incidere targhe a ‘martiri’ fascisti. Ma già in termini filologici la questione non sta in piedi: martire è colui che per testimoniare una fede immola la propria vita in presenza di una forma di persecuzione. E durante il ventennio, e anche dopo, sotto la vergognosa repubblica sociale, quale persecuzione hanno mai subito questi ‘martiri’?
La faccenda diventa particolarmente grave quando la celebrazione, anziché procedere da qualche fanatico (come a Girifalco, provincia di Catanzaro, dove ai piedi della madonna di Monte Covello è apparsa, nell’agosto del 2012, una targa dedicata ai martiri fascisti; e pochi giorni or sono la locale sezione della Fiamma Tricolore ha organizzato una lugubre manifestazione con tanto di saluto romano e magliette con lo slogan: ‘fiero di essere dalla parte sbagliata’), è coltivata pubblicamente dalle amministrazioni comunali. A Voghera, a esempio, dove nel 2010 la giunta Pdl e il sindaco ‘afflissero’ la popolazione con una targa in memoria di sei repubblichini, appiccicata, guarda caso, proprio sul muro del Castello Visconteo, che durante la Resistenza fu una gattabuia per partigiani e antifascisti.
Ma poi c’è Cremona dove la giunta comunale, sempre nel 2010, ha intitolato una via a Aldo Protti che, oltre a essere stato un buon baritono, con quella sua voce fece il fascista fanatico, in Val di Susa, e cantò allegramente accompagnando la marcia delle camicie nere che salivano a fare i rastrellamenti – più di quaranta, per inciso – su ordine di quello squadrista di Roberto Farinacci.
Avanti. Ci sono comuni più o meno grandi dove le amministrazioni amano tirare fuori dai bauli ferrati vecchi cimeli e altre anticaglie: nel piccolo paese di Salle, in Abruzzo, il sindaco, Florindo Colangelo, ha deciso di rispolverare a pochi giorni dalla Festa della Liberazione un marmo del 1933 col quale il Municipio ringraziava ‘l’uomo del destino’ per avere ricostruito il paese dopo il terremoto (come se ricostruzione rimasse, anziché con atto dovuto, con dono elargito).
A Brescia, poi, s’è tentato di fare le cose più in grande. Fin dal 2011 infatti la giunta comunale aveva proposto, dopo un restauro che è infine costato 150.000 euro, la ricollocazione in Piazza Vittorio del Bigio, il colosso realizzato da Arturo Dazzi nel 1932, un bolide che venne elogiato da Mussolini come raffigurazione dell’Era fascista. Figuriamoci! Poi son venute le proteste, l’Anpi ci ha messo anima e corpo e il colosso alto sette metri e mezzo per ora se ne sta nei sotterranei. Ma Emilio del Bono, sindaco di Brescia dal 10 giugno scorso, non ha intenzione di buttare alle ortiche i soldi spesi per far bello il Bigio.
E di palanche (poche o tante che siano) spese male ce ne sono molte altre. Solo al massacratore di partigiani Giorgio Almirante sono stati dedicati, in giro per lo stivale, 40 strade, 5 piazze, 2 parchi, 1 ponte e 1 busto bronzeo. Quest’ultimo ad Affile, 1600 abitanti, in provincia di Roma, là dove la giunta comunale s’è data alla gioia pazza e ha inaugurato anche un sacrario a quel bel tomo di superfascista che fu Rodolfo Graziani (tirato in piedi con 130.000 euro sborsati dalla Regione Lazio). Brava persona, maestro di stragi e di perversioni, assieme a quell’altro gerarca, Ugo Cavallero, maresciallo d’Italia, al quale la giunta di Casale Monferrato, nel 2011, ha intitolato i Giardini Pubblici: per entrambi sarebbe sufficiente ricordare il ‘nobile’ comportamento tenuto durante la guerra d’Etiopia, quando non esitarono a adoperare su donne, bambini e vecchi, alcuni gas tossici non previsti dalle convenzioni internazionali.
Tant’è. Questo non è revisionismo. Peggio. Queste intitolazioni sono atti di provocazione, sono marche d’arroganza di una politica ‘bulla’ e smargiassa che calpesta ciò che ostacola il suo borioso cammino. Sono brutali e stolide dimostrazioni di forza che assomigliano a una pernacchia o alla idiota ostentazione di un paio di chiappe in mezzo alla strada. Ma hanno ben altro peso. Purtroppo. Gravano sulla memoria e la insudiciano come la bava molle di uno sputo in cima alla nostra Costituzione.
Che dire, infine? Che almeno sappiamo con chi si ha a che fare.
Articolo apparso la prima volta su Nazione Indiana, il 15 novembre 2013
Giacomo Verri, scrittore e insegnante di Lettere. Ha scritto su Nazione Indiana, Doppiozero, Il Primo amore, Nuova Prosa, LibriSenzaCarta, L’impegno. Ha collaborato alle pagine culturali del quotidiano l’Unità, e ora recensisce per Satisfiction e La poesia e lo spirito. Cura la rubrica Radici e Dedali sulla rivista Zibaldoni e altre meraviglie. Partigiano Inverno, testo finalista al Premio Calvino 2011, è stato il suo primo romanzo. Con Racconti partigiani torna a parlare di Resistenza, quella di ieri e quella di oggi. Dal 2016 ha inaugurato un proprio blog letterario: http://giacomoverri.wordpress.com
Pubblicato martedì 3 Ottobre 2017
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