Forse non esiste un incipit neutro per descrivere scenari come il Kurdistan di oggi, per raccontare le storie di cui si viene a conoscenza, per provare a trasmettere al lettore quel senso misto di stupore, rabbia, dolore, incredulità e molto altro che si prova a 70 chilometri da Mosul o davanti all’entrata del campo di Domiz.
Settanta chilometri da Mosul, sulla strada che porta da Erbil a Duhok. Circa due ore, a seconda del traffico e dei controlli ai checkpoint lungo una strada non sempre ben asfaltata. Dettagli. L’autista sorpassa lunghe file di camion che trasportano primariamente, mi sembra, benzina. Non parlo e non leggo il curdo, molti elementi mi sfuggono, ma non il racconto della donna, i nomi non sono importanti, che siede al posto di guida.
Sulla strada verso Mosul inizia il suo racconto. Poco più di cinquanta anni, una vita trascorsa a Mosul a insegnare all’Università. Una casa, un marito, due figlie e almeno cinque guerre alle spalle. In principio Saddam Hussein e Khomeini con i loro dieci anni di conflitto, poi il 1991, la guerra del Golfo, la prima guerra che il sottoscritto mediaticamente ricorda in prima persona. Ancora le vedo le luci dei bombardamenti trasmesse sul piccolo televisore della cucina insieme ai miei genitori. Lei ancora le ricorda quelle bombe: le due figlie di 7 e 3 anni strette al seno nella speranza che il buon Dio o chi per lui le risparmiasse. Ricordo bene invece un’altra parola: embargo, che durante la mia adolescenza non voleva significare, quasi, nulla. Per lei e la sua famiglia “embargo” ha voluto sin da subito significare una riduzione drammatica del salario: 10 dollari al mese e poi la mancanza di medicine. Il tutto nell’arco di pochi giorni. Un disastro. Poi il 2003, l’incertezza dei bombardamenti statunitensi, il suono delle sirene e le due figlie ancora lì, strette alla madre, recitando le stesse preghiere. La paura, il terrore, non fanno distinzione di età. E poi il 2005. Le prime avvisaglie di quello che sarebbe diventato l’autoproclamato Stato Islamico con Al-Qaeda in Iraq.
Per quanto assordante, il rumore delle bombe restava lontano, ma i militanti di ISIS, al Qaeda in Iraq o chi per loro no, sarebbero divenuti un incubo fin troppo familiare. Sarebbero spuntate come metastasi improvvise, inattese, con un impatto devastante sulla quotidianità dei cittadini di Mosul. Il primo contatto fu nel garage. Un foglietto lasciato sul cofano dell’auto, il cui contenuto può essere sinteticamente riportato come segue: diecimila dollari, in una busta di plastica ben chiusa, per la causa islamica, per l’Islam, in nome di Dio. Più che estremisti religiosi, salafiti osservanti, la richiesta di quei militanti rivelava immediatamente la loro natura: taglieggiatori di gente comune alla stregua di criminali, briganti, mafiosi. Un’organizzazione criminale in piena regola che con modalità arbitrarie pretende di piegare l’Islam ai suoi comodi.
Il racconto della donna prosegue. Ricevuto il biglietto, con il marito decidono di attendere, pensano di non dare seguito alla richiesta. Poi, alcuni giorni dopo, una telefonata con delle istruzioni molto precise sulle modalità di consegna del denaro. Anche qui queste sono incredibilmente simili a quelle di una organizzazione mafiosa: i soldi vanno messi in una busta di plastica ben sigillata e portati nel cuore della notte in un punto ben preciso del quartiere. Poco distante dalla loro casa. Al telefono il tono dell’interlocutore è assertivo, non c’è dialogo, non c’è possibilità di controbattere. E così i due, marito e moglie, decidono di pagare.
A un osservatore esterno la decisione può sembrare immorale e così, devo ammettere, è sembrata a me in principio. Eppure fin da subito si comprende come la decisione di pagare, di cedere al ricatto, di essere taglieggiati risponde a un bisogno primordiale: mantenere intatta la propria vita, la propria routine, il proprio lavoro, le proprie abitudini. Non si può permettere a una forza oscura, indefinita, di stravolgere la propria esistenza senza provare a difenderla. Anche a costo di dover gestire diversamente la propria morale e il proprio senso etico. Diecimila dollari in cambio della tranquillità, per sé e la propria famiglia, in un Paese lacerato dalle divisioni, in piena guerra, senza uno Stato, senza regole.
Il primo tentativo di consegnare i soldi fallisce, ma i bravi soldati di Dio tornano alla carica con nuove istruzioni. Questa volta la busta di plastica sparisce e con essa, momentaneamente, la paura. Si può tornare al proprio lavoro, dormire nuovamente con la luce accesa, evitare che ogni rumore provochi terrore. La vita torna a riprendere il proprio flusso, fino a che un giorno, sulla strada per l’Università, le realtà, nuovamente, assume contorni spaventosi.
C’è traffico. Le macchine di due conducenti si toccano. Uno dei due scende dall’auto, barba lunga e zuccotto nero in testa, rimane in piedi vicino allo sportello. Il tutto si svolge davanti agli occhi di chi ci sta raccontando la scena. Siamo in pieno giorno. I due automobilisti iniziano a discutere. Poi, a un tratto, l’uomo in piedi tira fuori un’arma e, serafico, fa fuoco sull’altro conducente. Rientra in macchina e riparte. Un’esecuzione in piena regola per dimostrare che i futuri criminali con la bandiera nera hanno sempre più potere in città. Poco importa la loro sigla all’epoca, nel 2005: nel caos di Mosul già si intravedono i drammatici segnali dell’ISIS. Ma non è abbastanza. La sera, mentre lei e il marito hanno già deciso di lasciare definitivamente Mosul raccogliendo in fretta e furia lo stretto necessario, arriva un’altra telefonata. Un amico di famiglia li informa che devono lasciare subito la città. Suo marito è curdo, è su una lista di epurazione appena stilata. In poche ore sarebbero venuti a prenderlo. Come queste notizie si vengano a sapere è molto semplice dirlo e spiega anche il perché di una successiva avanzata così rapida dell’ISIS in città o, se ancora non è ISIS, dei suoi embrioni geneticamente modificati. Già nel 2005, infatti, le tensioni su base etnica sono sempre più evidenti e pressanti, gli attentati in città si moltiplicano, la violenza degenera: l’ISIS getta le basi del suo successo.
La comunità sunnita di Mosul appoggerà infatti “gli invasori”. Non c’è un motivo unico per spiegare una scelta apparentemente folle che, invece, è solo disgraziatamente opportunistica. C’è chi si lascia affascinare dalla retorica di un Islam puro e rinnovato, chi si sente escluso dal nuovo corso sciita di al-Maliki, chi è rimasto senza lavoro dopo la distruzione dello Stato iracheno di Saddam e lo smantellamento dell’esercito (una grandissima quantità di abitanti di Mosul ha storicamente goduto di una occupazione statale), altri ancora credono di poter approfittare economicamente della popolazione stringendo alleanze con i nuovi arrivati e contribuendo a taglieggiare e saccheggiare gli abitanti della città. In ognuna di queste affermazioni c’è un fondo di verità.
Indipendentemente da qualsiasi analisi, per marito e moglie è ormai tempo di andare. Raccolgono in fretta e furia quanto possono trasportare in una sola macchina senza dare nell’occhio e scappano in macchina verso Duhok. Li aiutano alcuni studenti, entrambi sono docenti, che permettono loro di fuggire rapidamente e senza destare troppi sospetti. Solo lei avrà il coraggio di ritornare, una settimana dopo, per provare a raccogliere alcuni effetti personali: tre giorni chiusa in casa, senza mai uscire, mangiando quel poco che i vicini, di soppiatto, riescono a passarle. Luci spente, piedi scalzi per non fare rumore e poi via, ancora aiutata dagli studenti del marito. Tre, quattro, cinque cambi di macchina e ancora di corsa verso Duhok. Alcuni giorni dopo qualcuno, le raccontano i vicini, bussa alla porta. Uno, due, tre colpi, poi un raffica. Alcuni uomini sfondano la porta e occupano la casa che poi, racconteranno successivamente, diventerà magione di una delle “principesse dell’ISIS”. Donne che hanno effettuato scelte radicalmente opposte. Come la dentista del quartiere che ha accolto a braccia aperte le parole di Al-Baghdadi donando ai suoi uomini entrambe le sue figlie. Dopo la liberazione di Mosul, di loro nessuna traccia. C’è chi dice in Europa, chi in Turchia, chi semplicemente spera siano cadute sotto i colpi dei peshmerga.
Ciò che più sorprende dell’intero racconto è la naturalezza con cui questa donna ci racconta, senza retorica, una vita di sofferenze. A volte sorride, a volte persino ne ride di gusto, come quando dice che tutti gli iracheni avrebbero bisogno di un buon psicanalista. Non riesco a capire se si tratti di coraggio, di incoscienza, di una forma di reagire alla paura. Perché per lei, come per tantissimi altri, non è ancora finita. Si vocifera che in autunno si terrà un referendum popolare per l’indipendenza del Kurdistan il cui risultato si preannuncia schiacciante. A quel punto, quando gli iracheni curdi voteranno in favore della loro indipendenza, per lei e la sua famiglia ci sarà un nuovo, drammatico, dilemma da affrontare: rimanere? scappare? chiedere la cittadinanza come iracheni in un nuovo Stato? Pesanti incognite continuano ad affollare il futuro di questa donna e di altre migliaia, quando non milioni, di persone.
Lei ci sorride di nuovo e poi torna a guidare. Gli occhi fissi sulla strada: sterza, frena, si ferma, poi, dopo un attimo, riparte. Ancora una volta.
Marco Di Donato, ricercatore Centro Studi UNIMED
Pubblicato giovedì 15 Giugno 2017
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