Si può, attraverso un decreto legge, revocare in dubbio un’idea di convivenza civile basata sull’eguaglianza, il reciproco rispetto e la solidarietà, e capovolgere questi valori attraverso la creazione di un diritto diseguale, in funzione di un progetto di discriminazione legale tra cittadini e stranieri? È compatibile con la lettera e lo spirito della Costituzione repubblicana? Questi e altri interrogativi sono stati affrontati nel corso dell’incontro “Apartheid giuridico: riflessione a più voci sul Decreto sicurezza e immigrazione”, promosso il 22 ottobre dall’Anpi presso l’Istituto Sturzo di Roma. Un incontro teso e a tratti appassionato, che ha avuto come filo conduttore un esame approfondito delle numerose implicazioni del decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, “recante disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica”, meglio conosciuto come decreto Salvini. Il provvedimento, ha ricordato la giornalista di Radio articolo 1 Roberta Lisi coordinatrice dell’incontro, già nell’intitolazione stabilisce un raccordo arbitrario tra immigrazione e sicurezza, emblematico di un’impostazione, propria del governo in carica, che considera il fenomeno migratorio esclusivamente come un problema di ordine pubblico, ignorando del tutto le questioni relative all’accoglienza e integrazione, in continuità con una tradizione legislativa risalente alla legge Bossi-Fini e all’introduzione del reato di clandestinità, che nessuno dei governi successivi, malgrado l’impegno assunto da alcuni di essi in tal senso, si è preoccupato di cancellare: così che ancora oggi, chi dovrebbe vedersi riconosciuto il diritto a muoversi liberamente per il mondo, tanto più se sfugge a una realtà di miseria e guerra per cercare un futuro migliore, viene presentato da interessati imprenditori politici della paura, come una minaccia per la sicurezza dei cittadini.
Proprio su questo ultimo aspetto si è soffermato, nel suo intervento, il vice presidente dell’Anpi Emilio Ricci, che, nel ricordare le iniziative e il ruolo che l’Associazione dei partigiani ha svolto e intende continuare a svolgere per contrastare la recrudescenza di comportamenti razzisti e xenofobi nella società civile nelle istituzioni, ha sottolineato come il decreto legge n. 113 sia parte di un più esteso attacco ai diritti fondamentali e alla convivenza democratica – oltre che ai soggetti istituzionali ai quali la Costituzione affida il compito di garantire il regolare svolgimento della vita pubblica –, posto in essere da chi oggi ha responsabilità di governo, in nome di un’utilizzazione distorta e strumentale del consenso popolare. Di fronte a questi fenomeni, il punto di riferimento resta la Costituzione, con i suoi valori di solidarietà, di fratellanza e di eguaglianza, che ispirano politiche di accoglienza e integrazione, della cui efficacia e praticabilità testimonia l’esperienza del Comune di Riace.
Proprio sui problemi attinenti alla costituzionalità del decreto Salvini si sono soffermati Giulio Illuminati, docente di diritto processuale penale alla Luiss, e Rosa Ruggiero, docente di diritto processuale penale all’Università della Tuscia.
Il professor Giulio Illuminati ha esordito definendo il decreto legge “uno scatolone” pieno di norme eterogenee, accomunate dal fine, eminentemente propagandistico, di stabilire un’arbitraria connessione tra immigrazione e sicurezza, per incanalare sugli immigrati le tensioni derivanti da una diffusa condizione di disagio e insicurezza radicata nella nostra società. Nel complesso, peraltro, il decreto non sembra neanche adeguato a realizzare lo scopo dichiarato di pervenire a una drastica riduzione dei flussi migratori, e si presenta piuttosto come un affastellamento di norme ottusamente repressive, intese a limitare i diritti fondamentali degli stranieri, anche attraverso un allargamento degli spazi di discrezionalità amministrativa, soprattutto in favore dell’autorità di pubblica sicurezza, assecondata dalla fragilità dell’impianto normativo. Il decreto, palesemente inefficace per contrastare un fenomeno globale come l’immigrazione, è però un segnale forte nei confronti dei soggetti ai quali si dovrà applicare, a partire dall’abolizione della protezione umanitaria in favore di coloro che, pur senza avere lo status di richiedenti asilo o di rifugiati, per varie ragioni non possono esercitare i loro diritti nei Paesi di provenienza. L’introduzione di una casistica tassativa e molto restrittiva dei casi nei quali può essere concesso il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie è il presupposto per l’esclusione di tutte le altre molteplici situazioni previste. Che nella legislazione previgente trovavano una copertura mediante una previsione normativa che operava come norma di chiusura del sistema legale di protezione: le modifiche ad esso introdotte con il decreto legge n. 113 risultano peraltro difficilmente compatibili con l’articolo 10 della Costituzione, nella parte in cui riconosce il diritto di asilo e stabilisce che la condizione giuridica dello straniero sia regolata dalla legge in conformità alle norme e ai trattati internazionali.
Il professor Illuminati si è poi soffermato su altri aspetti specifici, ricordando che il principio della non retroattività dei decreti legge, sancito da una giurisprudenza ormai costante, dovrebbe escludere che la disciplina legale ora in vigore possa essere applicata a chi ha richiesto il permesso di soggiorno per motivi umanitari prima della pubblicazione del decreto n. 113. Inoltre, la detenzione amministrativa con provvedimento del questore convalidato dal giudice di pace, nel capovolgere il rapporto tra il secondo e il terzo comma dell’articolo 13 della Costituzione, sancisce un’ingiustificata diseguaglianza giuridica tra il cittadino italiano e lo straniero – il governo, tra l’altro, ha ignorato la giurisprudenza costituzionale e le censure su questa materia pronunciate contro l’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo – attribuendo al questore la potestà di adottare provvedimenti restrittivi della libertà personale indipendentemente dalla sussistenza dei casi eccezionali di necessità ed urgenza come sancisce la Costituzione (art. 13, terzo comma), affidando poi la convalida delle decisioni dei questori al giudice di pace, sulla cui adeguatezza a svolgere questo compito è lecito, quanto meno, esprimere dei dubbi.
La logica repressiva e propagandistica alla quale si ispira il decreto è suscettibile, peraltro, di produrre effetti criminogeni: la tipizzazione dei casi di concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari comporta l’esclusione del permesso di soggiorno per motivi di lavoro o di studio, con il probabile esito di ricacciare nella clandestinità persone che potrebbero avere invece una posizione regolare; analogo effetto di ampliamento del numero dei cosiddetti clandestini può derivare dal provvedimento di sostanziale eliminazione del Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati (Spar) e di trasferimento dei richiedenti asilo nei centri governativi di prima accoglienza, vere e proprie strutture di detenzione.
Anche la professoressa Rosa Ruggiero ha affrontato ulteriori profili di incostituzionalità del decreto legge, rimarcando in primo luogo l’insussistenza dei requisiti di necessità e urgenza che costituiscono il presupposto di costituzionalità della decretazione d’urgenza: già da questo elemento è possibile cogliere il carattere strumentale e propagandistico di un provvedimento che, oltre a deviare l’attenzione dell’opinione pubblica da questioni più gravi e veramente urgenti, capovolge la verità presentando l’immigrazione, numericamente in calo, come un’emergenza da fronteggiare con misure straordinarie. Riprendendo una considerazione di Illuminati, la Ruggiero ha poi sottolineato come il ricorso al decreto legge offra al governo la possibilità di strangolare il dibattito parlamentare, magari anche attraverso il ricorso il voto di fiducia. Nel merito, si è soffermata sull’articolo 14, che disciplina il caso della revoca della cittadinanza a seguito di una sentenza passata in giudicato per alcuni reati di particolare gravità. La disposizione – peraltro erroneamente collocata nel Titolo I che parla di immigrati, poiché attiene alla posizione di cittadini italiani – prevede una sanzione, la revoca della cittadinanza, che non è applicata a coloro i quali, riconosciuti colpevoli degli stessi reati, siano cittadini per nascita e non abbiano acquisito la cittadinanza successivamente: la differenziazione nel trattamento penale del cittadino in ragione della fonte della cittadinanza è una palese violazione dell’articolo 3 della Costituzione. Il decreto è censurabile anche per violazione dell’articolo 22 della Costituzione, a norma del quale nessuno può essere privato della cittadinanza o del nome per motivi politici: infatti il citato articolo 14 del decreto stabilisce che la revoca della cittadinanza sia disposta con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell’interno, cioè con un atto di natura squisitamente politica. Né si può escludere il contrasto con altre disposizioni costituzionali: l’articolo 27, nella parte relativa alla funzione educativa della pena, mentre il decreto prevede l’irrogazione di una pena che va nella direzione opposta della socializzazione; nonché l’articolo 117, sull’esercizio della potestà legislativa anche nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Nel complesso, ha concluso la professoressa Ruggiero, il decreto n. 113 introduce norme incostituzionali e antidemocratiche, che non dovrebbe trovare spazio nell’ordinamento di un Paese accogliente e ospitale, come l’Italia è stata e deve tornare a essere.
Don Luigi Ciotti, presidente dell’associazione Libera, ha sottolineato il rischio che un provvedimento come quello in discussione passi in un clima di indifferenza e di neutralità della società civile. Per questo è più che mai importante che ognuno si schieri e fronteggi apertamente una deriva xenofoba e razzista che legittima il maltrattamento dei più deboli, la frantumazione dello Stato di diritto e il tradimento della Costituzione, determinando un intollerabile abbassamento del livello di umanità. Tutto ciò mentre l’Europa cerca di eludere le proprie responsabilità e mentre le politiche di rapina dell’Occidente producono una grande deportazione dai Paesi più poveri, alimentata dalla dittatura delle multinazionali e dalla logica privatistica di appropriazione di beni essenziali. Come sempre, la faccia feroce nasconde fragilità: una società forte e accogliente è in grado di accettare le proprie fragilità, laddove invece una società preoccupata solo di alzare muri aggredisce la fragilità degli altri per evitare di riconoscere la propria.
In Italia – ha proseguito don Ciotti – si sta verificando un’emorragia di umanità che è anche emorragia di memoria: quello che sta avvenendo oggi, infatti, ricorda la sistematica utilizzazione del risentimento popolare che agevolò l’ascesa al potere di Mussolini: oggi come allora, le grandi paure della solitudine, del cambiamento, della povertà e della perdita dell’identità e della memoria possono concorrere alla ripresa del fascismo, sempre pronto ad avvantaggiarsi della fragilità e dell’astio diffusi nella società, tanto maggiori in quanto, in questi anni, i ceti popolari sono stati abbandonati da chi, per cultura e storia, avrebbe dovuto star loro accanto.
Rispondendo infine alla domanda rivoltagli da Roberta Lisi sull’articolo 36 del decreto legge, che autorizza la vendita a privati dei beni confiscati alla mafia, don Ciotti, nel richiamare quello che ha definito “il sogno” di Pio La Torre, e cioè vedere inseriti nell’ordinamento penale i reati di stampo mafioso e restituiti alla collettività i beni usurpati dalla criminalità organizzata, ha ricordato che la possibilità di vendere quei beni ai privati è già prevista dalla legislazione antimafia, come extrema ratio, a fronte dell’impossibilità di percorrere le altre strade previste dalla legge stessa; il presidente di Libera ha messo in guardia dal rischio di considerare le mafie un fenomeno superato, mentre occorrerebbe studiarne le trasformazioni recenti, e ha espresso forti perplessità sulla parte del decreto n. 113 che assegna un 40 per cento al ministero dell’Interno, un altro 40 per cento al ministero della Giustizia e solo il restante 20 per cento all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, in contrasto con le finalità sociali sopra richiamate.
Con un documentato intervento, l’ammiraglio Vittorio Alessandro, già Capo dell’Ufficio relazioni esterne della Guardia Costiera, si è soffermato sulla situazione dei salvataggi in mare, osservando preliminarmente che, a fronte di una flessione del numero degli sbarchi, ma non delle partenze dalle coste del Nord Africa, si sta verificando una situazione non soltanto di apartheid giuridico, ma anche umanitario, come mai si era avuta in passato, riguardante proprio quello che sta avvenendo in mare. Le statistiche sono, a questo proposito, inequivocabili: nel canale di Sicilia, negli ultimi quindici anni, si sono registrati 30mila annegati; nei primi sette mesi del 2018 se ne sono registrati 1.500, ovvero otto annegati al giorno; nel mese scorso, il 20 per cento delle persone partite dalla Libia risultano annegate o disperse. Si tratta di una contabilità della morte che non può non allarmare e turbare profondamente le coscienze, tanto più se si considera l’aumento del numero di persone abbandonate in mare dopo un naufragio.
Il soccorso in mare – ha proseguito l’ammiraglio Alessandro – deve essere tempestivo e si compone di due fasi, inseparabili: il salvataggio e il trasporto dei naufraghi in un porto sicuro; questi due elementi sono stati invece scissi, perché dopo il salvataggio ormai non si riesce più a trovare il porto sicuro. A fronte di una legislazione che contempla l’obbligo del salvataggio in mare, gli ostacoli burocratici frapposti alle operazioni di soccorso più recenti – malgrado l’assenza di un ordine scritto di chiusura dei porti, ma annunciato solo attraverso i social network – hanno fatto sì che quest’anno, sono occorsi ben 36 giorni per appena 5 soccorsi, con il salvataggio di 1028 persone: in un recente passato, ogni soccorso si esauriva nell’arco di 24 ore, certamente grazie a un impegno tecnico e organizzativo non indifferente.
Purtroppo, eventi che dovrebbero suscitare una reazione sociale di sdegno e di angoscia, si verificano oggi in un contesto di assuefazione e di indifferenza che viene assecondato e presentato sotto la veste mistificata del buon senso: il degrado culturale è giunto a un punto tale che Lega e Movimento 5stelle, pur all’apparenza politicamente distanti, hanno adottato concordemente la definizione di “taxi del mare”, per indicare le navi che intervengono per salvare vite umane; un’espressione purtroppo fortunata, che evoca il viaggio in mare come un gita di piacere, e che ha prodotto un profluvio di false notizie. L’esatto opposto di quanto, in passato, la nostra Guardia costiera ha fatto, ammettendo sulle navi i giornalisti, proprio affinché potesse essere reso pubblico e visibile il dramma di quanti venivano salvati, spesso nel momento dell’affondamento delle imbarcazioni su cui si trovavano. Oggi prevale, invece, nell’opinione pubblica il desiderio di non vedere, di ignorare i drammi dell’immigrazione, assecondato dalla propaganda gialloverde che diffonde una visione turistica del mare, da stabilimento balneare: in questo contesto si colloca anche la lotta, peraltro coronata da successo, contro le Ong sostenuta anche da organizzazioni neofasciste come “Generazione identitaria”. Nel Canale di Sicilia, le Ong hanno svolto in passato un ruolo importantissimo, sia di salvataggio, in particolare dopo la conclusione dell’operazione Mare Nostrum, sia di testimonianza e di informazione.
Oggi le Ong non operano più nel Canale, mentre si moltiplicano, al contrario, casi di omissione di soccorso, fino a ieri inconcepibili; mentre il tribunale dei ministri sostiene che, in assenza di un ordine scritto, il trattenimento prolungato in porto dei profughi accolti sulla nave Diciotti non integra alcuna fattispecie di reato, e mentre il governo italiano difende la credibilità della guardia costiera libica, di cui molti osservatori indipendenti sottolineano la contiguità con le organizzazioni degli scafisti. Quanto avviene oggi in mare costituisce dunque una esemplificazione dei processi di degrado culturale che accompagnano l’apartheid giuridico e umanitario; proprio per questo motivo, a conclusione del suo intervento, l’ammiraglio Alessandro ha auspicato la creazione di un Osservatorio sulle diseguaglianze e sulle diseguaglianze in mare.
A conclusione dell’incontro, la presidente nazionale dell’Anpi Carla Nespolo ha preliminarmente ricordato l’impegno morale e politico dell’Associazione nel contrastare l’indifferenza oggi prevalente nella società e nel lavorare per raccogliere e unire tutte le forze democratiche, in una fase caratterizzata da profondi cambiamenti, che investono il complesso degli asseti politici e sociali. L’Anpi, come è stato ricordato, ha promosso la riunione di numerose organizzazioni attorno a un parola d’ordine semplice ma di grande attualità: “Mai più fascismi, mai più razzismi” , un motto che assume un particolare significato in occasione dell’80° anniversario delle leggi razziali, in quanto evoca il binomio inscindibile tra fascismo e razzismo e chiama a un impegno quotidiano per contrastare la propaganda che sfrutta le solitudini e le povertà materiali e morali presenti nella società per alimentare, spesso con parole d’ordine accattivanti, l’odierna deriva xenofoba. Di quest’ultima, peraltro, non ha esclusiva responsabilità il ministro dell’Interno. Occorre infatti, ha ricordato la presidente, guardare anche ai disagi prodotti da un’Europa edificata sull’unione dei capitali e non dei popoli: i profeti del liberismo che oggi tuonano contro i rischi del sovranismo, dovrebbero comprendere che, nella fase politica attuale, le condanne non bastano. Anzi, possono addirittura rivelarsi controproducenti, se non si accompagnano a un profondo cambio di passo della politica dell’Unione, in direzione di un’Europa sociale e dei diritti, dell’Europa sognata dai padri fondatori e che ha garantito pace e prosperità dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Su questi temi, peraltro, ha informato Carla Nespolo, l’Anpi promuoverà, per il 14 e 15 dicembre prossimi, un incontro degli antifascisti europei, proprio al fine di ricordare che l’Europa di oggi è figlia della sconfitta del fascismo e del nazismo, per ribadire il significato e il valore dei principi democratici che hanno ispirato la costruzione europea e la Costituzione repubblicana italiana, e per concorrere al contrasto di politiche e prassi discriminatorie, fondamento, in Italia e in Europa, del diritto diseguale, basato non soltanto su parole d’ordine razziste e xenofobe, ma anche sulla violenza di genere e sulla discriminazione contro le donne.
Dopo avere ricordato che l’abuso della decretazione d’urgenza, richiamato in numerosi interventi, non rappresenta purtroppo un appannaggio esclusivo del governo in carica, la presidente Nespolo ha concluso il suo intervento esprimendo la propria adesione alla proposta di dare vita a un osservatorio delle diseguaglianze, e ha annunciato la costituzione di un gruppo di lavoro dell’Anpi, formato da giuristi, proprio sui temi affrontati nell’incontro.
Nel corso dell’iniziativa, dedicata alla memoria di Amadou Jawo, ventiduenne richiedente asilo del Gambia, suicidatosi il 18 ottobre in seguito al respingimento della sua richiesta, il presidente dell’Anpi di Roma, Fabrizio De Sanctis, ha annunciato che il Presidente della Repubblica ha conferito alla città la Medaglia d’Oro al Valor Militare per la Resistenza: una notizia estremamente positiva, che premia l’impegno dell’Anpi e che certamente concorrerà a rafforzare la caratterizzazione antifascista e democratica, mai venuta meno, della capitale d’Italia.
Pubblicato venerdì 26 Ottobre 2018
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