Questo 2021 per la Turchia guidata da Recep Tayyip Erdoğan è iniziato con diverse criticità che stanno mettendo a dura prova la tenuta del Paese. Gli investitori stranieri si stanno defilando, la lira turca è in forte affanno con un vistoso aumento del divario rispetto al dollaro. Secondo la banca d’investimenti statunitense Goldman Sachs, negli ultimi due anni la banca centrale turca ha speso circa 100 miliardi di dollari per fermare la svalutazione della lira. Inoltre la disoccupazione giovanile ha raggiunto un tasso del 29% con punte del 38 tra i neolaureati.
Anche nella gestione della pandemia i numeri non sono incoraggianti: terapie intensive piene, crescita dei casi positivi, mancanza di apparecchiature per assistere artificialmente la respirazione . Per questa ragione l’Associazione dei medici turchi (Ttb) protesterà nei prossimi giorni davanti al ministero della salute e nei distretti provinciali perché “non solo i pazienti covid ma anche tutti gli altri non possono accedere alle cure. I problemi non possono essere cancellati”, ha spiegato in conferenza stampa la presidente Şebnem Korur-Ficancı.
Qualche giorno fa il presidente del consiglio italiano Mario Draghi ha definito “dittatore” l’uomo forte di Ankara in merito al cosiddetto sofa-gate, quando la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen nella visita in Turchia è stata lasciata prima in piedi e poi si è dovuta accomodare su un divano, defilata dal centro della scena, anziché sulla sedia di rappresentanza, al cospetto del presidente turco padrone di casa con accanto Charles Michel, presidente del Consiglio europeo. Delle ultimissime ore la replica diretta di Erdogan a Draghi, a distanza di quasi una settimana: “Maleducato, le sue parole hanno colpito come un’ascia le relazioni tra Italia e Turchia”.
Per la prima volta un leader occidentale ha usato un appellativo molto forte e che non lascia spazio a equivoci il presidente di un Paese amico come la Turchia, membro della Nato. Eppure è da diversi anni che gli oppositori di Erdoğan denunciano, a costo di essere privati della libertà personale, il suo autoritarismo.
Lo stato in cui versano le libertà civili e i diritti umani in Turchia si è ulteriormente deteriorato. Sono passati più di tre mesi dall’inizio delle proteste di centinaia di studenti turchi dell’università Boğaziçi di Istanbul, considerata una roccaforte dei liberali, per la nomina a rettore di Melih Bulu, compagno di partito di Erdoğan.
Secondo gli studenti è una nomina politica, nel solco del disegno del presidente che dopo il fallito colpo di Stato del 2016 controlla personalmente molte cariche pubbliche. Bulu è addirittura il primo rettore scelto al di fuori del mondo accademico dopo il colpo di Stato militare del 1980. Erdoğan non ha esitato a definire gli studenti che da oltre cento giorni resistono e manifestano contro questa scelta “terroristi” (epiteto che, del resto, utilizza contro tutti i suoi oppositori).
A fine marzo il governo turco ha annunciato il rilancio del progetto del canale di Istanbul che, alternativo al Bosforo, collegherebbe il mar Nero al mar di Marmara, grande opera sospesa nel 2018 a causa della crisi finanziaria e a cui si oppongono le associazioni ecologiste.
Questa notizia ha riacceso il dibattito sulla possibilità per il Paese della mezza luna di abbandonare la Convenzione di Montreux del 1936 che regola la navigazione attraverso gli stretti. Dopo l’annuncio del governo, 104 ufficiali in congedo della marina turca hanno pubblicato una lettera aperta, avvertendo che il ritiro dalla Convenzione metterebbe in pericolo la sicurezza e la sovranità della Turchia. Il giorno successivo dieci degli ufficiali firmatari sono stati arrestati con l’accusa di aver complottato contro l’ordine costituzionale.
La revoca della Convenzione marittima è anche una priorità per gli Stati Uniti perché così come altri Paesi otterrebbero l’accesso illimitato al mar Nero per le proprie navi militari. Inoltre dopo le frizioni degli anni recenti, dettate per esempio dall’acquisto del sistema missilistico russo S-400 da parte della Turchia, Paese Nato, potrebbe contribuire a migliorare i rapporti tra Washington e Ankara.
La notizia del possibile ritiro dalla Convenzione di Montreux è stata inaspettata quanto quella del cambio del presidente della banca centrale Naci Ağbal, uno dei più fidati burocrati conservatori, sollevato dal suo incarico appena quattro mesi dopo la sua nomina, criticato proprio dalla stampa governativa per aver alzato i tassi di interesse. A capo della banca centrale quindi è stato nominato un collaboratore di Yeni Şafak, quotidiano filogovernativo vicino alla cerchia di Erdoğan. Normale amministrazione negli ultimi anni nella Turchia dell’uomo forte che gestisce ogni affare fiutando con spregiudicato pragmatismo il clima politico, conscio dei problemi economici del Paese.
Il clima culturale della Turchia governata da Erdoğan ha portato di recente al suo compimento più visibile in Occidente: il ritiro dalla Convenzione di Istanbul di un Paese in cui i femminicidi e la violenza di genere aumentano ogni giorno e vengono “giustificati” dalla narrativa tossica del Presidente e dei suoi colleghi di partito.
Per quanto riguarda gli oppositori politici, i casi sono numerosi e all’ordine del giorno. A metà marzo presso la Corte costituzionale è stata avviata la causa per chiedere lo scioglimento del partito democratico dei popoli, l’Hdp, per i suoi presunti legami con i curdi del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan.
A causa di omissioni procedurali, la richiesta non è stata accolta dalla Corte, ma l’Hdp, il secondo partito di opposizione del Paese, rischia ancora di essere messo al bando dal momento che le pressioni per la chiusura di questa organizzazione, roccaforte dei curdi e dei turchi progressisti, sono continuamente alimentate dal Mhp, il Partito del movimento nazionalista di Devlet Bahçeli cioè il braccio politico dei Lupi grigi, alleato del partito di Erdoğan.
Al deputato dell’Hdp Ömer Faruk Gergerlioğlu è stata revocata l’immunità parlamentare e in seguito è stato brutalmente preso in custodia, accusato di propaganda terroristica per un tweet postato nel 2016. Gran parte della dirigenza dell’Hdp, partito di sinistra che raccoglie le anime progressiste della Turchia co-presieduto da un uomo e da una donna, si trova in prigione. (Nel 2019 avevamo intervistato il co-presidente dell’Hdp Sezai Temelli che ancora una volta metteva in guardia rispetto ai pieni poteri di Erdoğan)
E dal 2016 sono in prigione, sempre con accuse di propaganda terroristica, gli ex co-presidenti dell’Hdp, Figen Yüksekdağ – parlamentare e giornalista turca – e Selahattin Demirtaş, denominato dalla stampa occidentale “l’Obama turco” – avvocato curdo e parlamentare – simboli di una nuova generazione di politici che a lungo si è spesa per il dialogo, la convivenza e la cessazione delle ostilità del quarantennale conflitto curdo-turco.
Anche i membri del Pkk sono considerati terroristi dalla Turchia: l’ideologo e fondatore del Partito dei lavoratori del Kurdistan, Abdullah Öcalan, è da 22 anni in carcere in una prigione di massima sicurezza in un’isola militarizzata nel mar di Marmara, al largo di Istanbul. Il “Mandela curdo” in più di venti anni di prigionia ha scritto una decina di libri che hanno rivoluzionato il modo di fare politica dei partiti curdi teorizzando la “liberazione della donna” nella società prima che la liberazione del Kurdistan.
I partiti curdi – anche fuori dalla Turchia – si ispirano al cosiddetto “confederalismo democratico”, hanno parità di cariche tra uomo e donna, c’è sempre un co-presidente e una co-presidente a ogni livello, hanno tra i valori cardine il rispetto delle minoranze e dell’ambiente.
Tornando a Erdoğan. Nel 2019 il suo partito, l’Akp, ha subito una disfatta alle elezioni amministrative, soprattutto nella “sua” Istanbul, e questo ha contribuito a inasprire le mosse e l’aggressività del presidente sia all’interno del Paese sia all’estero con le partite aperte in Siria, in Libia e in generale nel Mediterraneo. Si avvicinano le elezioni del 2023 e le iniziative per accontentare da una parte l’elettorato islamo-conservatore e dall’altra i nazionalisti potrebbero continuare.
L’anno scorso, a luglio, si è consumata un’azione simbolo per il presidente quando l’ex basilica cristiana di Santa Sofia, trasformata in un museo nel 1934, è tornata ad essere una moschea con il plauso degli islamisti conservatori. La rivendicazione del sogno neo-ottomano di Erdoğan ha rappresentato l’ennesima strumentalizzazione del passato per compensare le difficoltà in politica interna e dare fiato alla narrazione della “sua” Turchia.
Il reis, il capo, come viene definito dall’inizio della sua ascesa politica, è molto pragmatico nei calcoli proprio perché deve accontentare chi, come il partito nazionalista di estrema destra Mhp di Bahçeli gli ha garantito l’appoggio alle prossime elezioni, se deciderà di indirle alla scadenza naturale nel 2023. Le pressioni di Bahçeli, molto vicino alle leve del cosiddetto “stato profondo” turco e filo-atlantista – il cui appoggio è stato determinante per la rielezione di Erdoğan a presidente nel 2018 – sono servite anche per l’adozione del presidenzialismo che ha tra i fini la totale marginalizzazione ed esclusione dalla politica attiva del movimento curdo che ha ottenuto successi elettorali di peso negli ultimi anni. Quando fu fondato, nel 1969, il partito della destra fascista turca Mhp fu molto attivo, e in quegli anni di violenze, nel conflitto tra destra e sinistra turche persero la vita migliaia di militanti di sinistra.
Per quanto riguarda una delle rare visite dei politici europei ad Ankara, il recente incontro della “sedia mancante” tra Ursula von der Leyen, Charles Michel e Erdoğan è servito – secondo i rappresentanti politici di Bruxelles – ad avviare un miglioramento delle relazioni tra l’Ue e Ankara. Tra i passi in agenda c’è lo sforzo per risolvere le controversie sui confini marittimi tra Turchia, Grecia e Cipro, in gioco ci sono i diritti sui giacimenti di gas naturale nel Mediterraneo orientale, le prospettive di un’unione doganale – che interessa economicamente la Turchia ma anche i governi europei – e altri incentivi.
C’è anche un nodo immigrazione. I funzionari della Ue hanno elogiato la gestione turca di oltre 3,6 milioni di rifugiati siriani che vivono nel Paese. Inoltre il “patto migratorio” del 2016 resta valido perché Erdoğan si è impegnato a bloccare i migranti irregolari che tentavano di passare il confine con la Grecia per entrare in Europa in cambio di 6 miliardi di euro dall’Ue. Il patto sarà prorogato formalmente e a breve verrà presentata una proposta di rifinanziamento.
La visita degli alti rappresentanti Ue è avvenuta lo stesso giorno in cui la giornalista Melis Alphan è stata processata a Istanbul con accuse di terrorismo per una foto condivisa sui social delle celebrazioni del Newroz (il capodanno curdo) nel 2015 a Diyarbakır, città curda nel sud-est del Paese, che includeva bandiere del Pkk. Alphan rischia fino a 7 anni e mezzo di carcere, ma è solo una dei giornalisti che saranno processati nelle prossime settimane.
Nell’indice mondiale sulla libertà di stampa di Reporters sans frontières (Rsf) la Turchia è al 154° posto su 180. Secondo l’organizzazione, le leggi anti-terrorismo turche vengono utilizzate per intimidire e mettere a tacere giornalisti e media che non rispettano la linea ufficiale del governo sulla questione curda.
Dalla Turchia passano i grandi gasdotti e oleodotti che dal Kazakistan, dall’Azerbaijan e dalla Russia garantiscono l’approvvigionamento energetico dell’Europa. Questa posizione strategica ha permesso a Erdoğan negli anni di giocare su più tavoli. Non va dimenticato inoltre che l’Italia è il terzo partner commerciale della Turchia.
Molte note grandi e medie imprese italiane sono da tempo presenti nell’economia turca. “Dopo le proteste popolari di Gezı Park a Istanbul nel 2013, gli ottimisti hanno visto il crescente autoritarismo del presidente turco come parte di un periodo di transizione o di una democrazia dormiente che potrebbe essere risvegliata in qualsiasi momento”, scrive Pinar Tremblay su Al-Monitor. “Queste percezioni di speranza – continua Tremblay – costituiscono la base delle argomentazioni secondo cui i giorni in carica di Erdoğan sono contati e che la sua storia e la sua epoca sono quasi finite. Questo è un pio desiderio. La realtà è che la Turchia è passata da un regime sull’orlo dell’autoritarismo a uno completamente autoritario”.
Antonella De Biasi
Pubblicato giovedì 15 Aprile 2021
Stampato il 26/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/la-turchia-annientata-dalla-democratura-di-erdogan/