In un periodo di tempo che il decreto legge n. 26 del 2020 ha fissato tra il 15 settembre e il 15 dicembre, e presumibilmente il 20 e 21 settembre, gli elettori saranno chiamati – in un improvvido election day che non consentirà un’adeguata informazione nel corso della campagna elettorale, oltre che al voto per il rinnovo di alcuni consigli regionali e comunali – a pronunciarsi sulla legge costituzionale dal titolo “Modifica degli articoli 55, 56 e 59 della Costituzione, in materia di riduzione del numero dei parlamentari” che porta da 630 a 400 i membri della Camera dei deputati e da 315 a 200 i membri elettivi del Senato, fissando inoltre a cinque il limite numerico dei senatori a vita nominati dal Presidente della Repubblica, oltre ai senatori di diritto (ex presidenti della Repubblica).
È del tutto probabile che la consultazione – richiesta ai sensi dell’art. 138, secondo comma, della Costituzione da un quinto dei componenti del Senato (dove la legge è stata approvata in seconda deliberazione a maggioranza assoluta dei componenti, mentre alla Camera dei deputati è stata approvata con una maggioranza superiore ai due terzi, ovvero con un quorum preclusivo della richiesta referendaria da parte di questo ramo del Parlamento) – darà esito confermativo di una legge che, a di là della sua modesta portata prescrittiva, si presenta, in ultima analisi, come il punto di arrivo di una campagna politica ispirata alla denigrazione sistematica dell’istituzione parlamentare condotta in particolare da una formazione, il Movimento Cinque Stelle, il cui leader ha più volte fantasiosamente proposto di sostituire il sorteggio al voto popolare, quale metodo di designazione dei membri delle Camere, e i cui esponenti, giunti a conseguire la maggioranza relativa nelle elezioni del 2018, avevano manifestato l’intenzione di volerle aprire “come una scatoletta di tonno” (senza peraltro chiarire in che cosa consistesse un così minaccioso intendimento).
L’ossessiva ripetizione di slogan contro i privilegi veri o presunti del ceto politico – ai quali anche la recente sentenza di annullamento dei tagli ai vitalizi adottata dal Consiglio di garanzia del Senato offre ulteriori argomenti –, la reiterazione altrettanto ossessiva della contrapposizione tra una élite autoreferenziale e ignara della realtà di un popolo ad essa ontologicamente contrapposto e alla ricerca di una rappresentanza al di fuori dei canali istituzionali ha alimentato, negli ultimi anni, una estesa campagna di sfiducia e di ostilità nei confronti delle istituzioni parlamentari. Si tratta, peraltro, di un fenomeno globale, limitato non solo all’Italia, ma esteso in molte parti d’Europa e delle Americhe, che si manifesta con particolare virulenza laddove gruppi dirigenti spesso inadeguati hanno gestito per anni politiche inidonee a restituire fiducia e speranza a una società in cui l’area della povertà, delle diseguaglianze e dell’emarginazione si è ampliata a partire dalla crisi economica esplosa nel 2008 e sulla quale la pandemia è destinata a produrre un effetto moltiplicatore di cui, a oggi, è difficile prevedere la portata e gli esiti.
Di certo, il referendum interviene in un momento in cui la diffusione del Covid 19 e le misure di contrasto del contagio da un lato hanno distolto l’attenzione dell’opinione pubblica dalle problematiche più schiettamente istituzionali, ma dall’altro hanno sollevato questioni di non trascurabile rilievo proprio in relazione a temi che investono direttamente i modelli di governance di una società democratica: temi che l’emergenza sanitaria ha posto in rilievo, ma che – è bene dirlo – preesistevano ad essa, pur manifestandosi con minore intensità.
Si tratta di una problematica che presenta molte sfaccettature (si pensi, ad esempio, alle criticità emerse nei rapporti tra il governo centrale e i governi regionali), ma ai fini dell’economia del discorso, è sufficiente circoscriverla ad alcune questioni. La prima riguarda il rapporto tra competenze tecnico-scientifiche e politica: l’emergenza Covid 19 ha messo in discussione il ricorrente atteggiamento di insofferenza della politica nei confronti delle obiezioni rivolte appunto ad alcune scelte di governo da parte di ambienti accademici o scientifici o da singoli soggetti titolari di specifiche competenze: non si dimentichino, a questo proposito, i “professoroni” come polemicamente il premier Renzi definiva gli studiosi dissenzienti nei confronti della sua riforma costituzionale, o l’invito “a candidarsi” rivolto dall’allora ministro Salvini per tacitare i suoi critici non parlamentari. La diffusione del Covid 19, e la conseguente necessità di avvalersi di consulenze scientifiche in campo sanitario da parte dell’esecutivo, ha costretto a ridefinire sia pure tacitamente il rapporto tra competenze tecnico-scientifiche (in campo sanitario in prima battuta, ma successivamente esteso in altri ambiti) e la politica, mettendo in luce la mobilità di un confine che, come è stato rilevato non senza qualche ragione, è sembrato alcune volte spostarsi con modalità tali da appannare la centralità della funzione di indirizzo politico svolta dagli organi rappresentativi e, con essa, il principio fiduciario su cui poggia il raccordo tra il Legislativo e l’Esecutivo.
Questo rilievo conduce al secondo aspetto, che, in una certa misura, si riconduce al primo, e riguarda i passi in avanti che nel corso dell’emergenza sono stati compiuti nella direzione di un accentramento dei poteri di decisione nelle mani dell’Esecutivo a scapito del Parlamento. Senza unirsi alle interessate lamentazioni di quanti, soprattutto a destra, hanno ravvisato nelle misure di contenimento del contagio delle violazioni (inesistenti) dei diritti costituzionali, occorre però riconoscere che l’emergenza sanitaria ha impresso una forte accelerazione a un processo di trasferimento dei poteri dal Parlamento al Governo che in realtà è in corso da svariati decenni, sia pure in forme meno eclatanti. A riprova di ciò, va tenuto presente che tutti i progetti di riforma costituzionale succedutisi nel corso delle diverse legislature, dalla Commissione Bozzi in avanti si sono mossi nel senso di assecondare questa tendenza, e la gran parte di essi, dal progetto della Commissione bicamerale, alla riforma Berlusconi, alla riforma Renzi, ha contemplato una riduzione del numero dei parlamentari. A ciò si aggiunga che il filo rosso che collega i vari dibattiti sul sistema elettorale è costituito da un costante propensione delle forze politiche a definire normative orientate a privilegiare l’obiettivo della governabilità rispetto alla rappresentatività delle Camere: un tema di grande rilievo, già affrontato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014. Questa pronuncia, nel dichiarare l’incostituzionalità parziale della legge elettorale maggioritaria nota come “Porcellum”, sottolineava che lo scopo di agevolare la formazioni di maggioranze di governo stabili, di per sé legittimo, non può però essere perseguito mediante la compressione del principio costituzionale di rappresentanza attuata mediante la messa a punto di meccanismi legali della trasformazione dei voti in seggi tali da alterare “la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento della volontà popolare, secondo l’art. 1, secondo comma, Cost.”.
Per finire, non si può tacere il ruolo preminente che l’organo monocratico di governo (sindaco, presidente della Giunta regionale) ha assunto nella legislazione elettorale per i comuni e per le regioni, dando luogo a un forme di governo locale fortemente squilibrate a scapito delle funzioni e delle prerogative dei consigli elettivi.
Il discredito gettato sul Parlamento, dunque, non è solo l’esito estemporaneo di campagne politiche più o meno efficaci, ma anche il prodotto di un processo di ridefinizione degli equilibri istituzionali che lo ha visto progressivamente cedere terreno in nome del primato del principio di governabilità.
Occorre pertanto chiedersi se la riforma che i cittadini si accingono a votare fornisca una risposta ai quesiti posti, che riguardano temi cruciali, quali appunto il rapporto tra competenze tecnico-scientifiche e decisori politici, l’equilibrio tra governabilità e rappresentanza e quindi il nesso tra esecutivo e camere rappresentative. Per delineare una risposta, può essere utile gettare uno sguardo sul sito del Dipartimento per le riforme istituzionali della Presidenza del Consiglio dei ministri:
“La proposta di legge costituzionale – vi si legge – prevede una drastica riduzione del numero dei parlamentari modificando gli articoli 56 e 57 della Costituzione passando dagli attuali 630 a 400 deputati e dagli attuali 315 a 200 senatori.
L’obiettivo è duplice: da un lato favorire un miglioramento del processo decisionale delle Camere per renderle più capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini e dall’altro ridurre il costo della politica (con un risparmio stimato di circa 500 milioni di euro in una Legislatura).
La riforma consentirà all’Italia di allinearsi al resto d’Europa: l’Italia, infatti, è il Paese con il numero più alto di parlamentari direttamente eletti dal popolo (945); seguono la Germania (circa 700), la Gran Bretagna (650) e la Francia (poco meno di 600)”.
Partiamo dall’ultimo punto: l’allineamento all’Europa non può essere invocato solo comparando il numero assoluto dei parlamentari di ciascuno Stato. Deve essere preso in considerazione anche il rapporto numerico tra cittadini ed eletti: attualmente, in Italia c’è all’incirca un deputato ogni 100 mila abitanti; con la riforma il rapporto scenderà a 0,7, il più basso tra tutti i Paesi membri della UE. Prendendo a riferimento i Paesi indicati dal sito della Presidenza del Consiglio (Francia, Gran Bretagna e Germania), il medesimo rapporto è oggi pari a 0,9 per Francia e Germania e a 1 per la Gran Bretagna, quindi sostanzialmente già allineato con Paesi simili all’Italia.
Inoltre, con l’approvazione definitiva della riforma, risulterebbe fortemente ridimensionata la rappresentanza territoriale, in particolare per alcune aree del Mezzogiorno: la Puglia passerebbe da 42 a 27 deputati e da 20 a 13 senatori; la Calabria da 20 a 13 deputati e da 10 a 6 senatori, la Basilicata da 6 a 4 deputati e da 7 a 3 senatori (Fonte: Camera dei deputati, Riduzione del numero dei parlamentari: AC 1585-B, dossier del Servizio Studi).
Sul fatto che la riduzione del numero dei parlamentari favorisca un miglioramento del processo decisionale delle Camere è lecito nutrire più di un dubbio. Da taluno si è sostenuto che un minore numero di parlamentari comporterebbe una riduzione del numero degli emendamenti, degli interventi in Commissione e in Aula e una conseguente contenimento dei tempi di approvazione delle leggi. In realtà, il numero dei parlamentari è poco o nulla influente sulla funzionalità degli organi collegiali e la storia del filibustering parlamentare, nei casi più eclatanti di ostruzionismo, insegna che un piccolo numero di parlamentari può legittimamente bloccare l’attività delle Camere applicando alla lettera talune disposizioni regolamentari: è su di esse, infatti, molto più che sul numero dei parlamentari, che occorre agire se si vuole realizzare un effettivo snellimento delle procedure, anche in questo caso, però, ricordando che la giusta esigenza di accelerare i processi di decisione non deve avvenire a scapito del libero esercizio delle prerogative dei parlamentari e del loro diritto/dovere di esercitare il mandato senza limitazioni improprie e in un contesto normativo di adeguata tutela dei diritti delle minoranze e dei singoli parlamentari a dissentire dal proprio stesso gruppo.
Last, but not least, il tema della “riduzione dei costi della politica”: la Presidenza del Consiglio fornisce la stima di un risparmio di 500 milioni di euro per legislatura, accogliendo una valutazione proveniente dal Movimento Cinque Stelle, ma da più parti contestata: ad esempio, l’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli calcola che il risparmio effettivo sarebbe pari a 57 milioni annui (285 a milioni a legislatura), ovvero allo 0,007 per cento della spesa pubblica italiana, secondo stime effettuate prima dell’emergenza Covid 19.
In sé, la riduzione dei costi di funzionamento degli apparati pubblici può rappresentare un segnale di moralizzazione rivolto dalle istituzioni ai cittadini, e, in tal senso, può concorrere a ricostruire un rapporto di fiducia che negli ultimi decenni si è andato logorando profondamente, con grave pregiudizio del tono generale della vita democratica. Ma una simile opzione ben poco ha a che vedere con la narrazione prevalsa in questi anni, tesa a legittimare una visione insieme pauperistica e populista che ha utilizzato l’argomento del costo della politica per accreditare l’idea che l’insieme delle istituzioni democratiche, e in particolare il Parlamento, costituisca un onere e non una risorsa nelle mani dei cittadini. La proposta di riduzione del numero dei parlamentari, così come formulata nella riforma costituzionale e così come motivata innanzi agli elettori, risente purtroppo di questa impostazione ed è l’espressione di un approccio velleitario, che banalizza, ma non risolve, i problemi e, in prospettiva, li aggrava.
In apertura del documento sulla riduzione del numero dei parlamentari il Comitato nazionale dell’Anpi ha affermato che la riforma costituzionale “non corrisponde, in realtà, ad alcuna necessità concreta e rappresenta semplicemente una manifestazione di quella antipolitica che si fa circolare nel Paese creando un grave discredito verso le istituzioni fondamentali della Repubblica”. È un giudizio severo, ma del tutto condivisibile, se è vero, come si è cercato fin qui di dimostrare, che si tratta di un provvedimento inidoneo ad affrontare i veri nodi della questione istituzionale, ossia la funzionalità e la democraticità del circuito della decisione politica, il ruolo centrale e irrinunciabile che in tale ambito deve assumere il Parlamento quale più diretta espressione del principio della sovranità popolare, la garanzia dell’equilibrio tra le esigenze della governabilità e quelle della rappresentanza. E parlando di rappresentanza, non ci si può limitare al tema dell’adeguamento della legge elettorale alla riforma, ma occorre porsi nella prospettiva della promozione della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, della riattivazione di meccanismi efficaci di selezione della classe politica e di un complessivo innalzamento della qualità della vita democratica, che l’emergenza sanitaria ha contribuito a porre all’ordine del giorno nella sua effettiva dimensione di necessità e urgenza.
Pubblicato mercoledì 8 Luglio 2020
Stampato il 25/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/la-riforma-che-non-riforma/