Com’era bella da ragazza Anna Bravo con quei suoi lunghi capelli e la frangetta che aveva conservato, anche ora incanutita, in un viso irradiato da un sorriso che veniva dal cuore. E anche ora a 80 anni passati (ma come è possibile, già 81 anni?) aveva il fisico e la grazia di un’adolescente, pur se si muoveva con difficoltà e indossava grandi occhiali scuri perché non riusciva quasi più a vedere, e bisognava scriverle al computer a stampatello. Ma lei rispondeva sempre, con la condivisione emotiva e intellettuale che sapeva avere nei confronti delle persone, ma soprattutto con noi “vecchie ragazze” che avevamo vissuto insieme gli anni del ’68, il Pci (lei poi Lotta Continua) e soprattutto il movimento femminista, nelle sue varie sperimentazioni e angolature.
Ci volevamo bene, ed è una caratteristica che ritroviamo dopo tante discussioni e forti contrapposizioni e anche litigate politiche nei movimenti di quegli anni lontani. Cercavamo tutte una risposta, più risposte di verità ai tanti interrogativi storici, sociologici, etici, esistenziali di quegli anni lontani, ma per ciascuna di noi estremamente formativi e fecondi. E ciascuna di noi ha percorso la sua pista di ricerca. Per Anna è stata la scuola severa degli studi storici, come docente di Storia sociale, inizialmente all’Università di Torino come assistente di Guido Quazza, che era stato partigiano, e questa scelta della storia della Resistenza ha segnato tutta la sua opera e il suo impegno culturale e civile (era componente anche del comitato scientifico della fondazione Alex Langer e dell’Istituto per la storia della Resistenza “Giorgio Agosti” di Torino).
E significativamente uno dei suoi primi lavori, “La vita offesa”, scritto nel 1987 in collaborazione con Daniele Jallà, fu a partire dalla memoria dei lager nazisti “nel racconto di duecento sopravvissuti”. Un’esperienza culturale ed etica – impossibile per chi fa storia orale non coinvolgersi nella viva voce di coloro che raccontano le tragiche vicende di quegli anni – che ha portato il suo interesse recente allo studio dei “giusti” dalla Shoah fino ad oggi. Nel 1995, cinquantenario della Liberazione, ad esempio, era uscito il fondamentale “In guerra senz’armi. Storie di donne. 1940-45”, scritto con Anna Maria Bruzzone, che ampliava lo sguardo storico al contributo delle mille forme di “Resistenza civile” di cui sono state protagoniste le donne.
Non dimenticava il contributo della lotta armata: devo a Maria Grazia Sestero e a lei le preziose introduzione e prefazione del nostro comune ricordo di Livia Laverani Donini – che fu partigiana combattente – nel mio recente libro “Compagna Livia”, (Seb27), ma la sua pista di ricerca si era sempre più indirizzata verso le esperienze di pacifismo attivo e la nonviolenza: contro la retorica delle “virtù guerriere” scriveva: “Se la pace può essere pace ‘al femminile’ la base sta proprio nel rifiuto di quella forma mentale”. E, insieme a saggi e ricerche sui movimenti – dal ’68 al femminismo – un suo fondamentale contributo è stato il libro “La conta dei salvati”, che anche a Torino abbiamo presentato e discusso che, in uno scenario internazionale a partire dalla Prima guerra mondiale, ha ripercorso una storia plurale dimostrando come “il sangue risparmiato faccia storia quanto quello versato”.
Grazie ancora, Anna, che ti sei spenta nel sonno in quella notte del sabato 7 dicembre, non dimenticheremo la tua lezione e il tuo impegno, e l’empatia con cui sapevi trasmetterli con la tua voce grave e dolce, indimenticabili come sei stata tu.
Piera Egidi Bouchard, componente del Comitato provinciale Anpi di Torino
Pubblicato venerdì 20 Dicembre 2019
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