Il passato non ritorna, semmai è questo eterno presente che non passa. E così facendo, invece che permetterci di superare ciò che è avvenuto, ricordandolo infine come storia trascorsa, ci consegna la sgradita sorpresa di vedere tornare a galla quello che avremmo voluto cancellare una volta per sempre. Forza Nuova, astro brillante nel firmamento della destra radicale nostrana, annuncia per il 28 ottobre una «marcia dei patrioti» a Roma, novantacinque anni dopo la lugubre passeggiata delle camicie nere. È solo l’ultimo atto, in ordine di successione, di una lunga stagione di provocazioni in crescendo e, come tali, destinate a ripetersi. Se ne può stare certi.
Detto questo, che cosa sta per davvero succedendo? Di cosa stiamo parlando? Torna il fascismo? Soprattutto, esistono rischi per la tenuta democratica, a fronte delle grandi difficoltà che oramai da molto tempo la politica incontra nel governare cambiamenti che sembrano metterla alle corde? Non a caso, la stampa della destra “liberale” (il Tempo, Libero, il Giornale, adesso anche la Verità) tambureggia ossessivamente da più mesi, ripetendo sempre le stesse parole, così come quando si snocciola una litania o si recita una giaculatoria: cos’è questa storiella del ritorno del fascismo? Perché insistete su qualcosa che non sta avvenendo nei fatti? Si tratta, per parte sua, della ripetizione di un mantra rassicurante: il fascismo non c’è né starebbe ritornando. Chi ne denuncia la presenza, chi ne ipotizza la minaccia, lo fa per calcolo di interesse. Vuole solo creare un falso timore. I problemi sono ben altri – affermano perentoriamente tali maestri di liberalismo – a partire dall’«invasione degli immigrati». D’altro canto, si premurano subito di aggiungere con sospetta ripetitività, «le ideologia appartengono al passato». Quindi, anche il fascismo. In genere si prodigano poi in ironie sulla medesima Anpi (un gruppo di anziani, una bocciofila di rancorosi), su Emanuele Fiano (un politico che usa furbescamente il discorso contro il fascismo per autopromuoversi), contro Laura Boldrini (nei confronti della quale si ripete oramai quotidianamente una grandinata di insulti sessisti e non solo) e quant’altri.
Si tratta di un vero e proprio fuoco di batteria, ripetuto tutti i giorni sulle pagine di quei quotidiani e poi fatto rimbalzare nei giudizi di senso comune, al pari di un’ovvietà assolutamente assodata. Il fascismo viene presentato dai loro commentatori, generosamente presenti anche nei programmi televisivi, come una sorta di reperto archeologico. Così dicendo, chiunque ne denunci la permanenza e la sua pericolosità, viene immediatamente irriso. Ebbene, a conti fatti proprio l’ossessività con la quale queste testate si rivolgono, spesso con intollerabile sarcasmo, calcolata saccenza e un’ironia sbracata, contro chi si interroga sugli umori e i malumori che attraversano l’Italia, è semmai un indice del fondamento di timori oramai diffusi. Un’estate di rancori e di bile sta declinando. Quanto l’autunno e l’inverno a venire possano essere non meno pesanti, ce lo diranno i prossimi mesi. Ma in un Paese come il nostro la strategia della negazione, quella per l’appunto che vuole rimuovere l’evidenza dei fatti, è elemento integrante dei problemi stessi che finge di non volere riconoscere. Non a caso. Poiché una parte del mondo dell’informazione coltiva quei risentimenti che sono proprio alla radice del ritorno del fascismo. Spalleggiando – poiché ne accredita i fondamenti e ne legittima la presenza – non tanto i movimenti che inneggiano e si richiamano apertamente ai trascorsi mussoliniani, quanto quel comune sentire che è presente in alcune componenti della nostra società e che fa da brodo primordiale per la rinascita del fascismo.
Facciamo tuttavia un passo indietro e cerchiamo di contestualizzare il senso delle cose che andiamo dicendo. La presenza neofascista, dopo il definitivo crollo del regime mussoliniano e dell’allucinante episodio repubblichino, si è confermata come una costante nella storia della nostra Repubblica. Già nel 1945, peraltro, nessuno si era illuso che i conti con un sistema di oppressione che era durato vent’anni, lasciando nella collettività una forte impronta, potessero essere fatti una sola volta e, soprattutto, per sempre. La stessa dodicesima disposizione transitoria e finale della Costituzione era stata pensata all’interno di un nuovo quadro politico, che rifiutava il fascismo ma non per questo riteneva che ciò sarebbe bastato a cancellarlo dall’orizzonte degli italiani. Il fascismo, infatti, non è un fenomeno residuale e marginale della nostra storia bensì un modo di intendere e praticare sia la politica che le relazioni sociali. Basa l’uno e le altre sulla sistematica prevaricazione, sull’annientamento delle libertà, sulla distruzione di ogni forma di opposizione, sulla tutela di interessi ristretti e di gruppi di pressione circoscritti, sull’affermazione della supremazia di una nazione, di una “etnia”, di una “razza” sul resto delle comunità, sulla spasmodica ricerca di nemici contro i quali scagliarsi.
Alla radice del fascismo non c’è solo l’odio contro il “diverso”, come abitualmente si sente dire, bensì il rifiuto dell’eguale. Se l’eguaglianza è una condizione da costruire, attraverso l’estensione dei diritti, il riconoscimento delle persone nella loro individualità, la redistribuzione della ricchezza prodotta dalla società, lo sviluppo del pluralismo dentro una comune cornice di regole, il fascismo storico è esattamente la negazione di queste premesse. Non è un caso se si sviluppò come reazione all’affermarsi dei movimenti sociali che raccoglievano e articolavano le crescenti domande di riconoscimento espresse dal Quarto Stato, i lavoratori senza altro possesso che non fosse la propria forza lavoro. Non ne odiava la loro “diversità”: piuttosto rifiutava radicalmente la loro richiesta di accesso all’eguaglianza di diritti e opportunità. Non ne ignorava il loro potenziale politico: semmai lo riconosceva per ciò che era, intendendolo quindi annientare una volta per sempre. Questo aspetto va bene compreso perché uno dei più grandi errori – commessi allora e di nuovo ripetuti oggi – è il ritenere che ciò che chiamiamo e definiamo semplicisticamente come «fascismo», nasca da una generica condizione di “ignoranza”, di mera “indifferenza”, una specie di carenza di cognizione morale e di rispetto civile, colmato il quale tutto tornerebbe al suo posto. Non è così. Non è una sola malattia dello spirito, è invece una strategia politica precisa. Il fascismo, novantacinque anni fa, non ignorava, non era indifferente, non esprimeva deficienze di comprensione. Semmai aveva un programma chiaro, intelligibile, intorno al quale raccolse il consenso di diverse forze sociali, non solo quelle più potenti e prepotenti.
Ed allora, iniziamo a mettere in chiaro una cosa: il nuovo fascismo si alimenta di antiche angosce, costruendo intorno a queste un diffuso consenso di una parte della popolazione. Oggi come ieri, né più né meno seguendo il calco del passato. Non c’è ignoranza in ciò. Piuttosto c’è il ripetersi di un modo preciso – in sé per nulla esauritosi, come invece ci piacerebbe credere – di interpretare l’ansia da trasformazione, il disagio da cambiamento, il panico che certuni vivono davanti alle difficoltà che i nostri tempi ci consegnano. Ansia, disagio, panico sono contagiosi. Sono fenomeni collettivi, per meglio dire sociali, poiché danno corpo, conferiscono forma al senso di incertezza che si alimenta dell’imponderabilità, della non calcolabilità, a volte dell’incomprensibilità di ciò che ci succede, quando la bussola della prevedibilità si rivela inutilizzabile. Ci sentiamo più poveri e, quindi, abbiamo paura non solo di esserlo per davvero ma di diventarlo ancora di più con i tempi a venire. Guardiamo con trepidazione i nostri figli e i nostri nipoti. Il futuro non ci consegna promesse ma timori. Il neofascismo, così come aveva fatto già a suo tempo il fascismo storico, finge di prestare attenzione a questo stato di cose, offrendo a quanti siano disposti ad ascoltarlo una facile e illusoria soluzione a problemi altrimenti complessi.
Nella banalizzazione, nella semplificazione, nell’azzeramento della dialettica sociale, ridotta ad un campo di battaglia tra amici e nemici giurati, dove i secondi vanno comunque distrutti, costruisce le sue fortune. Anche per questo è profondamente antidemocratico, poiché non concepisce una società basata sul pluralismo. Anzi, lo rifiuta radicalmente. Se la democrazia è la coesistenza, sotto le medesime regole, gli stessi diritti e con pari risorse (quella che consideriamo la vera eguaglianza), di persone e gruppi tra di loro diversi, il fascismo ne costituisce la più rigorosa negazione. Negando l’eguaglianza cerca di affermare l’uniformità. Attenzione, eguaglianza e uniformità non sono due parole analoghe. L’uniformità, infatti, è l’ossessione per il sempre identico, il bisogno maniacale di omologare, come se la società dovesse essere costituita da individui fatti con lo stesso cliché. Non è un caso se ai fascisti di ieri e di oggi piacciano le uniformi, quei capi di abbigliamento indossati i quali le distinzioni individuali tendono a scomparire, perdendosi dietro i simbolismi che gli abiti portano impressi sulla loro stoffa. La destra radicale contemporanea, al di là delle sue piattaforme politiche rivolte ai militanti e agli aderenti più motivati, gioca da sempre la carta delle crisi economiche per offrire menzognere rassicurazione. Di sé parla come di un soggetto politico che sa dare protezione, contro le minacce di un mondo divenuto di nuovo incomprensibile. Urla ad alta voce, rivolta soprattutto ad un ceto medio in via di declassamento, che ai suoi problemi esiste una risposta “facile” e che questa sta nel trovarsi un nemico contro il quale scagliare la propria rabbia. Fa quindi una vera e propria semina dell’odio. Non a caso sono gli immigrati ad essere finiti nel suo mirino, poiché il razzismo, sul quale i neofascisti soffiano continuamente, non nasce dall’indifferenza bensì dalla diffidenza verso tutto quello che non è identico a se stessi. Il razzismo è quindi divenuto il campo di consolidamento del nuovo senso comune di marca autoritaria.
Ancora una volta, bisogna dirsi che esso non è il prodotto di un difetto di pedagogia civica e neanche un mero coacervo di cattivi sentimenti. Non si lotta contro il razzismo, quindi, per una mera questione di bontà d’animo o di disposizione d’umore alle migliori intenzioni. Il razzismo è lo strumento attraverso il quale, colpendo alcune minoranze, si procede poi a disciplinare la maggioranza, imponendogli un medesimo canone di condotta, pensieri univoci, comportamenti uniformi. Il razzismo è il mezzo con cui si sono affermati i fascismi trascorsi e potrebbero affermarsi quelli presenti, poiché divide le società, crea tifoserie contrapposte, impone la stigmatizzazione e la disumanizzazione di alcuni individui, separandoli dal resto del consesso umano, mentre prescrive agli altri di aderire ad una visione minacciosa, angosciata e repulsiva delle relazioni sociale: o sei come me o sei contro di me.
Il razzismo distrugge la coesione sociale, trasforma il timore del futuro in una perenne rabbia rivolta al presente, alimenta sospetto, si nutre d’angoscia, cerca paura e produce pregiudizio. Il pregiudizio è sempre reversibile: ciò che viene scagliato contro i “diversi”, tali perché intollerabili, non omologabili o uniformabili, potrà poi, un giorno, essere utilizzato anche contro coloro che lo hanno condiviso e utilizzato. Il veleno non guarda in faccia nessuno e non fa distinzioni. L’unica differenza è dettata dalla mano che lo inocula nel corpo della società. Qualcuno potrà obiettare che se un qualche pericolo sussiste, esso tuttavia è evitabile nel momento in cui vi si oppone uno sbarramento politico alla sua diffusione. È senz’altro vero per coloro che non cedono al canto delle sirene. Ma per molti altri non è così. Storicamente, la strada alle peggiori dittature è infatti stata aperta da quelle forze politiche e sociali che ritenevano di potere utilizzare l’autoritarismo a proprio beneficio, magari addomesticandolo, una volta che avesse prodotto i suoi deteriori effetti. Ma il fascismo è come il vaso di Pandora. Nella mitologia greca era il contenitore di tutti i mali che si sarebbero riversati nel mondo una volta che fosse stato aperto. Diciamo e ribadiamo questo poiché oggi è netta la sensazione per cui sussista una sorta di implicita divisione del lavoro. Alle organizzazioni neofasciste, o comunque appartenenti a quell’arcipelago politico-ideologico, si affida il compito di affermare le cose che in bocca ad un parlamentare, o ad una qualsiasi persona, potrebbero risultare (ancora) poco accettabili. Di fatto gli estremismi servono soprattutto a sdoganare l’impensabile. Poi, una volta che ciò è avvenuto, allora anche il peggiore linguaggio e i più ripugnanti pensieri possono entrare nel circuito del dire comune. E soprattutto del fare. Divenendo qualcosa di ovvio, banale e, quindi, in fondo, di bene accetto. Ecco perché raramente il neofascismo si presenta solo con le vecchie vesti. Sarebbe altrimenti anacronistico. Non occorrono le camicie nere per dire che c’è una minaccia all’orizzonte. Oggi il fascismo non si offre al pubblico come dottrina conchiusa. Di sé, invece, dice di costituire il superamento della distinzione tra destra e sinistra, ammiccando alla società in difficoltà, laddove la crisi dello stato sociale, il diffondersi delle nuova povertà, ma anche l’implosione politica delle sinistre, in Italia come in Europa, hanno aperto la strada a continue invasioni di campo. «Né di destra né di sinistra» ma “oltre”: è una vecchia affermazione di senso comune, che finge di volere licenziare il passato per fare fronte ad un futuro altrimenti incerto. Si tratta invece di un vero e proprio meccanismo retorico, usato nel linguaggio corrente per sdoganare il radicalismo di destra mettendo alla berlina qualsiasi ideale pluralista.
Anche da ciò le crociate contro il cosiddetto «buonismo» e, più in generale, l’uso di un lessico offensivo, denigratorio per aggredire e diffamare gli avversari, presentandoli al medesimo tempo come “ricchi”, “avidi”, “indifferenti al destino del popolo”, “traditori” della collettività, “radical-chic”. Lo slittamento dell’asse politico verso la destra radicale avviene soprattutto con la “normalizzazione” di temi e parole che in un tempo neanche troppo lontano sarebbero invece risultati inaccettabili. L’emergenza – quindi – sussiste ed è dettata dai continui slittamenti del senso comune. I quali preparano il terreno alla crisi delle democrazie, svuotandole dal di dentro di contenuti. Ci sono forze politiche che non sono dichiaratamente neofasciste ma che confidano di potersi avvantaggiare di questa radicalizzazione. Sono liste, gruppi e partiti che aspirano ad un ruolo di governo a breve. Non a caso intrattengono buoni rapporti con la galassia nera. Ancora una volta, il tema complesso e di per sé problematico dell’immigrazione ne è un campo di prova. Non l’unico, poiché altre grandi questioni – la giustizia sociale, il diritto al lavoro e ad una retribuzione dignitosa – sono tornate ad essere delle ferite aperte, sulle quali tanti nostri connazionali soffrono ed arrancano faticosamente.
A ciò si riconnette un fatto ulteriore, anch’esso strategico: da diversi anni oramai, in Italia così come in Europa si registra l’ascesa e l’affermarsi di forze politiche scarsamente o per nulla antifasciste. Sarebbe il caso di definirle afasciste, ossia indifferenti al rischio del fascismo. Semmai in loro sussiste invece il vecchio anticomunismo, che ha conosciuto a sua volta alcune trasformazioni. Poiché i partiti comunisti sono oggi pressoché inesistenti, comunque ininfluenti, l’avversione verso ciò che è definito genericamente come «comunismo» diventa rifiuto di qualsiasi tipo di organizzazione sociale che non sia l’«impresa». A ciò si lega l’esaltazione acritica di quanto, con un nome evocativo, quasi magico e mitologico, è conosciuto come «mercato». Il resto non conta più, essendo semmai solo un freno al “naturale” sviluppo dell’economia, grazie alla quale tutto si disporrebbe nel migliore dei modi possibili ed in maniera del tutto spontanea. Il cosiddetto «liberismo» ne è la dottrina. Anche il «populismo», in molte delle sue numerose manifestazioni politiche, sta a modo suo dentro alcune di queste dinamiche o ne intercetta certe espressioni. Liberismo e populismo sono spesso due facce della stessa medaglia: la distruzione della democrazia dei diritti e delle garanzie. L’assenza del codice genetico antifascista non inscrive immediatamente tali movimenti all’interno del radicalismo di destra ma li fa senz’altro più disponibili ad accoglierne diversi temi di fondo, finendo poi con il legittimarli e l’amplificarli: xenofobia, nazionalismo esasperato, suprematismo razzista, protezionismo economico, rifiuto del liberalismo ma anche negazione del ruolo delle agenzie di intermediazione. Il pluralismo dei partiti, dei sindacati, della rappresentanza politica, culturale e sociale, più genericamente dei gruppi diffusi sul territorio e capaci di raccoglierne i bisogni, è infatti presentato come una sorta di inutile residuo del passato, una zavorra da buttare via. Si enfatizza, allora, la deriva individualista e la «disintermediazione»: lo spazio fisico viene lasciato vuoto, le relazioni sociali si depoliticizzano, si dichiara che ognuno vale da sé, abbandonando l’individuo al suo destino. Il fascismo si riaffaccia laddove la politica, in tutte le sue accezioni, perde di importanza, venendo sostituita dal ripiegamento nel privato, dimensione illusoria della vita nella nostra società. E dove avanza il leaderismo più sfrenato, il capo carismatico e onnipotente, che promette di risolvere qualsiasi problema, a patto che gli si offra una fedeltà assoluta e una delega sociale. La trasformazione di quel che resta dei partiti, nel nostro Paese, è peraltro impressionante, e si accompagna alla crisi della democrazia che stiamo vivendo. Sempre meno inclusivi, sempre più espressione di piccoli gruppi di potere, di reti di interessi a volte quasi familiari.
I partiti non hanno più, né aspirano ad avere, una qualche funzione di pedagogia sociale, di educazione all’agire democratico, né sono capaci di costruire politiche coerenti con l’interesse generale. Non rappresentano, semmai rispecchiano e assecondano gli umori prevalenti, magari sull’onda dei sondaggi. Da questi partiti è difficile attendersi la capacità di affrontare il nodo della diseguaglianza tra persone, gruppi sociali, parti del mondo. Ecco il vero spazio del fascismo, che da sé ha ben poco o nulla di inedito da proporre ma che sa che i vuoti, nella politica come nella società, si possono benissimo occupare con la propria presenza. Poiché esso è soprattutto una gigantesca macchina mitologica, che finge di essere nuovo quando invece ripete ossessivamente la forza dei suoi pregiudizi, le finzioni di cui è portatore, le menzogne rassicuranti con le quali intossica la collettività. Il fascismo non è morto nel 1945. Al contrario, la sua visione del mondo, la sua concezione dell’uomo e la sua psicologia di massa, precedono la forma storica assunta nel ventennio e sono più longeve della dittatura mussoliniana. Già ne parlava, a modo suo, molti anni fa Umberto Eco, quando usava l’espressione di «fascismo perenne» o persistente. Il ruolo e il significato dell’antifascismo devono quindi riproporsi a partire da questa consapevolezza: non si tratta solo di un nucleo di valori a sé stanti, isolabili dal contesto storico, civile e morale in cui sono nati e cresciuti. Non stanno in una teca, alla quale rivolgere lo sguardo distrattamente. Semmai l’antifascismo odierno segnala la consapevolezza di quanto la crisi della democrazia sia avanzata e di come ad essa non si possa rispondere riproponendo vecchi modelli bensì la necessità di ristabilire il primato della politica sull’economia. Vasto programma, decisamente impegnativo. Lo era anche la lotta al fascismo storico, quando tutto sembrava perduto. E invece non lo fu. D’altro canto, senza antifascismo non c’era democrazia possibile; né potrà esserci, per i tempi a venire.
Claudio Vercelli, storico – Università cattolica del Sacro Cuore
Pubblicato venerdì 8 Settembre 2017
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